Il movimento e l'organizzazione cooperativa
Questo contributo vuole mostrare quanto fecero i cattolici italiani per la diffusione delle cooperative, accennando all’ipotesi che esse fossero più sostegno del processo di sviluppo che tamponi delle crisi sociali ed economiche. Il contributo cerca di individuare sommariamente i momenti e le circostanze del disimpegno delle cooperative dalla fondamentale dimensione parrocchiale/diocesana verso una piena autonomia organizzativa, corrispondente alla formazione di proprie strutture associative di livello superiore e in accordo con la decisa acquisizione della fisionomia di impresa economica, ritenuta condizione per mantenere l’originario carattere sociale.
La preferenza concessa dai cattolici alla cooperazione iniziò a manifestarsi nell’ottavo decennio del secolo XIX quando una generalizzata caduta dei prezzi, resa possibile dalla ‘mondializzazione’ dell’economia, pose in difficoltà le agricolture regionali inserite nel mercato internazionale. Da questo momento, di solito si ritiene che le cooperative siano «germinate» ed affermate come alternative ai momenti di crisi. Anche Livio Malfettani, presidente della Confederazione cooperativa italiana (Cci), nel 1965, aveva presente l’opinione diffusa secondo cui dalla cooperazione «[…] tutto si attende nei momenti difficili ed a cui si assegnano talvolta virtù taumaturgiche»1. Naturalmente le cooperative furono non solo provocate dalle crisi ma ne subirono esse stesse le conseguenze, nell’immediato primo dopoguerra e nella seconda metà degli anni Venti del XX secolo. La questione che si pone riguarda la prevalenza del carattere sociale, di autodifesa dei soggetti interessati, ovvero quello economico di correttivo delle distorsioni del mercato e di inserimento di un nuovo soggetto competitivo. Questa distinzione può essere rappresentata, prima della Grande guerra, dalle latterie sociali a ‘tipo trevigiano’ e a ‘tipo friulano’. Queste si basavano solo sull’esercizio della mutualità, ossia una circolazione del prodotto interna alla compagine sociale e una bassa capitalizzazione; le prime, al contrario, erano più capitalizzate e vendevano sul mercato nazionale, ambendo a quello estero. In questo secondo caso, possiamo ritenere che le cooperative più che una risposta circoscritta alla crisi abbiano rappresentato un ulteriore passo nel cammino del miglioramento strutturale dell’agricoltura, a questo punto, reso ancor più necessario dall’affacciarsi della crisi. In questo modo anche le istanze sociali potevano venir soddisfatte dall’aumento della ricchezza prodotta. Chi più chi meno la crisi colse molte agricolture italiane in un momento d’evoluzione modernizzatrice: in Trentino, Lombardia, alcune province venete, Friuli-Venezia Giulia, Umbria, Marche, Toscana, Lazio, Sicilia, Puglia dove le cooperative sostennero la specializzazione e una ‘fase espansiva dell’agricoltura’. Forse il nesso miglioramento agricolo in atto-cooperative può essere ulteriormente suggerito, a contrario, dalla situazione di presenza marginale delle cooperative in agricolture chiuse e immobili, come in Basilicata. L’obliterazione dei costumi ‘feudali’ nel rapporto colonico, l’istanza di miglioramento della vita delle classi popolari ed anche la battaglia contro la ‘multiforme’ usura mediante la fondazione di cooperative assumono un altro significato se le si considerano dinamicamente come parti di un processo di sviluppo.
Se le cooperative proiettavano verso il futuro, esistevano tuttavia, alla loro base, precedenti forme associative ed una cultura appropriata da cui in qualche modo dipendevano. Per quanto riguarda l’inclinazione culturale verso la cooperazione, si è parlato di un abito cooperativo, ‘forgiato’ da una ‘forte’ tradizione comunitaria regionale, ad esempio rappresentata dalle diverse forme che ancora assumeva la proprietà collettiva che avrebbe fatto apparire come spontaneo l’atto cooperativo. Questa tesi forse non è dovunque applicabile (ad esempio il Friuli sembrerebbe fare eccezione) ma non sono poche le realtà regionali che ne hanno permesso l’evocazione.
Certamente la modalità associativa più vicina alle cooperative era rappresentata dalla società di mutuo soccorso da cui molto spesso derivarono2. Questa può venir considerata la norma generale ed è interessante notare che alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento le cooperative venivano computate fra le società di mutuo soccorso più che fra le imprese commerciali3. Per i cattolici piemontesi, le cooperative nacquero assai spesso all’interno del mutualismo, ad esempio, a Torino4, nelle diocesi di Novara e Asti. Non diversamente per quelli lombardi, liguri (Federazione operaia cattolica ligure, negli anni Ottanta dell’Ottocento), veneti nel Veronese, Vicentino, Bellunese e Cadore (ma, per la diocesi di Padova, casse rurali, cooperative di assicurazione del bestiame e società mutue nacquero in zone geograficamente distinte), toscani, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento e marchigiani, con l’inedita osservazione che i futuri cooperatori si formavano nelle società mutue.
Nei luoghi in cui avevano assunto (e ancora talvolta mantenevano) una certa importanza, i monti frumentari sono considerati gli ascendenti delle casse rurali, come è il caso di molte casse dell’Umbria, del Sannio e del Mezzogiorno continentale. In Umbria si è trovato che tra il 1896 ed il 1930 nel 56% dei casi vi era una identità di sede tra cassa e monte. Ma forse non bisogna facilmente generalizzare poiché pare che nelle Marche i monti fossero più d’ostacolo che di sostegno all’innovazione della cooperativa di credito.
Per la cooperazione cattolica, in particolare, le confraternite e le pie unioni si possono considerare altri antecedenti delle cooperative, per esemplificare, nel Friuli-Venezia Giulia, in Emilia-Romagna, Marche e nel Mezzogiorno continentale fornirono garanzie per l’accesso al credito, favorirono la nascita di casse rurali e latterie sociali. Per quanto riguarda le pie unioni, derivanti da confraternite o corporazioni, dividevano la pratica religiosa con quella di assistenza verso i bisogni degli aderenti. Esse, probabilmente in modo indiretto attraverso le società di mutuo soccorso, costituirono un modello di riferimento per le cooperative.
Non era una rarità che le organizzazioni sindacali promuovessero le cooperative. Senza entrare nel merito delle vicende delle relazioni fra sindacati e cooperative5, ci limiteremo a qualche esemplificazione dell’origine sindacale delle cooperative. In questo caso, più in Liguria che in Emilia-Romagna, tra guerra e dopoguerra, convivevano organizzazioni sindacali e cooperative. In Lombardia, ai primi del Novecento, si assistette a una potente azione sindacale di fondazioni cooperative, egualmente nel Vicentino, tra il 1919 ed il 1921, e nel Veronese, tra l’inizio del secolo XX e laGrande guerra, privilegiando, qui come nel Trevigiano nel primo dopoguerra, l’affittanza collettiva considerata una tappa verso l’aumento della piccola proprietà diretto coltivatrice. In Friuli, a Torre, don Giuseppe Lozer promuoveva sindacati e cooperative ed era convinto che le cooperative più delle leghe avrebbero migliorato il lavoro contadino. Nelle Marche, Agostino Peverini, leader del sindacalismo mezzadrile bianco, le riteneva insostituibili. Anche nel Sud continentale è possibile trovare qualche esempio, come a Cosenza, dove dalla Lega del lavoro nacquero casse rurali e da esse cooperative di produzione-lavoro. Il coronamento di queste esperienze, nel primo dopoguerra, riguardò un patto d’azione stipulato fra la Confederazione italiana lavoratori (Cil) e la Cci, le due centrali nazionali delle cooperative e del sindacato. Purtroppo, questa vicenda nel secondo dopoguerra è una pagina bianca ancora da scrivere.
La fondazione di cooperative venne più o meno implementata nelle diverse regioni italiane da istituzioni pubbliche e private di carattere economico e sociale6 e dalla stessa dinamica del movimento cooperativo. In generale, per quanto riguarda il primo aspetto, associazioni, comizi agrari, camere di commercio, deputazioni provinciali ed organizzazioni cooperative come la Federconsorzi (1892) furono, in più d’un caso, leve efficaci per la promozione cooperativa. Circa i cattolici bisogna guardare alle varie articolazioni che venne ad assumere il movimento sociale cattolico, che svolsero la stessa funzione7. È anche possibile ricordare che il Comune di Genova, nel 1903, agevolò la costituzione della Società cooperativa L’Economica per la costruzione di alloggi. La sua azione potrebbe essere portata ad esemplificazione di quanto fecero in questo campo i municipi, così come quanto fece il Ministero d’Agricoltura industria e commercio, ad esempio per le latterie sociali, può esemplificare l’azione delle istituzioni di governo. Il caso, invece, del Trentino e Tirolo è piuttosto particolare dal momento che, in realtà, senza paragone con altre situazioni, l’intervento dello Stato fu determinante.
Sin dalla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento, pur con diversi risultati nelle due regioni, la legislazione imperiale spinse i cattolici verso la costituzione di società cooperative. Relativamente alla capacità generativa, poi dello stesso movimento delle cooperative, è da considerare l’azione specifica delle federazioni di cooperative, di cui tratteremo. Per il resto, l’imitazione operò efficacemente. Nel 1895, in Emilia-Romagna si invitava all’azione cooperativa «sulla scorta delle esperienze compiute in altre regioni»8. Se in Friuli si guardava alle cooperative del Padovano e del Bellunese, le prime casse rurali del Sud continentale furono «di esempio» e «modello» per le altre9. Accanto alla propulsione che poteva fornire l’osservazione di modelli realizzati furono le stesse singole cooperative a dispiegare una certa capacità generatrice. A parte l’intercooperazione delle casse rurali, come vedremo, le latterie sociali erano in grado di generare le altre forme cooperative, ad esempio di produzione (lavorazione dei salumi), di consumo e persino di credito come la Cassa di risparmio e prestito dell’Agordino (1892). Altrove, in Emilia-Romagna, Liguria, Lazio (Agro romano) si deve attribuire alle cooperative (di lavoro) agricole il merito di averne prodotte o sollecitate altre dello stesso genere e di consumo. Non vanno, da ultimo, dimenticate la diffusione della conoscenza e la spinta operativa fornita dalla stampa diocesana e da quella specializzata dei cooperatori, a partire dal periodico di riferimento «Cooperazione popolare» sino ai fogli diocesani, ad esempio in Lombardia, nel Mezzogiorno continentale e nel Lazio, anche censiti dal «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia» e, per quanto riguarda la Lombardia, dall’opera di Angelo Robbiati10.
Un ruolo importante fra le cooperative cattoliche toccò alla cassa rurale per la sua propria natura e funzione, e per la capacità generativa di altre forme cooperative11 cui, per l’ambiente urbano, si affiancò godendo di una inferiore diffusione la cassa operaia.
Però, non dovunque: pietra d’angolo dell’edificio cooperativo in Toscana, non altrettanto decisiva appariva nella provincia di Treviso, in Friuli prima del secolo XX ovvero in Liguria. La cassa rurale era stata introdotta in Germania da Federico Guglielmo Raiffeisen, un pastore protestante e, sulla sua impronta, in Italia, nel 1883 a Loreggia nel Padovano dal possidente e deputato liberale Leone Wollemborg12, che riuscì a guadagnare all’iniziativa un certo numero di parroci. L’utilità dell’istituto venne colta dai cattolici e per primo da don Luigi Cerutti, un sacerdote veneziano che si mise alla testa di un movimento di fondazioni di casse cattoliche che avrebbe presto superato ed anche assorbito quello liberale o neutro13. L’aggettivazione non stabiliva una differenza sulla natura economica e sociale della cassa e sul modello raiffeisiano, che ambedue invocavano, ma piuttosto misurava la distanza sul piano politico-religioso fra i due movimenti che proprio sulla confessionalità della cassa accesero negli anni Novanta dell’Ottocento una forte polemica.
Per quanto riguarda la cronologia del movimento delle casse, negli anni Novanta del secolo XIX le fondazioni da parte dei cattolici iniziarono con la cassa di Gambarare (1890), da parte di don Luigi Cerutti e del suo parroco don Giuseppe Resch. Il loro numero, secondo una contabilità non ancora bene stabilita crebbe sino ad un massimo di circa 2.400 nel 1921 per poi scendere a poco meno di 600 nel 193014. La vicenda delle fondazioni non ebbe di necessità un andamento dovunque lineare, riferendosi ad una realtà «territorialmente variegata e temporalmente discontinua»15 ma seguì una cronologia di partenze, arresti e ripartenze non sempre parallela nelle varie realtà regionali e provinciali. Corrono ad esempio sette anni tra la fondazione di Gambarare e quella della Cassa rurale San Prisco, la prima di Terra di lavoro e 11-12 anni delle prime della Marsica, Basilicata (Tursi e Venosa), Melfi, Bari e Cosenza. Se nelle Marche e in Sicilia, dopo la prima fondazione, rispettivamente, del 1895 e 1896, il decollo, per le Marche, avvenne nei primi anni del secolo XX e l’acme di 240 per la Sicilia nel 1915, in Umbria la fine del secolo XIX vedeva il movimento delle casse appena avviato nella sua dimensione regionale. In altre realtà, sembrano essere stati proprio i primi venti anni del secolo XX quelli più dinamici, per le casse della Lombardia, che raggiunsero il culmine numerico nel 1920 e di Cosenza dove la data del 1902 segnò l’inizio di un’ascesa irresistibile di istituti nella provincia: 22 fondati sino al 1915; altri 47 tra il 1916 ed il 1921, circa una cassa per comune. In altri casi furono importanti gli anni dall’inizio del secolo XX sino alla Grande guerra, come per le province di Verona e Padova. In altri ancora sono stati gli anni sino alla fine del secolo XIX quelli più rilevanti, per le casse piemontesi, avviate nel 1894 e cresciute rapidissime sino al 1897, per quelle del Lazio dove dalla prima fondazione del 1894 raggiunsero le 34 unità nel 1900. Naturalmente non sempre l’andamento fu rettilineo. Vicende alterne sono state individuate per Treviso e Venezia, nelle casse di Vicenza dove l’acme di fondazioni del periodo 1895-1897 venne seguito da un altro di flessione nei primi anni del nuovo secolo ed in quelle siciliane che per alcuni anni «dopo il 1905 sino al 1909» videro interrotta la loro crescita16. Negli anni fra le due guerre, è forse possibile distinguere due situazioni. La prima esemplificata dal numero crescente, più o meno rilevante, delle casse rurali del Lazio, dell’Umbria, di Firenze-Pistoia, del Veneziano e della Calabria tra guerra e immediato dopoguerra. La seconda riguardante, già dalla guerra, cadute numeriche delle casse e delle cooperative, come per il Trevigiano, il Trentino e Tirolo. Negli anni Venti e Trenta, una molteplicità di cause, comprese le (violente) azioni anticooperative del fascismo, diminuirono notevolmente, attraverso chiusure, liquidazioni, incorporazioni, il numero delle casse. Qualche dettaglio: in Lombardia più che dimezzarono così come nelle province di Venezia e Treviso. Diminuirono vistosamente anche in Trentino, Tirolo17, Friuli e Piemonte dove comparve un altro agente d’insuccesso: il fallimento delle banche di riferimento, che le condusse alla scomparsa. Insuccessi delle casse e delle banche sono sintetizzati dalle vicende del Piemonte dove si può ricordare la caduta della Banca italiana di sconto (1921) e del Credito piemontese (1923) che coinvolse i depositi delle casse. Il quasi contemporaneo fallimento della Cassa rurale di Bagnolo, trascinò nella crisi quasi tutte le istituzioni di credito cattoliche delle province di Torino e Cuneo, impegnate finanziariamente con quella. Agli inizi degli anni Trenta, solo due delle diciotto banche cattoliche e quarantasei delle circa 200 casse rurali erano rimaste in vita. L’organizzazione fascista delle cooperative si limitò a raccogliere i resti delle cooperative di credito decimate da questi eventi disastrosi
La cassa rurale era una società bancaria in nome collettivo per il credito agricolo, mediante prestiti di piccola entità ma rinnovabili anche sino a due anni come nel Mezzogiorno continentale, a responsabilità illimitata di tutti i soci che compensava la mancanza del capitale (sostituito dal versamento di quote di irrilevante entità) con un forte controllo sociale e una sicura conoscenza del richiedente, certificata dalla dichiarazione di cattolicità (confessionalità) dell’istituto. Era basata sul mutualismo esercitato in ambito territoriale limitato, su di una organizzazione ‘spartana’18 e lontana dalle repulsive pratiche burocratiche proprie delle banche. La compagine sociale si fondava probabilmente sulla prevalenza fra i soci del piccolo coltivatore proprietario e/o titolare di altre conduzioni ma anche, talvolta, di braccianti. L’assetto economico della cassa rurale la segnalava come un istituto con una forte propensione all’investimento ed una generale inclinazione a tassi d’interesse moderati sui prestiti (dal 3,4-4 al 6%), di uno o due punti inferiori a quelli praticati dalle banche maggiori o di natura analoga, come le casse agrarie della Basilicata, anche se in alcuni casi, come nel Lazio alla fine dell’Ottocento, la carenza di depositi poteva far lievitare il tasso sino al 9%. Le casse non vantavano cifre da primato per quanto riguarda la raccolta: per esemplificare, Prima della guerra, 1,05% dei depositi bancari lombardi, 8% di quelli trevigiani nel 1900, 6% di quelli siciliani nel 1912 ma 1,41% di quelli italiani del 1909. La loro propensione agli investimenti provocò, ad esempio, nelle le casse trevigiane, veneziane e del Friuli-Venezia Giulia sino alla prima guerra mondiale un rapporto impieghi/depositi superiore a quello delle altre banche. In Lombardia il rapporto prestiti/depositi andò da un massimo del 72% nel 1905 ad un minimo di 42% nel 1922. Per le casse della Sicilia il rapporto era del 99,8% nel 1905 e 89,3% nel 1909; in quelle marchigiane, ancora negli anni Trenta, si aggirava tra l’80 ed il 96%.
La necessità dei rapporti interbancari assumeva una diversa fisionomia in relazione alla raccolta ed agli impieghi delle casse. Gli anni dell’immediato primo dopoguerra generarono una situazione opposta a quelli dell’anteguerra dal momento che aumentò la loro importanza economica in termini di patrimonio, depositi, soci ed impieghi. Tanto era un problema nell’anteguerra la disponibilità di danaro da destinare agli agricoltori tanto più abbondante era, invece, dopo la guerra, in generale, la disponibilità di depositi il cui impiego non trovava una adeguata domanda nell’economia agricola. Di conseguenza, tre fenomeni si manifestarono nella generalità delle casse: aumento dei depositi verso le banche, aumento dell’impiego in titoli dello Stato e una tendenza (speculativa) verso investimenti non agricoli. Per quanto riguarda, invece, gli anni anteguerra spesso, ma non sempre, apparve inevitabile, almeno nel momento dell’avvio e in altre successive contingenze, il ricorso ai capitali esterni. È opportuno ricordare come un altro dei fatti soggiacenti nell’anteguerra la polemica sul confessionalismo riguardasse, accanto a motivi culturali e religiosi, le aperture di credito che le banche popolari liberali avevano concesso (e concedevano) alle casse rurali. La necessità di poter raggiungere una reale autonomia e indipendenza giustificò il collegamento delle casse rurali con le banche cattoliche.
Accanto alle casse rurali nelle campagne si posero le casse popolari (operaie) nelle città e borghi. Anche in questo caso, nate dall’iniziativa del Cerutti, ne troviamo traccia nella città di Bologna, nel Piemonte, Friuli, Lazio e Abruzzo. Si trattava di società collettive a responsabilità limitata rivolte al risparmio ed alla previdenza che potevano prevedere, come avvenne abbondantemente in Sicilia, finanziamenti alle cooperative.
Nel prosieguo della nostra trattazione non ci occuperemo delle banche cattoliche in se stesse ma ci limiteremo ad osservare la loro relazione con le casse rurali. Fondamentalmente vennero sperimentati due modelli del rapporto finanziario fra casse e banche cattoliche. L’uno riguardava un rapporto tendenzialmente senza intermediari, destinato tuttavia a sfociare nell’altro che prevedeva l’intervento di una federazione delle casse. Consideriamo dapprima questo secondo caso. La Banca cattolica vicentina era sorta con lo scopo di assicurare alle casse ‘appoggio’ (finanziamento iniziale e risconti) e ‘controllo’ tanto da ospitare nella sua sede l’Unione (dal 1920: Federazione) diocesana delle casse rurali. L’Unione funzionava da intermediazione con le casse circa le loro necessità finanziarie ma non influenzava la politica della Banca nella determinazione dei fidi alle casse. Il caso della provincia di Treviso si avvicinava a quello vicentino. La Federazione diocesana delle casse rurali (1894) si frapponeva tra la Banca San Liberale di Treviso e le casse, selezionando quelle meritevoli dei prestiti bancari. A parte questi ultimi dettagli la situazione veronese era simile. Lo stretto rapporto delle numerose casse provinciali con la Banca cattolica veronese (1895) venne mediato dall’intervento della federazione delle casse, fondata nel 1896. Ma era anche possibile che non tutte le casse si servissero della Banca cattolica. La presenza, comunque, di una banca che coordinasse le casse rurali e, in generale, finanziasse la cooperazione, qualunque fosse in questo schema il ruolo (e le vicende) delle federazioni, ha fatto parlare per la regione piemontese all’inizio degli anni Venti, di cinque sistemi territoriali. Il rapporto federazione delle casse-banca cattolica è documentabile anche per il Mezzogiorno continentale: le federazioni delle casse rurali di Benevento e quella salernitana-lucana corrispondevano rispettivamente con la Banca cattolica del Sannio e con la Banca popolare cattolica salernitana. Forse la migliore sistemazione dei rapporti fra le casse, la loro federazione e la banca avvenne nel Lazio con la ristrutturazione nel 1917 della Federazione delle casse rurali del Lazio (Federazione laziale), la nascita nello stesso anno della Banca regionale del Lazio e la definizione di una convenzione fra i due enti. Alla banca toccò la «funzione finanziaria» che esercitò sino al 1928, attraverso la gestione della «stragrande maggioranza dei depositi delle casse laziali» realizzata senza che queste ultime fossero poste in condizioni di «cieca subordinazione»19 sino a quando, nell’ambito delle operazioni di sistemazione delle banche cattoliche, venne assorbita dal Banco di Santo Spirito. Il nuovo istituto Banco di Santo Spirito-Regionale del Lazio cercò, senza successo, di mantenere la posizione di punto di riferimento finanziario delle casse rurali. Per quanto riguarda il caso dell’intervento delle banche scollegato dalla federazione delle casse, a cavallo del secolo XX, la Banca friulana (1900) si proponeva di assicurare la liquidità delle casse rurali mentre la Banca cooperativa antoniana di Padova (1893) assisteva il funzionamento delle casse sparse nella campagna, molte delle quali aveva promosso e controllava mediante periodiche ispezioni. Pure il Credito popolare ligure (1919-1920) nacque anche con lo scopo di «sostenere la vita delle casse rurali»20. Nel Centro Italia, pare che il Piccolo credito toscano (1904) e le banche cattoliche delle Marche abbiano fornito un aiuto fondamentale alle casse rurali territoriali. Nel Sud è possibile trovare situazioni analoghe, in Calabria (Cooperativa cattolica di credito tra gli operai del 1901, nota come Banca cattolica), a Molfetta21 o a Salerno22. All’inizio del secolo XX, in Lombardia quattro banche (Piccolo credito bergamasco, Banca San Paolo di Brescia, Piccolo credito Sant’Alberto di Lodi; Banco San Siro di Soresina) erano ‘strettamente legate’ con le casse rurali23. Ad esse se ne aggiunsero altre, a partire dal primo decennio del Novecento. Fra tutte spiccava, però, il Credito bergamasco che promosse la fondazione della prima cassa provinciale, nel 1893 a Martinengo, avviando una sequenza che nel 1897 raggiunse il numero di 64. Si è parlato, d’altra parte, per questa regione di una certa autonomia delle casse lombarde dalle banche territoriali del «sistema bancario tradizionale»24. In effetti, accanto a relazioni di corrispondenza univoche con banche cattoliche, era possibile individuare casse che avevano acceso rapporti finanziari con diverse banche, anche non cattoliche. L’esempio classico riguarda la Cassa di risparmio delle province lombarde. Ma pure nel Centro e Sud Italia è possibile documentare questo fenomeno, in Umbria mediante rapporti con le casse di risparmio ed anche le casse postali o in Terra di lavoro dove il riferimento finanziario era rappresentato dalla Banca popolare di Caserta. D’altra parte, senza il ricorso alle banche laiche, si poteva cadere nella situazione del Lazio dove nel 1897 le casse rurali vivevano stentatamente per via della mancanza di «istituti di credito sovventori con criteri cattolici»25. Resta, comunque, il fatto che specialmente negli anni difficili fra le due guerre il pericolo di molte casse fu l’assorbimento da parte della banca cattolica locale, come nel caso delle più importanti casse della provincia di Treviso che vennero inglobate nella nominata Banca cattolica San Liberale, di quelle bergamasche e liguri attaccate dalla politica espansiva in termini di filiali del Piccolo credito e del Credito popolare ligure. Si trattava evidentemente di un problema di struttura dei rapporti bancari che spinse i dirigenti delle casse alla ricerca di nuove strade, intraviste nella creazione di un istituto centrale delle casse cui affidare la soluzione dei problemi di coordinamento e compensazione che le investivano. Per questo motivo venne fondata nel 1896 a Parma, da don Cerutti e Giuseppe Micheli, la Cassa centrale delle casse rurali cattoliche. Ma lo scopo non venne raggiunto e la Cassa centrale operò alla fine come banca locale. Venne perseguita la strada di affidare la funzione di istituto centrale alle banche. Può essere il caso nel quindicennio prima della guerra, probabilmente, del Banco Piemonte di Acqui che sorse per coordinare l’attività finanziaria delle casse diocesane, della Banca cattolica di Udine (1895) e Banca cattolica di Trento con lo scopo di casse di compensazione. Nelle province di Torino e Cuneo, il Credito cooperativo piemontese (poi: Credito piemontese) operava come un istituto centrale delle casse in accordo, presumibilmente con la Federazione piemontese delle casse rurali dal momento che presidente dell’una e vice-presidente dell’altra era la stessa persona. Ma nel secondo dopoguerra il Credito, pur senza perdere i rapporti instaurati, si allontanò da questo suo scopo. La necessità di giungere ad un coordinamento finanziario autonomo e interno al movimento delle casse, oltre i più o meno riusciti esperimenti di rapporti con le banche cattoliche, mantenne viva la ricerca di una soluzione appropriata come quella di far svolgere alla stessa federazione o ad appositi istituti territoriali la funzione di cassa di compensazione. Così accadde per la Sicilia mediante una Cassa centrale e, probabilmente, in Piemonte con la Federazione piemontese delle casse rurali che, dopo la defezione del Credito piemontese, ne assunse la funzione finanziaria, in Alto Adige dove, nel primo dopoguerra, nacque una Landwirtscahfliche Zentralkasse e, nel pistoiese, dal 1900, dove la Federazione pistoiese delle casse rurali esercitò la funzione di cassa centrale. Anche per Gorizia venne avviata una Cassa rurale centrale. Il fatto che negli anni Trenta venisse liquidata con «pesanti perdite degli azionisti»26 è la dimostrazione che non esistevano formule infallibili. A parte ciò, la Cassa rurale federativa della Calabria accettava l’apertura di conti correnti delle casse federate. Finalmente, nel 1926, la Federazione italiana delle casse rurali fondò il Credito federale agricolo con lo scopo di «raccogliere e gestire le eccedenze delle casse rurali». L’esperienza, però, durò solo sino al 1929, quando venne messo in liquidazione27.
A parte gli interventi a favore dell’artigianato o della piccola impresa, peraltro non maggioritari, la cassa fornì, alle condizioni che abbiamo visto, un credito molto frazionato verso migliaia di famiglie contadine, titolari di piccole proprietà o di conduzioni non proprietarie. Possiamo generalizzare quanto è stato scritto per la Lombardia: «le casse rurali […] rispondevano ad esigenze e necessità di credito del tutto particolari e specifiche, non altrimenti soddisfatte»28. Il prestito liberò in talune realtà, ad esempio le Marche, più decisamente che in altre le potenzialità imprenditoriali della mezzadria. In generale, il prestito rispondeva alle esigenze della coltivazione agricola come l’acquisto di bestiame, concimi, sementi, zolfo, attrezzi e macchine. Le casse commerciarono questi beni, acquistando direttamente grandi partite di fertilizzanti e di seme di granturco (province di Treviso e Venezia), provvedendo ad erigere depositi di macchine agricole da noleggiare o magazzini per l’acquisto collettivo di concimi (Friuli-Venezia Giulia), introducendo questi servizi anche negli statuti (Veronese). Possiamo dire le stesse cose ed altre simili per le casse della Valle d’Aosta, Marche e Lazio. In tutti questi casi spingendo verso l’innovazione, le casse operarono per la modernizzazione dell’agricoltura. Questi istituti assicurarono, specie nei primi tempi, una funzione di soccorso ai bisogni ed all’economia della famiglia, migliorando l’alimentazione a prevenzione della pellagra e consentendo, tra l’altro, di saldare i debiti usurari. Liquidare l’usura, rimediare all’inefficacia delle legge sul credito agrario e renderlo accessibile significò contribuire alla crescita della piccola proprietà, avvicinarla al mercato, difenderla dall’azione di assorbimento della grande e diminuire i fallimenti dei piccoli proprietari. Non pare essere stato il caso dell’Umbria, ma nel Veronese le casse cercarono di placare l’antica ‘fame di terra’ nelle province di Treviso, Venezia, Vicenza e nel Friuli-Venezia Giulia, nell’anteguerra e nell’immediato primo dopoguerra, i prestiti delle casse con lo scopo di formare piccola proprietà contadina si accrebbero notevolmente, in proporzione alle aumentate disponibilità degli istituti sino a coprire, nel Vicentino, il 30-50% degli acquisti contadini di terra. Qual più qual meno tutti questi fenomeni, nelle diverse circostanze temporali, erano riscontrabili in Lombardia. L’aiuto dato alla piccola proprietà a conduzione non proprietaria (specialmente nel caso di grande polverizzazione in minute particelle) avrebbe significato povertà e opposizione alla modernizzazione, senza la selezione della destinazione produttiva dei prestiti e gli interventi diretti o indiretti nell’economia delle aziende finalizzati alla loro modernizzazione. Il caso contrario avrebbe portato all’«arretramento dei metodi colturali e […] diminuzione del prodotto per ettaro»29.
Quando, in occasione del I congresso delle casse rurali del 1918 Livio Tovini parlò di «cassa rurale moderna» intese essenzialmente definire un coinvolgimento istituzionale nell’intercooperazione ossia nella fondazione e sostegno delle altre forme cooperative che contornando la cassa l’avrebbero proclamata «regina nel suo piccolo regno»30. Il modello ‘classico’ veniva dalla cooperazione trentina e tirolese. Nelle province di Treviso e Venezia e nel Friuli-Venezia Giulia i larghi finanziamenti alle cooperative si concentrarono, specie nel primo dopoguerra, sulle unioni rurali e sulle cooperative di assicurazione contro le malattie del bestiame ed i danni della grandine. Ma la gamma era più vasta. Ad esempio le casse vicentine, di Padova e Belluno avevano anche avviato latterie, cantine, farmacie sociali e affittanze collettive che quelle siciliane finanziarono, accollandosi talvolta il costo dell’affitto. Nel caso della Cassa rurale di Bagnolo Piemonte si cercò d’applicare su scala più vasta la forza intercooperativa dell’istituto. Tutto ciò che abbiamo sino ad ora accennato venne qui realizzato con l’aggiunta nel 1911 di una Cooperativa frutta (mele, pere, castagne), con lo scopo di sottrarne il commercio dalle mani di intermediari speculatori. Le sue necessità finanziarie superarono con l’andar del tempo la disponibilità della Cassa di Bagnolo che, malgrado tentativi di salvataggio attraverso un consorzio di diverse casse piemontesi, fallì nel 1923. Quello di Bagnolo non fu l’unico tentativo di promozione da parte delle casse di attività agro-industriale. Un altro avvenne per conto della Cassa rurale di Vezza d’Alba. Ma soprattutto merita d’essere ricordata la Cassa di Villanova Solaro e Cuffia la cui attività di costruzione sociale ed economica del proprio territorio ha dello stupefacente:
«Nel 1921 gestiva in proprio diverse cooperative di consumo, una cooperativa di lavoro, una mutua assicuratrice, un’impresa agricola con gruppi propri di locomobili e di trebbiatrici, una segheria per casse d’imballaggio e aveva in progetto l’impianto di un canapificio e di un cordificio meccanico per la lavorazione della canapa prodotta nel bacino piemontese del Po e stava inoltre studiando la possibilità di costruire un’impresa manifatturiera per migliorare la produzione e lo sfruttamento del tiglio. Si era inoltre fatta promotrice di un consorzio fra i produttori di sementi della celebre varietà di canapa piemontese […] per esportarla nei paesi europei, nelle colonie e finanche in Asia e in Marocco»31.
Anche in altre regioni (Liguria, Emilia-Romagna, Friuli, Umbria, Lazio, Calabria) le casse finanziarono oltre la cooperazione agricola e assicurativa anche quella di consumo ed edilizia.
Il punto delicato dell’intercooperazione riguardava anche le banche cattoliche. Possiamo dire che nelle Marche, Veneto, Toscana e Sud continentale fossero, a partire dai primi anni del Novecento, il «centro motore e promotore delle attività cooperative»32. Un’importante variazione sul tema riguardò nel 1919 la fondazione della Banca nazionale del lavoro e della cooperazione (Bnlc) che rappresentava nel primo dopoguerra il più ambizioso tentativo della Cci di centralizzare il finanziamento del movimento cooperativo, affrancandosi un poco dalla dipendenza dalle casse rurali e altre banche. Un motivo non secondario alla base della sua fondazione riguardò il tentativo dei cooperatori cattolici di ottenere dallo Stato aiuti finanziari per le cooperative di consumo e produzione lavoro. L’esito fu poco incoraggiante dal momento che i finanziamenti del parastatale Istituto nazionale di credito per la cooperazione33 andarono preferibilmente verso le cooperative laiche e, specialmente, socialiste. Anche questa situazione spinse verso la fondazione della Bnlc che, però, nel 1923 entrò in crisi e venne posta in liquidazione assieme ad alcune casse. La breve vicenda della Bnlc rivelò drammaticamente le difficoltà insite nel tentativo di dotarsi di una interna fonte di finanziamento per i settori della cooperazione che ne avevano bisogno. Non meraviglia che acquistassero peso le ragioni di coloro che nell’ambiente delle casse rurali e banche territoriali cattoliche non vedevano di buon occhio gli impieghi che potevano distrarre dalle tradizionali operazioni con gli agricoltori, dai più tranquilli investimenti in titoli pubblici o da quelli più rischiosi ma lucrosi in ambito industriale, che nel primo dopoguerra non erano una rarità. L’intento di una certa autonomia che le cooperative volevano guadagnare rispetto alle casse rurali può venir documentato nel Lazio dall’affidarsi al finanziamento Bnlc e poi, dopo la sua caduta, a quello del Consorzio fra le cooperative agricole della Cci del Lazio. Come per il rapporto cassa rurale-banca non si può dire che sia stato adottato nei fatti un modello universale. Sino ad ora abbiamo considerato come la banca assicurasse direttamente il finanziamento; in altri casi venne utilizzato un apposito intermediario come, ad esempio, l’Ufficio interprovinciale della cooperazione di Torino (1921).
La cooperazione in agricoltura si esplicò, come sappiamo, attraverso varie istituzioni, cui è opportuno per completezza accennare.
Al momento dell’avvento del fascismo le cooperative agricole, assieme alle cooperative di lavoro non agricolo, contavano circa 1.500 unità34. Al centro delle iniziative cooperative di questo tipo stava in genere l’unione agricola o rurale con lo scopo di provvedere ai contadini associati i mezzi necessari per la coltivazione (concimi chimici, antiparassitari, sementi selezionate, macchinario ecc.) attraverso l’acquisto collettivo. Sostenute, come sappiamo dalle casse rurali, nate per lo più nelle varie realtà territoriali, tra fine Ottocento e inizio Novecento, in origine a base parrocchiale o comunale, combattevano l’alleanza di produttori e commercianti nella fissazione dei prezzi e nello stesso tempo contribuivano alla modernizzazione dell’agricoltura e all’incremento della produttività, unendo quando possibile all’aspetto materiale anche la diffusione delle conoscenze attraverso conferenze, mostre, esposizione e concorsi. Ad esempio l’Unione di Venosa «si prefiggeva l’acquisto di quanto necessario alla ‘attività di coltura’ e il collocamento dei prodotti sul mercato nonché compiti di istruzione per l’ammodernamento dei materiali e delle colture»35. Nel caso della Liguria, giunsero sino a generare cooperative di produzione agricola o di assicurazione. Le unioni, ebbero un certo successo e vennero fondate un poco dovunque a partire dall’età giolittiana.
Le cooperative di assicurazione vennero avviate sin dagli anni Ottanta dell’Ottocento. Riguardavano le malattie del bestiame e le avversità atmosferiche. La loro ragione risiedeva nei risparmi in termini di premi assicurativi e risarcimenti, che si potevano ottenere attraverso l’associazione. Queste cooperative raggiunsero anche ragguardevoli dimensioni, come la Società cattolica di assicurazione contro la grandine e gli incendi di Verona fondata negli anni Novanta dell’Ottocento oppure si mostrarono rilevanti per il territorio, come era il caso, nella seconda metà degli anni Novanta dell’Ottocento, de La valdotaine.
Il prevalente interesse per la piccola proprietà non ha distratto i cattolici dai problemi che la medio-grande conduzione o il latifondo generavano per i contadini. La risposta riguardò una specifica forma cooperativa del lavoro agricolo: l’affittanza collettiva a conduzione divisa che permetteva la coltivazione diretta delle aziende contadine eliminando ogni intermediazione. Esempi si potevano osservare, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, a Livorno Piemonte, in Sicilia e anche in Lombardia, dove assicurarono l’occupazione bracciantile e colonica limitando la mobilità del lavoro e stabilendo il ponte di passaggio alla proprietà contadina. Rientrano nella categoria del lavoro agricolo anche quelle cooperative di reduci che fra il 1920 ed il 1921 si costituirono, ad esempio nei pressi di Tivoli e in Terra di lavoro, in conseguenza dei decretiVisocchi e Falcioni (1919-1920) circa la requisizione ed assegnazione delle terre incolte (cooperative per la concessione di terre incolte), che giunsero sino all’occupazione delle terre.
Le latterie e le cantine sociali (cooperative) riguardavano, invece, forme specifiche della cooperazione agricola di produzione. Le latterie sociali ne rappresentavano una tipica realizzazione nel territorio della montagna, dove erano piuttosto diffuse. Presenti in Piemonte, Liguria, Friuli, onnipresenti in Trentino e Tirolo, per quanto non sempre a prevalente iniziativa cattolica, comparvero anche in Toscana nel primo dopoguerra. Nel Bellunese, a Forno di Canale nacque nel 1872 la prima latteria sociale italiana. Le latterie sociali derivavano dalle latterie turnarie ma avevano alle spalle anche un modello individualistico rappresentato da «produttori singoli o da privati speculatori»36. Sembra che il maggior numero e i metodi innovativi di lavorazione del latte abbiano riguardato la provincia di Vicenza anche se, negli anni Trenta, solo un terzo delle latterie era provvisto di un moderno equipaggiamento tecnico. Inoltre, nella terra friulana, l’atteggiamento cooperativo poteva lasciare il passo a localismi che impedivano i processi di concentrazione delle piccole latterie, premessa indispensabile per diminuire i costi di produzione e divenir competitivi sul mercato. Il successo delle latterie sociali provocò, comunque, dei rilevanti effetti sui cooperatori e sull’agricoltura locale. I soci cooperatori, poterono godere di una migliore lavorazione del latte in termini di formaggio, sfuggire alla intermediazione improduttiva e incrementare i propri redditi monetari. Ciò spinse ad una maggiore attenzione per la stalla, per il concime, per l’irrigazione e il prato. Le latterie modificarono non solo l’economia ma sostennero la cultura sociale comunitaria del luogo. Il caseificio divenne, così, centro di socializzazione e di solidarietà.
La produzione e commercializzazione cooperativa del vino nelle cantine sociali, a parte il Trentino, il Tirolo e il Piemonte, ebbe una limitata diffusione almeno sino agli anni del secondo dopoguerra nel Veneto e Friuli dove, dagli anni Venti, erano pur state fondate delle cantine. Prima di questo periodo, a quanto sembra, erano ancora troppo alti gli ostacoli che si frapponevano: l’orizzonte familiare della produzione prevaleva sulla decisiva intenzione del miglioramento qualitativo, ostacolato peraltro anche dai non lievi capitali richiesti per l’investimento produttivo.
Nelle regioni, ad esempio Veneto, Friuli e Lazio, prima della Grande guerra la cooperazione di produzione e lavoro riguardava una realtà associativa nel suo complesso non estesa ed episodica. La capitale,sulla spinta degli incentivi governativi, venne interessata tra il 1906 ed il 1914 dalla fondazione di cooperative e consorzi di cooperative edilizie. In Umbria, la guerra ed il terremoto di Avezzano (1915) diedero campo alla cooperazione di produzione e lavoro. Durante la guerra, in particolare, gli ordinativi provenienti dallo Stato irrobustirono le cooperative di sarti e calzolai. La ricostruzione dopo il terremoto del 1915 spinse alla costituzione di cooperative che si dedicarono all’edilizia rurale e popolare ma caddero presto in difficoltà per la carenza di mutui. La cooperazione di produzione e lavoro negli anni del dopoguerra rappresentava una risposta alla domanda d’occupazione nelle grandi città come, di nuovo, Roma. Qui nacque infatti tra il 1918 e il 1920 il Consorzio di produzione e lavoro del Lazio che a Roma e nella provincia associò un certo numero di mestieri oltre quelli tradizionali dell’edilizia. La ricostruzione postbellica e la contemporanea necessità di frenare la disoccupazione, estese di molto le cooperative di lavoro (in provincia di Udine nel 1922 quasi ogni paese aveva una cooperativa di lavoro) che risultarono però in sé stesse tecnicamente e organizzativamente deboli e troppo dipendenti dagli appalti pubblici e dagli anticipi delle banche, tanto che il loro numero, venuti meno i finanziamenti, di solito, si contraeva velocemente sino alla scomparsa. Comunque, capitò che nelle Marche, dopo la Prima guerra mondiale, le cooperative di produzione e lavoro crescessero più velocemente delle casse rurali. In Trentino nel 1921 sembra contassero diverse migliaia di associati così come nelle province di Vicenza, Treviso, Venezia e Friuli. La comparsa di cooperative di produzione-lavoro nei primi anni Venti a Genova e dintorni sembra essere stato un fenomeno forse meno effimero che, nel caso dell’edilizia, venne sostenuto dall’apparizione di società cooperative di utenti. Molto meno diffusa (Trentino e Friuli) ma efficace risultò essere la cooperazione di produzione e consumo dell’energia elettrica. In Friuli, tra gli anni Trenta e il 1948 provocò effetti calmieratori delle tariffe e di incentivo all’allargamento del consumo.
Quanto alle cooperative di consumo, in generale, le realizzazioni anteguerra, salvo qualche eccezione, erano di poca entità, episodiche o quasi inesistenti ma crebbero velocemente nel primo dopoguerra sino a oltre 3.000 nel 192137. Di piccole dimensioni, dedicate alla vendita di beni di sussistenza, operavano in un ambito ristretto e, a parte un vantaggio locale, non erano in grado, forse nemmeno in Trentino, di «incidere sul sistema distributivo dei beni primari di consumo». La quantità delle cooperative di consumo aumentò, sino all’esplosione numerica, negli anni del conflitto mondiale quando vennero coinvolte nel sistema di distribuzione alimentare (contingentamento) proprio dell’economia di guerra e si avvertì più vivamente l’esigenza di salvaguardare il reddito reale di fronte all’inflazione. Ad esempio, la cooperazione di consumo nel Lazio nel primo dopoguerra conobbe il momento di maggiore crescita e si dette un’organizzazione avanzata, che testimoniava, probabilmente, l’intenzione di superare localismo e piccola dimensione. Le stesse considerazioni emergerebbero dalle particolari vicende delle cooperative di consumo in Terra di lavoro, Liguria, Emilia-Romagna, province di Treviso e Venezia e Friuli.
Accenni fatti in precedenza rivelano l’esistenza di livelli organizzativi territoriali e nazionali con lo scopo di assicurare la prosecuzione e l’allargamento dell’esperienza ed affrontare più efficacemente questioni comuni, appartenenti ad un territorio o ad un particolare settore ma di difficile accostamento da parte delle singole società38. Si trattava della rappresentanza, tutela e promozione degli interessi delle cooperative di fronte al governo ed alle amministrazioni locali, della risoluzione di problemi tecnici essenziali per il loro funzionamento, che richiedevano un’azione coordinata, della somministrazione di servizi comuni quali, ad esempio, l’assistenza legale e la formazione del capitale umano.
Un primo ed originario livello d’associazione di secondo grado riguardò una struttura raggruppante più tipi (economici e non) di società cattoliche di un certo territorio. Può darsi che questo livello originario attraverso la creazione a livello zonale-(inter)parrocchiale di una rete di associazioni economiche e sociali, abbia contribuito a un primo superamento di atteggiamenti localistici e centrifughi e mostrato l’esistenza di economie esterne positive, non sempre immediatamente percepita. Si può ricordare la Federazione cattolica laziale (1896) cui aderirono un certo numero di società cattoliche e che, prima di chiudere la propria esperienza, aveva promosso nel 1898 casse rurali e cooperative di consumo.
Un secondo livello associativo riguardava l’organizzazione territoriale di società economiche e cooperative di diverso tipo. Ad esempio, nella Venezia Giulia (Goriziano) spiccava la Federazione dei consorzi agricoli, faticosamente ricostruita nel primo dopoguerra. Essa radunava varie cooperative rurali ed operava come ufficio centrale di propaganda, istruzione, assistenza, revisione. Nel 1914 solo 5 dei 44 centri abitati dell’Isontino non possedevano una cooperativa. Altri esempi, forse meno vistosi, riguardavano l’Avellinese, il Piemonte, la Liguria, ma pure, nel primo dopoguerra, l’Umbria, e il Vicentino. Un saggio dei risultati che si potevano ottenere dai rapporti stretti fra strutture cooperative di secondo grado territoriali fu, nel 1920, la pubblicazione del bollettino mensile «La cooperazione ligure».
Un terzo livello associativo di secondo grado prevedeva l’organizzazione territoriale di società appartenenti allo stesso tipo cooperativo. Per il settore del piccolo credito, gli scopi dell’istituto federale eccedevano naturalmente l’aspetto finanziario. Un primo gradino poteva venir rappresentato da un coordinamento spontaneo e non gerarchico fra le società, come ad esempio fra le casse rurali umbre prima della Grande guerra. Tuttavia, si realizzò, prevalentemente, un coordinamento formale e gerarchico come, ad esempio, nella Federazione diocesana delle casse rurali di Treviso, prima delle cattoliche in Italia, costituita nel 1894, ricostituita nel 1912 e che assunse forma legale nel 1919 col nome di Federazione provinciale delle casse rurali. Si proponeva molti degli obiettivi delle federazioni: cattolicità dichiarata, assistenza legale, contabile, amministrativa, nuove fondazioni, e formazione di segretari contabili oltre ad assistere, ad esempio, nel primo dopoguerra le casse azioniste negli acquisti collettivi e nelle pratiche di assunzione dei mutui dalle banche. Gli anni Novanta del secolo XIX videro la fondazione di altre federazioni nel Veronese, Vicentino, Piemonte, Emilia-Romagna. Nel nuovo secolo sino al primo dopoguerra le fondazioni riguardarono anche le Marche, la Toscana, il Friuli, l’Umbria, la Terra di lavoro, la Puglia. In particolare, conviene ricordare la Cassa rurale federativa della Calabria, che, oltre la funzione finanziaria, esercitava assistenza contabile, assicurava suggerimenti circa i problemi amministrativi in cambio di un contributo pari al 20% degli utili netti delle casse aderenti e si riservava il diritto d’ispezione, di controllo e la ratifica degli impiegati assunti. Nel Lazio il sopraggiungere della federazione regionale sarebbe stato motivato essenzialmente dalla necessità di formare il personale capace di gestire le casse dal momento che era proprio ciò che mancava a questa regione. Il problema poteva essere risolto solo in parte dalle istruzioni tecniche e dalla risposta ai quesiti pubblicate ne la «Cooperazione popolare». Alla federazione toccava pure «l’istituzione di federazioni locali […] lo studio e la preparazione di riforme legislative, la compilazione di statistiche»39.
Per quanto riguarda le unioni rurali (agricole) si può ricordare l’Unione cattolica agricola del Veneto (Ucav) di Treviso (1893), fondata da don Luigi Bellio, che sino a quando durò, funzionava come magazzino centrale per le unioni rurali associate garantendo nella provincia dei costi d’intermediazione concorrenziali e risparmi sino al 30% sulle polizze per le assicurazioni incendio, grandine e malattie del bestiame. L’orizzonte dell’Ucav era il miglioramento dell’agricoltura e la tutela della piccola proprietà. Non considerando altre iniziative in Piemonte, Liguria, Marche, Lazio e, dopo la Grande guerra, in Veneto e Friuli, conviene ricordare, negli anni Novanta dell’Ottocento, la fondazione a Torino dell’Unione agricola cattolica torinese (dal 1906 Federazione agricola torinese spa) (Fat) con i noti scopi commerciali, che giunse ad associare i piccoli proprietari in numerose cooperative (unioni, casse rurali e società d’assicurazione) di limitata dimensione sociale e finanziaria (quasi 300 nel 1906). La Fat alla vigilia della guerra venne riorganizzata ed articolata in quattro centri operativi riguardanti le casse rurali, il loro finanziamento, le assicurazioni e le unioni rurali. Gli anni della guerra mostrarono un notevole impegno della Fat nel campo degli acquisti collettivi di generi agricoli, macchine e beni alimentari ma anche la drammatica caduta della liquidità che alla fine la condusse alla chiusura.
Circa la produzione agricola, le federazioni delle latterie sociali erano particolarmente fiorenti in Veneto e Friuli. Ma possiamo anche ricordare, in Liguria, il Consorzio provinciale fra cooperative di produzione agricola (1921). L’istanza federativa fondamentale riguardava, ad esempio per la Federazione delle latterie agordine negli anni Novanta del secolo XIX, la vendita collettiva del burro in competizione con gli intermediari speculatori.
Anche le cooperative di consumo, specialmente dopo la Prima guerra mondiale, moltiplicarono le proprie federazioni a livello provinciale, a ciò spinte dall’elevato numero delle società di base che crebbero moltissimo e velocemente. Fondazioni avvennero in Piemonte (fra le associate dell’Unione provinciale di Torino brillava l’Unione cooperativa consumatori di Torino, sorta per far concorrenza alla storica Alleanza cooperativa torinese, senza fortuna bisogna dire, dal momento che già nel 1921 chiudeva i battenti), Toscana, Emilia-Romagna, Friuli, Veneto, Calabria e Puglia dove, nel 1920 erano attive cinque federazioni o unioni di cooperative di consumo. Fra le funzioni della federazione (di direzione, rappresentanza, tutela, assistenza e sorveglianza delle cooperative) veniva prevista quella di fondare i consorzi territoriali di acquisto all’ingrosso (come avvenne in Liguria e Umbria) e premere sul potere politico. È interessante notare che la Federazione provinciale delle cooperative di consumo di Mestre, nell’immediato primo dopoguerra probabilmente praticò l’intercooperazione verso le cooperative di produzione.
Per la cooperazione di produzione e lavoro la struttura federativa provinciale era calibrata sui medesimi obiettivi, accompagnandosi, sempre nel primo dopoguerra, alla formazione di consorzi per l’appalto di lavori e assistenza tecnica, come per le cooperative del Friuli o per la Federazione trevigiana delle cooperative bianche di produzione e lavoro, che radunava un certo numero di professioni generiche ed artigiane. Questo ente, assieme agli altri federali della provincia, pubblicò nel 1920 un proprio organo di stampa: «L’azione cooperativa», inviato gratuitamente e con una tiratura mensile di 20.000 copie.
Un quarto livello riguardava l’organizzazione nazionale dei settori cooperativi. Anche la nascita di federazioni nazionali è stato un fenomeno riguardante per lo più gli anni del primo dopoguerra. Nel 1917 si costituì la Federazione nazionale delle cooperative di consumo accompagnata due anni dopo dal Consorzio nazionale di approvvigionamento; nel 1918 la Federazione nazionale delle cooperative agricole, dopo una prima fondazione nel 1908. Il 1919 vide anche l’avvio della Unione nazionale delle cooperative di produzione e lavoro. Per quanto riguarda invece quella delle casse rurali, esisteva già dal 1909 ma solo nel 1917 iniziò a funzionare. Nel 1914, invece, venne fondata la Federazione bancaria italiana rivolta ai piccoli crediti cattolici contemporaneamente al suo istituto centrale che prese il nome di Credito nazionale.
La federazione nazionale delle cooperative di consumo si presentava come una federazione di federazioni territoriali. A parte l’evidente necessità del Consorzio nazionale di approvvigionamento, pur avviato nel 1917 ma chiuso non molto dopo, le altre funzioni d’integrazione riguardavano, ad esempio, la rappresentanza presso il Governo delle esigenze delle cooperative e l’utilizzo operativo della legislazione di guerra.
La rappresentanza presso il Governo era un elemento ancora più essenziale per la federazione nazionale delle cooperative di produzione-lavoro.
La Federazione italiana delle casse rurali cattoliche contava nel 1917 l’adesione di 34 federazioni locali, per un totale di oltre mille casse. È opportuno almeno evidenziare, accanto alle funzioni di promozione, studio e raccolta di statistiche, l’attività di rappresentanza degli interessi nei confronti del Governo (regime fiscale, credito agrario, opposizione al progetto Labriola del 1917 che escludeva le casse dal novero delle cooperative). Occorre ricordare anche la funzione di assistenza contabile, la preparazione dei bilanci e pure l’attività di favorire le corrispondenze con le banche amiche. La Federazione contribuì alla risoluzione del rapporto fra le casse e le banche cattoliche stendendo una convenzione approvata dalle une e dalle altre, che valorizzava l’azione delle federazioni locali. Quanto alla questione della funzione finanziaria centrale, che sarebbe tornata utile nel 1923 nella vicenda della cassa di Bagnolo, l’affrontò, in uno scenario che andava cambiando, probabilmente troppo tardi, nel 1926, con la fondazione del Credito federale agricolo che però non approdò a nulla.
È dubbio che si possa attribuire alla Federazione bancaria il merito di aver realmente collegato, oltre qualche provvedimento di carattere tecnico come «un servizio di assegni circolari»40, i grandi con i «medi e piccoli istituti» cattolici41.
Un quinto livello toccava l’organizzazione nazionale di tutte le tipologie cooperative. La confederazione nazionale o qualcosa di simile era stata auspicata all’inizio del XX secolo. Ad essa ci si avvicinò nel 1901-1904 e poi con la fondazione da parte dell’Unione economico-sociale pei cattolici italiani di due segretariati nazionali riguardanti le casse rurali e le altre cooperative. Tra il settembre 1918 ed il luglio 1919, dopo un pronunciamento favorevole delle cooperative di consumo e produzione-lavoro, venne avviata la Cci con la fisionomia di una confederazione di federazioni nazionali e di unioni cooperative territoriali42. Nel 1921 la Cci aveva aggiunto al già vigoroso settore del credito una più accentuata crescita di quello agricolo, del consumo e produzione-lavoro. In quest’anno la Cci celebrò il suo primo congresso a Treviso; con le sue circa 8.000 cooperative aderenti, perlopiù dell’Italia Centro-settentrionale, si poneva così per importanza accanto alla Lega nazionale delle cooperative. Il motivo sostanziale alla base della fondazione riguardò la necessità, già avvertita nell’età di Giolitti, di far massa critica per aver voce nelle decisioni del Governo rispetto alle cooperative, come avvenne negli anni del primo dopoguerra. Struttura organizzativa centralizzata e forte integrazione dei vari settori, finalizzata allo sviluppo del consumo e della produzione-lavoro, ecco il volto nuovo, che s’intendeva disegnare, delle cooperative cattoliche della Cci. Esso avrebbe dovuto contrastare la fisionomia d’anteguerra, dai caratteri spiccatamente locali, immersi nella vita religiosa della parrocchia e più che mai definiti dal settore del credito. Ma, in via di fatto, sembra che l’accentramento abbia subito delle limitazioni a favore dell’autonomia delle federazioni nazionali, in particolare, proprio di quella del credito.
Non ci occuperemo in questa sede dei soci ordinari delle cooperative cattoliche ma limiteremo il discorso ai fondatori. Può darsi che le cooperative contrastassero l’interesse dei nobili, dei possidenti agrari e della borghesia industriale ma ciò non impedì, come accadde nella provincia di Verona, che i possidenti con i professionisti, impiegati, funzionari ed anche dirigenti d’azienda si dimostrassero disponibili verso le cooperative ed anche vi assumessero cariche, non solo in quelle cittadine (bancarie od altro) ma pure in quelle paesane di ogni tipo. Ciò che guidava questi atteggiamenti era l’inclinazione filantropica della possidenza agraria ma anche del notabilato e della borghesia, visibile ad esempio anche in Toscana. L’intervento di personalità locali (maestro, medico, veterinario, sindaco) nella fondazione di casse rurali, per la rappresentanza di fronte a terzi della cassa, i contatti con le istituzioni pubbliche, il controllo dell’amministrazione e la ricerca dei fondi (depositi), è stato notato per il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia e la Toscana. In taluni casi, come per l’Agordino, il Bellunese, il Feltrino (casse rurali), Trevigiano (latterie sociali), Friuli-Venezia Giulia, costoro erano d’estrazione schiettamente liberale, così come è possibile individuare gruppi di laici e sacerdoti cattolici liberali o conciliatoristi. Questa caratteristica non precluse l’esercizio della critica qualora ritenessero inaccettabili le posizioni sociali liberali ma neppure impedì le cooperative tanto che, ad esempio, in Lombardia un sacerdote conciliatorista come l’abate Rinaldo Anelli ideò i forni cooperativi mentre nelle Marche, ed in Sicilia membri del clero risultavano soci di casse rurali liberali (neutre). In molti altri casi dalla nobiltà e dalla borghesia ma anche da ceti popolari, emersero laici cattolici cosiddetti cristiano-sociali o democratici cristiani. Accanto a costoro, il clero. Di ogni grado, dal vescovo al parroco, al coadiutore, dovunque chiamato alle opere di «economia cattolica»43 nell’ambiente rurale come in quello industriale, tanto che nelle Marche venne coniata la parola d’ordine: «Una banca in ogni diocesi, una cassa rurale in ogni parrocchia»44. Il clero assunse la presidenza delle società economiche e le organizzò, talvolta, sotto l’aspetto contabile-finanziario appreso negli studi svolti in seminario. Non raramente la sua azione era dotata di una carica innovativa che poneva le cooperative al livello delle cattedre ambulanti e comizi agrari. I sacerdoti godevano della fiducia della popolazione e, fra di loro, si distinse un nucleo di giovane clero fortemente impegnato nelle attività sociali, di orientamento cristiano sociale o democratico cristiano che avrebbe sostenuto con il proprio impegno il Partito popolare italiano (Ppi). Naturalmente esistevano situazioni meno propizie. In questi casi, determinante fu l’azione dei vescovi. Molte furono le realizzazioni cooperative come il «paese cooperativo» di Torre di Pordenone dove il parroco don Giuseppe Lozer fondò, nel primo ventennio del Novecento, una cassa operaia, una cooperativa di consumo, una cooperativa edilizia, una cooperativa di lavoro, una farmacia cooperativa ed un molino e forno cooperativo. La connotazione parrocchiale/comunale era il carattere distintivo della cooperazione cattolica, osservabile in molte regioni. La partecipazione del clero era estesa e così intensamente dedicata alle opere economiche da «rattrappire la vocazione ecclesiastica»45. Tanto che nel 1910, 1923 e 1934 la Santa Sede proibì l’impegno economico dei sacerdoti quando si manifestava nell’assunzione di cariche di responsabilità. La disposizione del 1910 frenò forse l’azione cooperativa nel Mezzogiorno continentale e quella del 1923 venne accolta con malumore senza peraltro poter impedire che, informalmente, i sacerdoti continuassero a guidare le società e ad influire sulle cooperative e, formalmente, ottenessero di fatto l’autorizzazione pro tempore dagli ordinari diocesani o dagli organi vaticani. Più selettiva pare sia stata invece la disposizione del 1934.
Le società cooperative agirono a lungo entro vincoli associativi non essenzialmente strumentali (tecnici) ma politico-religiosi. Di solito, più dell’azione spontanea del clero e/o dei singoli laici, cattolici e non, si tende a sottolineare quella stimolata e sostenuta da strutture organizzative sovraparrocchiali locali o dalle ramificazioni locali dell’Azione cattolica nazionale (Opera dei congressi, Unione economico-sociale, Democrazia cristiana murriana ecc.). Naturalmente, le due situazioni non si escludevano ma, in tempi diversi, per la stessa realtà cooperativa, potevano realizzarsi entrambi.
Accadde che questi vincoli extra-cooperativi, corrispondenti al primo livello associativo, sostenessero anche tecnicamente l’agire economico delle cooperative.
Ma essi ne limitavano l’autonomia poiché, in fondo, la subordinavano a obiettivi essenzialmente religiosi, politico-religiosi e sociali, ossia, lo svolgimento dell’interesse economico delle cooperative trovava termine nella ‘questione romana’ (finché aperta), nei programmi pastorali parrocchiali o diocesani che privilegiavano accanto alla religiosa, la dimensione sociale-assistenziale ed erano indisponibili a considerare la crescita economica delle cooperative indipendentemente da questi aspetti. In Lombardia, infatti, succedeva non si distinguesse l’azione delle cooperative dall’azione cattolica e che le cooperative si confondessero «all’interno delle strutture diocesane»46. Negli anni immediatamente precedenti la Grande guerra le cooperative della Liguria erano considerate ‘istituzioni della Chiesa’ e durante la guerra la giunta diocesana di azione cattolica prevedeva la presenza di persone del mondo cooperativo47. Nel Veneto la cassa rurale rappresentava più un aspetto dell’istituzione parrocchiale che un’impresa e poteva dipendere sostanzialmente dalla volontà del clero locale. Non senza che accadesse qualche guaio come alla cassa rurale di San Giovanni Lupatoto (1897) dove nel 1933 venne scoperto un importante ammanco di danaro, speso per le esigenze della carità parrocchiale.
Questi diversi orizzonti associativi riguardavano dunque l’organizzazione ecclesiastica diocesana con la parrocchia alla base, ed anche, in armonia o contrasto con essa, le forme che assunse l’impegno sociale e politico nazionale dei cattolici. La storiografia normalmente sottolinea con abbondanza di dettagli le diversità fra l’una e le altre ma è possibile interpretarli come «i diversi aspetti di un’unica realtà che non solo faceva capo ad una medesima ideologia, ma anche era legata più concretamente, agli stessi soci e agli stessi dirigenti che erano interscambiabili»48. Ciò che tenne insieme a lungo la pastorale sociale delle strutture ecclesiastiche, le linee del programma economico-sociale delle organizzazioni nazionali dei cattolici con le esigenze dello sviluppo (economico) delle imprese cooperative fu la vocazione sociale di queste ultime. In Liguria si pensava che «lo sviluppo della cooperazione […] costituiva, soprattutto nuovi metodi di accostamento e di soluzione collettiva dei problemi sociali e il tentativo di superamento dell’individualismo»49.
La linea dello sviluppo cooperativo, tuttavia, spingeva verso la costruzione di un’organizzazione autonoma. La laicizzazione delle cooperative si delineò, più compiutamente, nel primo dopoguerra, ricercando l’indipendenza dall’autorità religiosa (abbandono dell’etichetta confessionale) e dalle strutture ecclesiastiche (definizione di uno spazio operativo provinciale/regionale). Ovviamente il processo veniva giustificato anche dalla ricerca di un ordinamento tecnico appropriato. La compresenza necessaria di queste condizioni fu una costruzione storica che si affermò successivamente. Ma bisogna almeno accennare al fatto che qualcuno avesse cercato di tenere insieme confessionalismo e sviluppo economico cooperativo. Nel 1898 Emanuele Lanzerotti sostenne per il Trentino un compiuto progetto di economia cooperativizzata in un contesto di dichiarato confessionalismo. Curiosamente in quest’occasione la posizione della laicità della cooperazione era stata sostenuta dal presidente della federazione delle cooperative trentine don Lorenzo Guetti.
In ogni modo si giunse a marcare una distinzione istituzionale fra organizzazione ecclesiastica (parrocchia/diocesi) e organizzazione cooperativa. Contemporaneamente, l’organizzazione nazionale dei cattolici si specializzò nella fondazione della Cci, della Cil e del Ppi. Circa le cooperative, si trattò del comparire, nel primo dopoguerra, come abbiamo visto, di strutture organizzative autonome tipicamente cooperative e della formazione di organizzazioni locali, direttamente controllate dalla Cci, per la promozione sia di nuove cooperative sia di sostegno delle cooperative esistenti rappresentate dagli uffici provinciali della cooperazione. Nei confronti del Ppi (ancora più che nella Cil) le cooperative intrattennero rapporti particolarmente stretti, dettati dal reciproco interesse, tanto da costituire però in taluni casi una nuova forma di dipendenza. La connessione fra cooperatori e membri del Ppi era riconoscibile nei politici che occupavano cariche cooperative, a esempio, in Piemonte, nelle province di Treviso, Venezia, Verona, nel Friuli-Venezia Giulia, Lazio e Marche. Le stesse istituzioni della cooperazione si pronunciarono a favore del Ppi, come l’Ufficio del popolo di Genova o le casse rurali (e i cooperatori) dell’Emilia-Romagna. In Umbria, nel primo dopoguerra, «spesso la sede del partito, la sede della cassa o della cooperativa coincidevano […] [e] l’adesione al programma politico del Partito popolare diviene titolo selettivo per diventare socio» delle cooperative, alcune delle quali finanziarono la campagna elettorale del 191950. Occorre notare che l’Umbria era stata preparata dai democratici-cristiani a cogliere il messaggio politico implicito nelle cooperative come ebbe a dire don Enrico Giovagnoli già nel 1906: «La cooperazione non ha solo lo scopo di ripartire gli utili e di vendere le derrate a meno prezzo, ma è altresì un potente ausiliare alla preparazione di uno Stato nuovo. Le cooperative […] cesseranno di essere unicamente magazzini per divenire centri di vita cooperativa ed anche di democrazia»51.
Le cooperative cattoliche soffrirono l’interazione contemporanea di due fattori distruttivi: la debolezza interna dovuta ad alcune obiettive difficoltà tecnico-economico-organizzative che si registrarono dopo la Grande guerra e l’attacco del fascismo, sistematico per le società più vicine al Ppi o alla Cil. Quanto al primo, occorre ricordare che le cooperative negli anni Venti-Trenta vennero indebolite dalle congiunture economiche negative aggravate da una politica fiscale che riduceva le esenzioni, da una nuova organizzazione di quelle di credito che le relegava lontano dall’intercooperazione e dal rigore degli ispettori della Banca d’Italia. Difficoltà economico-finanziarie, liquidazioni, fallimenti e assorbimenti si manifestarono dappertutto: in Veneto, Piemonte, Toscana, Lazio, Marche. Quanto al secondo, specie nel campo bancario la pregiudiziale politica guidò l’azione fascista verso le banche cattoliche, per neutralizzare l’influenza esercitata su di esse dal Ppi («spopolarizzazione») e allentare il legame con il sindacato52. L’attacco alle cooperative di consumo cattoliche dell’Umbria era scontato. Nelle Marche si fiaccò quella adesione di laici e sacerdoti che avevano permesso al Ppi di divenire il primo partito della regione. Anche in Terra di lavoro l’alleanza di popolarismo e cooperativismo venne combattuta congiuntamente così come in Sicilia dove il legame tra cooperatori ePpi era stato particolarmente forte. Le violenze per altro ci furono dovunque, in Trentino, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Lazio. L’attacco venne condotto anche sotto l’aspetto legale, attraverso il commissariamento degli enti cooperativi ed altre forme di persecuzione legale.
Tuttavia, il fascismo non operò per distruggere le cooperative. Durante il ventennio, le difficoltà delle cooperative del Sud continentale non dipesero dall’essere bandite dai fascisti. Al Nord Italia la cooperazione agricola del Trevigiano e del Veneziano (essiccatoi bozzoli, latterie sociali, caseifici sociali) unì una vivace attività alla crescita numerica, accordandosi con un andamento generale che vedeva «il settore lattiero-caseario […] interessato da una evidente crescita»53. Nel Centro, sino al 1931 il numero delle casse rurali del Lazio rimase quasi inalterato rispetto al 1911 (64 contro 67) e, nel 1927, le cooperative di produzione e lavoro erano circa il doppio del 1911, mentre in Toscana nello stesso periodo erano triplicate. In questa ultima regione, per quelle di consumo in alcune province si assistette ad una crescita. Montepulciano divenne un laboratorio di cooperative di marca cattolica così come in Umbria sulle rive del lago Trasimeno a San Feliciano si sviluppò dalla fine degli anni Venti la cooperazione fra pescatori.
Piuttosto, il regime operò per dare alle cooperative una diversa e obbligatoria organizzazione. Infatti, nel 1925, poco prima dello scioglimento della Lega nazionale delle cooperative, venne istituito l’Ente nazionale della cooperazione (Enc) in cui furono organizzate anche le cooperative cattoliche (1927). Ma non quelle di credito che raggiunsero un altro approdo organizzativo, rappresentato dalla Federazione nazionale fra istituti cooperativi di credito aderente alla Confederazione generale fascista del credito e dell’assicurazione (1926-1927). La Federazione nazionale ‘inquadrava’ l’Associazione nazionale tra le casse rurali, agrarie ed enti ausiliari, succeduta nel 1926 alla Federazione italiane delle casse rurali cattoliche, che considerava come sezioni locali le federazioni della Federazione italiana. Nel 1934 l’organizzazione delle casse venne modificata con la fondazione della Federazione fascista delle casse rurali, agrarie ed enti ausiliari cui, due anni dopo, venne affiancato l’Ente nazionale delle casse rurali agrarie ed enti ausiliari, articolato in enti di zona. È opportuno notare che questa vicenda, in cui le cooperative di credito venivano assimilate più alle banche ordinarie che alle cooperative e sottoposte a una specifica regolamentazione accentuò l’autonomia che già praticavano nei confronti del resto delle cooperative.
Ma i cattolici riuscirono talvolta, a livello locale e nazionale, a porre dei limiti ad una integrale fascistizzazione delle cooperative. Molti cooperatori cattolici, militanti e dirigenti, presumibilmente, si ritirarono durante il ventennio. Ma altri, dirigenti della cooperazione cattolica, addirittura ex dirigenti o militanti dell’odiato Ppi, occuparono posizioni di responsabilità dentro l’Enc. In più di un caso i cattolici riuscirono, sino a un certo momento, a inserire persone affidabili dentro l’Enc o nelle strutture organizzative fasciste delle casse rurali, anzi, si ritiene che sino al 1929 le casse rurali non cambiarono i loro dirigenti locali e nazionali. Sul piano delle istituzioni nazionali i cattolici cercarono di limitare il potere della nuova organizzazione riuscendo a concordare con il governo fascista la contemporanea iscrizione delle cooperative cattoliche all’Enc ed all’Istituto cattolico di attività sociale (Icas) avviato nel maggio 1926 nell’ambito dell’Azione cattolica italiana, sotto la cui tutela si posero. In vari modo e con diversi risultati ciò avvenne per la Lombardia, il Trevigiano, l’Emilia-Romagna, il Trentino. Conviene ricordare che all’Icas parteciparono e/o si formarono importanti figure di cooperatori come Augusto Rovigatti e Livio Malfettani, che rimarrà a lungo nel secondo dopoguerra nel centro di guida della Cci. Circa le istituzioni territoriali si può ricordare il caso della Liguria dove le società economico-sociali vennero inquadrate nell’ambito delle organizzazioni religiose, non toccate nella loro autonomia dal Concordato del 1929. In Lombardia, le cooperative ritornarono a stringersi all’Azione cattolica e ritardarono l’abbandono del clero. Nella provincia di Treviso, invece, sembra che sino alla metà degli anni Trenta abbia continuato ad operare la Federazione provinciale cattolica delle casse rurali. Il fascismo faticava a penetrare nel governo delle casse rurali ed altre cooperative regionali poiché era frenato dalla resistenza del clero. Abbiamo già ricordato Montepulciano. Possiamo ora aggiungere il caso delle Marche dove, nel 1936, i soci delle casse rurali cattoliche con la tessera fascista rappresentavano un quarto del numero totale.
La ricerca storica relativa agli anni dopo la Seconda guerra mondiale non ha raggiunto quel grado di analiticità – peraltro non ancora sufficiente – di cui può godere il periodo precedente. In particolare risulta difficile poter seguire la vicenda cooperativa dei cattolici nei suoi sviluppi regionali e nei diversi settori. D’altro canto l’affermarsi della Cci è stato un poco più indagato tanto da permettere, sotto questo profilo, un primo accostamento alla vicenda cooperativa dei cattolici dopo la Seconda guerra mondiale, che sarà velocemente schizzata in questa sede sino al 1975, quando l’inizio della presidenza di Enzo Badioli fece pensare ad una nuova epoca della sua storia54.
L’Azione cattolica e l’Icas giocarono un ruolo determinante al momento della ripresa della Cci, avvenuta ufficialmente il 15 maggio 1945. I rifondatori provenivano anche e in buona parte dalle file del Ppi e del cooperativismo bianco del primo dopoguerra. Non pochi erano destinati ad essere eletti in Parlamento nel partito dellaDemocrazia cristiana ma non il delegato Icas Livio Malfettani, appena ricordato, un «uomo nuovo» formatosi fra i laureati cattolici, che ricoprì posizioni di vertice nella Cci dal 1950 al 1975, prima come segretario, poi come presidente. Per quanto riguarda la consistenza delle cooperative bianche possiamo dire che la nuova Cci, con oltre 8.500 società aderenti, ripartiva nel 1952 all’incirca dal livello del 192155. Questa cifra era destinata a salire a 10.386 nel 197256. Occorre notare che, a differenza di quanto stava accadendo nel sindacato, il pluralismo associativo cooperativo venne mantenuto dal momento che nello stesso anno, nel maggio e settembre 1945, venne rifondata la Lega nazionale delle cooperative (da cui nel 1952 si staccherà l’Associazione generale delle cooperative italiane) e creata l’Unione libera della cooperazione, di orientamento liberale. La Cci ripartiva dalla sua storia ma senza ignorare la situazione creatasi durante il fascismo che, a suo modo, aveva cercato di affrontare alcuni problemi centrali delle cooperative così come si erano presentati negli anni Venti e Trenta, avanzando soluzioni che, in qualche caso, possedevano forza vincolante. Le questioni cui ci riferiamo riguardavano l’intervento dello Stato, dei suoi apparati e la mediazione partitica; il pluralismo del movimento cooperativo; la democrazia cooperativa e il ruolo dell’organizzazione centrale nel definire le cooperative come imprese economiche.
I cooperatori cattolici erano ben lontani dal teorizzare il disinteresse dello Stato verso le cooperative, ma i loro principi non permettevano di subordinare a esse l’iniziativa privata. Essi accentuarono un orientamento liberale ma forse dobbiamo ai loro contrasti interni l’intento di eliminare lo «strapotere del capitalismo»57. Più realisticamente, la loro visione riguardava il concetto di sussidiarietà, grazie al quale chiedevano allo Stato di riconoscere la natura medio-piccola delle imprese cooperative e la vocazione cooperativa ad occupare un proprio settore nell’economia nazionale. È difficile capire quanto e se la dottrina fosse una copertura di una sostanziale dipendenza dall’intervento pubblico. Di certo la Cci, premeva perché fossero assegnate alle cooperative le opere pubbliche. Era pronta a criticare lo statalismo e il municipalismo che assorbiva le cooperative elettriche e le farmacie sociali ma invocava anche agevolazioni tributarie per la funzione sociale che svolgeva o insisteva, nel 1951, 1953 e 1967, sulla richiesta all’amministrazione pubblica di partecipare alle spese di revisione dei bilanci delle cooperative che una legge del dicembre 1947 attribuiva alle centrali cooperative per conto dello Stato, dopo che era stata a lungo richiesta dalle stesse cooperative (legge Basevi). Anche quando assicurarono l’adesione, nel 1963, alla politica di programmazione economica, i cooperatori avanzarono una numerosa serie di richieste a favore delle cooperative. Forse era questo il modo che avevano scelto per conciliare libertà ed autorità. Di certo, dunque, la Cci era inserita nelle istituzioni pubbliche. In effetti, nel 1952 il Governo si rivelò un buon datore di lavoro per i cooperatori della Cci, assunti numerosi nei suoi uffici. Al di là di questo è interessante leggere il commento: «La presenza di uomini nostri in seno agli enti di riforma da affidamento per l’incremento della cooperazione». Anche grazie a questa presenza la Cci nel 1962 poteva dichiarare di non potersi accontentare di «alcuni modesti incentivi di circostanza»58.
La dichiarazione di apartiticità e apoliticità della Confederazione non impedì a non pochi parlamentari ed uomini politici di figurare tra i dirigenti della Cci e vi fu un momento in cui il contrasto fra la Cci e la Federazione nazionale coltivatori diretti (Coldiretti) divenne una questione da risolvere entro le diverse correnti della Dc. L’animatore del Comitato rifondatore della Cci, Luigi Corazzin, era un uomo Dc come tutti i presidenti succedutisi alla guida confederale sino alla nomina di Malfettani (1965). Se, nell’estate del 1944, Corazzin aveva creduto che presso la Dc le cooperative non fossero tenute in nessuna considerazione, qualche anno dopo, il presidente Fiorenzo Cimenti evitò la nuova realtà dicendo che non era curioso dell’appartenenza politica dei cooperatori. Giunse un momento in cui dentro la Confederazione ci si pose la domanda su quale fosse il punto cui poteva arrivare il «collateralismo» alla Dc; ma pure Malfettani, nel 1955 ebbe a dire che: «la posizione della Cci è apartitica, però alcuni [partiti] ci interessano»59 e nel 1963 spinse affinché i cooperatori si impegnassero in politica. Tuttavia Enzo Badioli, nel 1974, pensava che la Cci contasse poco presso i poteri forti del paese e, perciò, dovesse «decisamente» ritornare alla partnership con la Dc. Resta il fatto, comunque, che il III congresso della Confederazione (gennaio 1975) volle rafforzare l’autonomia dai partiti politici.
Il pluralismo cooperativo rientrava fra i caratteri originari della cooperazione italiana, in particolare segnata dal contrasto fra la cooperazione socialista e cattolica. L’opposizione si nutriva di opposte visione teoriche e diverse scelte pratiche sullo scopo e metodo del movimento cooperativo. Ma, circa questo tema, assecondando un clima politico-culturale unitario che rappresentava un’eredità del fascismo (ma anche veniva nutrito dalla Resistenza), sembrerebbe che la prima opzione sia stata quella dell’unità delle cooperative (riunione del Teatro Quirino, 1944), che resistette più che altrove in Emilia-Romagna, dove «i cooperatori cattolici […] furono schiettamente unitari»60. Vari motivi spingevano in questa direzione. Secondo il giudizio di Corazzin i cooperatori cattolici, in quel momento, non potevano contare su appoggi del mondo cattolico e, come abbiamo osservato, della Dc. Tuttavia non intendevano restare estranei alla ripresa del movimento delle cooperative che si stava annunciando da ogni parte sulla base unitaria del ventennio fascista che proclamava la natura economica e non politica delle cooperative. Non diversamente, Corazzin nel nome dei principi di Rochdale auspicò un’alleanza nazionale delle cooperative di consumo. Egli pragmaticamente scriveva al Chiri:
«Chi potrà impedire di pensare ai cooperatori, che hanno fiducia nel movimento cooperativo cristiano-sociale, che un conto è l’ortodossia del pensiero sociale ed altro è il raggiungimento del fine economico per il quale è sorta la cooperativa?»61.
Ma le ragioni del pensiero, probabilmente rinforzate da qualche meno reticente appoggio partitico, vennero presto riproposte nella proclamazione delle differenze, pratiche e teoriche, rispetto al cooperativismo social-comunista. Quelle pratiche riguardavano il contrasto fra socialisti e cattolici per il governo dell’Enc; quelle teoriche la critica della concezione statalista della Lega e la chiara identificazione del soggetto cooperativo con la piccola-media impresa invece della grande cooperativa monopolista: mercato e libera iniziativa contro statalismo e monopolio. Il contrasto con la Lega si ripropose a proposito della cooperazione (di lavoro) agricola che per la Cci era propedeutica alla formazione di piccola proprietà contadina diretto coltivatrice mentre per la Lega alla promozione di cooperative agricole a proprietà comune. Bisogna ricordare, tuttavia, che anche nei momenti di enfasi antiunitaria non cessarono i contatti e anche le richieste comuni come quella di un Ministero della cooperazione. Non ogni rapporto, quindi, risultò precluso; così, nel 1954, parlamentari dei due schieramenti si ritrovarono uniti nell’evitare aggravi fiscali alle cooperative e l’anno successivo il segretario generale della Cci stabilì la regola generale di questa relazione: non accordi permanenti ma solo caso per caso su aspetti tecnici.
Ma, in questi anni, sin dal 1945, venne anche aperto un fronte interno al cooperativismo cattolico, che provocò problemi e scontri minandone l’unità attorno alla Cci. La Coldiretti prese l’iniziativa di fondare cooperative (agricole), seguita dalle Acli, dalla Cisl (Centro nazionale per lo sviluppo della cooperazione, 1962) e da altre forze che diedero origine a un’altra organizzazione cooperativa nazionale: l’Unione nazionale delle cooperative italiane (Unci), riconosciuta giuridicamente nel 1975.
La questione della democrazia cooperativa attraversò il pezzo di storia della Cci di cui ci stiamo occupando. Al momento della ri-fondazione la Cci intendeva integrare la volontà delle strutture territoriali (unioni territoriali, ad esempio quella di Milano)62 e delle organizzazioni di settore (federazioni nazionali di settori cooperativi). Quasi subito, per iniziativa di Malfettani, si andò delineando un disegno organizzativo, basato su unioni provinciali o regionali di tutti i tipi di cooperative che prevedeva un più forte accentramento. Da questo momento venne ricercata una formula che soddisfacesse l’esigenza di distribuire il potere in modo equilibrato. Ben presto, nel 1948, le federazioni nazionali dei settori cooperativi ricostituite o in procinto d’esserlo (di produzione-lavoro, della pesca, agricola e di trasformazione agricola, consumo ed edilizia) vennero riportate al centro della Cci. Si trattava di trovare il giusto modo per coniugare il centralismo con l’autonomia delle federazioni nazionali ma anche delle unioni territoriali che non sopportavano il giogo della Confederazione. Il sintomo del contrasto era rappresentato dall’opposizione delle cooperative lombarde e del Nord, malgrado tentativi di cooptazione a responsabilità di vertice, che durò, a partire dal 1945 per tutto il periodo che consideriamo ed ebbe ricorrenti momenti di particolare acutezza. Ad esempio nel 1959 il lombardo Tarcisio Longoni avvisò che «al Nord c’è fermento tra le unioni per staccarsi dalla Confederazione»63. Il problema della democrazia cooperativa venne ereditato anche dagli anni Settanta e coinvolse direttamente il presidente Malfettani imputato di agire come un monarca. Eppure nel 1967 all’Assemblea nazionale di Fiuggi aveva promesso collegialità e forse si poteva reputare come un primo segno di cambiamento di rotta il mutamento del nome dell’organizzazione nazionale, non appariscente ma, nel nostro discorso, significativo: da Confederazione cooperativa italiana a Confederazione cooperative italiane. Comunque, le accuse di personalismo, accentramento decisionale, paternalismo si riproposero così come le iniziative per assicurare una maggiore democrazia senza che, a quanto pare, si potesse giungere ad una soluzione soddisfacente, vale a dire diversa dalla nomina di un nuovo presidente, che avvenne nella persona di Enzo Badioli al III congresso della Cci (1975).
La realtà economica che si riferiva alla Cci riguardava essenzialmente, come sappiamo, piccole-medie imprese ed era il risultato dell’idea che i cooperatori cattolici avevano di questa dimensione dell’impresa, da preferirsi perché in essa il socio non naufragava né perdeva la sua personalità. In sede costituente Cimenti diede per intero la dimensione del sogno: la piccola-media impresa capillarmente fondata avrebbe potuto sostituire la grande. Naturalmente se le cose fossero andate in questo modo, la Cci avrebbe dovuto aspettare non poco per giocare la propria funzione economica in modo completo, oltre cioè l’istruzione professionale, l’alta formazione cooperativa (in collaborazione con l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano all’inizio degli anni Sessanta), e l’assistenza prestata alla formazione dei revisori attraverso l’Istituto cooperativo italiano (Ice) (1945) e poi l’Istituto nazionale di educazione cooperativa (Inec) (1953). Fortunatamente non fu così e la Cci s’interrogò in quale altro modo potesse esercitare la propria funzione in un mondo cooperativo di piccole imprese. L’occasione venne colta nel 1957 da Malfettani in un discorso sul Mec. Disse:
«[vi è un] problema di aggiornamento, [una] esigenza di modernizzazione degli impianti e delle tecniche di distribuzione [che] se preoccupa le grandi aziende, mette a dura prova le medie aziende e mette in pericolo le piccole e le micro-aziende, a meno che non si leghino tra loro in una azione comune […] la prima cosa che dobbiamo fare noi dirigenti centrali e periferici della Confederazione è […] il trasferimento della nostra attività dall’assistenza tecnico-amministrativa, all’assistenza tecnico-produttivistica […] i cooperatori si debbono interessare al mercato [cosa che comporta la] necessità di aggiornamento dei sistemi di lavorazione […] di programmazioni economiche unitarie […] [inoltre] promuovere una concentrazione cooperativa […] io non direi di fare cooperative a tutti i costi […] noi oggi dobbiamo selezionare e concentrare il nostro movimento […] [noi] abbiamo bisogno di risolvere questo problema della dimensione aziendale delle nostre cooperative. Non venendo meno al nostro principio […] [di] mantenere la piccola unità, ma soltanto unendosi fra loro le cooperative, noi potremo raggiungere quegli scopi economici che sono essenziali per lo sviluppo della cooperazione»64.
La direzione era stabilita, in accordo con gli spunti di modernizzazione che dagli anni Cinquanta iniziavano a manifestarsi65 e che avrebbero ridestata la questione della «cooperazione come impresa»66. Ma forse non si fece molto. Nel 1972 Badioli dichiarava, infatti, di doversi potenziare il lato imprenditoriale delle cooperative. La dimostrazione risiedeva nella incapacità della Cci di integrare le finalità sociali con quelle economiche e in questo difetto consisteva la cronica insufficienza del proprio bilancio e la continua necessità di ricorrere alla richiesta di contributi pubblici:
«All’estero […] è l’organizzazione cooperativa che fornisce i contributi agli altri, soprattutto al mondo politico. Non dobbiamo chiedere noi i contributi, dobbiamo crearli creando delle imprese economiche […] è necessario dare strutture nuove, è necessario trovare uomini nuovi, soprattutto dei dirigenti nuovi, dei manager […] che sappiano condurre non un’associazione ma un’impresa, perché imprenditori noi siamo , non siamo qui in circoli associativi o ricreativi […] [così da avere] anche al Centro […] i mezzi economici da noi stessi, per potere fare la nostra politica»67.
Nel progetto di favorire lo sviluppo dell’imprenditorialità cooperativa rivestiva un posto importante la cooperazione delle casse rurali, che dagli anni successivi alla Grande guerra sino al fascismo erano state (ma anche si erano) allontanate dall’organizzazione unitaria. La federazione italiana, infatti, nel primo dopoguerra era stata cauta «nel subordinare la propria azione all’ente confederale e più laconica nell’esprimere ad esso la propria gratitudine»68. La vicenda del rientro delle casse si consumò proprio negli anni che stiamo considerando. Il passaggio alla Repubblica aveva lasciato inalterata l’organizzazione centrale di settore rappresentata dall’Ente nazionale delle casse rurali, istituzione di diritto pubblico e dalla rifondata federazione delle casse rurali (1947). La questione della duplicità degli istituti di rappresentanza venne risolta agli inizi degli anni Settanta con la cessazione dell’Ente. Più complicato il rientro della federazione delle casse nella Cci. Dapprima, agli inizi degli anni Cinquanta, si doveva accompagnare alla fondazione di un istituto bancario con lo scopo di fungere da istituto centrale delle casse e da centrale finanziaria di tutte le cooperative. L’operazione non ebbe uno sbocco, salvo mantenere la lontananza dalla Cci. Seguì una sgradevole situazione provocata dall’iniziativa della Confederazione di avviare rapporti diretti con le singole casse. Questa decisione provocò la risentita reazione del suo presidente: «[…] che cosa fanno per le casse rurali le cooperative di consumo […]? […] quanti aiuti di ordine creditizio le casse rurali hanno fatto alle cooperative […]? Lo sapete voi quante sono [le cooperative aiutate]? Io posso dirvi che sono molte»69. Bisognò aspettare sino al 1971 perché si proponesse il rientro delle casse rurali nella Cci. Malfettani nel Consiglio nazionale di Roma (gennaio 1971) sostenne la necessità «di avviarci ad un fronte finanziario dei cooperatori compenetrando intimamente il movimento delle casse rurali con quello delle cooperative di diversa finalità e viceversa»70. Anche Badioli, che nel frattempo era stato nominato presidente dell’Ente nazionale delle casse rurali, sosteneva che «Le casse rurali debbono essere unite a tutto il sistema cooperativo»71. Nel III congresso della Cci (1975) le casse rurali rientravano nella Cci.
1 Cit. P. Cafaro, “Una cosa sola”. La Confcooperative nel secondo dopoguerra: cenni di storia (1945-1991), Bologna 2008, p. 246.
2 L. Gheza Fabbri, Solidarismo in Italia fra XIX e XX secolo. Le società di mutuo soccorso e le casse rurali, Torino 1996, p. 198.
3 A. Rinella, La disciplina delle imprese cooperative e le istanze della cooperazione (1860-1946), in Mezzo secolo di ricerca storica sulla cooperazione bianca. Risultati e prospettive, II, Temi e fonti per uno sviluppo della ricerca, a cura di S. Zaninelli, Verona 1996, p. 629.
4 Unione operaia cattolica, 1871.
5 L. Trezzi, Sindacalismo e cooperazione dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, Milano 1982, pp. 202 segg.
6 P. Battilani, I mille volti della cooperazione italiana: obiettivi e risultati di una nuova forma di impresa dalle origini alla seconda guerra mondiale, in E. Mazzoli, S. Zamagni, Verso una nuova teoria economica della cooperazione, Bologna 2005, pp. 122-128.
7 A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958, p. 741.
8 A. Albertazzi, L’area emiliano-romagnola: la cooperazione termine di confronto dell’esperienza sociale cattolica, in Mezzo secolo di ricerca, I, 2, a cura di S. Zaninelli, cit., p. 334.
9 G. Di Taranto, L’area del Mezzogiorno continentale: la cooperazione bianca tra modernizzazione e marginalità, ibidem, pp. 542, 545.
10 A. Robbiati, I periodici del movimento sociale cattolico lombardo: 1860-1926, Milano 1978, p. 255.
11 Cooperazione di credito e sviluppo sociale ed economico delle campagne in Emilia-Romagna, a cura di A. Cova, G. Scidà, Bologna 1983, p. 173; P. Cafaro, La solidarietà efficiente. Storia e prospettive del credito cooperativo in Italia (1883-2000), Roma-Bari 2001, p. 513.
12 R. Marconato, La figura e l’opera di Leone Wollemborg. Il fondatore delle casse rurali nella realtà dell’Ottocento e del Novecento, Roma 1984, pp. 413 segg.
13 S. Tramontin, La figura e l’opera sociale di Luigi Cerutti: aspetti e momenti del movimento cattolico nel Veneto, Brescia 1969, p. 286.
14 S. Agnoletto, Movimento cooperativo e cooperazione cattolica: alcuni dati quantitativi, in Mezzo secolo di ricerca, II, a cura di S. Zaninelli, cit., pp. 882, 891.
15 G. Conti, L’area toscana: la socialità ostacolata da contrasti interni e da condizioni ambientali, in Mezzo secolo di ricerca, I, 2, a cura di S. Zaninelli, cit., p. 368.
16 G. Lo Giudice, L’area siciliana: il contributo allo sviluppo economico e sociale dell’isola, ibidem, p. 562.
17 «debacle delle casse rurali», A. Leonardi, L’area trentino-tirolese: la regione a più forte sviluppo cooperativo d’Europa, in Mezzo secolo di ricerca, I, 1, a cura di S. Zaninelli, cit., pp. 242-243.
18 S. Noto, L’area veneta (provincia di Verona): un caso di soluzione economica naturale, ibidem, p. 140.
19 M. Gallo, L’area laziale: tra stagnazione e nuovo protagonismo, in Mezzo secolo di ricerca, I, 2, a cura di S. Zaninelli, cit., p. 504.
20 A. Gorini, L’area ligure: un panorama ricco di spunti interessanti, in Mezzo secolo di ricerca, I, 1, a cura di S. Zaninelli, cit., pp. 48-49, 56.
21 Banca cattolica cooperativa, 1902.
22 Banca cattolica salernitana, 1909.
23 P. Cafaro, L’area lombarda: l’alternativa cooperativa nella regione a più intenso sviluppo economico del paese, in Mezzo secolo di ricerca, I, 1, a cura di S. Zaninelli, cit., pp. 95, 114.
24 M. Pessina, La gestione economico-finanziaria delle casse rurali lombarde fino all’avvento del fascismo (1926), «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 15, 1980, 1, p. 88.
25 M. Gallo, L’area laziale, cit., p. 484.
26 F. Bof, L’area friulana e giuliana: una capillare diffusione di esperienze a supporto dell’economia agricolo-pastorale, in Mezzo secolo di ricerca, I, 1, a cura di S. Zaninelli, cit., p. 307.
27 M. Gallo, L’area laziale, cit., pp. 489-490.
28 M. Pessina, La gestione economico-finanziaria, cit., pp. 80-81.
29 A. Caroleo, Il movimento cooperativo in Italia nel primo dopoguerra (1918-1925), Milano 1986, p. 148.
30 Cit. in P. Cafaro, L’area lombarda, cit., p. 104.
31 C. Bermond, L’area piemontese e valdostana: un progetto di modernizzazione, in Mezzo secolo di ricerca, I, 1, a cura di S. Zaninelli, cit., pp. 32-33.
32 S. Pretelli, L’area marchigiana: un avviamento alla cultura della piccola impresa, in Mezzo secolo di ricerca, I, 2, a cura di S. Zaninelli, cit., pp. 453, 462.
33 M. Fornasari, V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico (1854-1992), Firenze 1997, p. 230, pp. 101-102, 117-120; C. Brezzi, A. Parisella, La formazione del movimento cooperativo cattolico: appunti per uno studio, in Il movimento cooperativo nella storia d’Italia 1854-1975, a cura di F. Fabbri, Milano 1979, pp. 661-662.
34 M. Fornasari, V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia, cit., p. 230, pp. 115-116.
35 G. Di Taranto, L’area del Mezzogiorno continentale, cit., pp. 543-544.
36 F. Bof, L’area veneta orientale (le province di Treviso e di Venezia): ceti contadini e parrocchia alla base del movimento cooperativo, in Mezzo secolo di ricerca, I, 1, a cura di S. Zaninelli, cit., p. 213.
37 M. Fornasari, V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia, cit., p. 230, pp. 115-116.
38 L. Trezzi, L’organizzazione di secondo grado e centrale, in Mezzo secolo di ricerca, II, a cura di S. Zaninelli, cit., pp. 683-713.
39 M. Gallo, L’area laziale, cit., p. 487.
40 A. Caroleo, Le banche cattoliche dalla prima guerra mondiale al fascismo, Milano 1976, p. 28.
41 S. Zaninelli, L’azione sociale dei cattolici, in DSMC, I, 1, p. 342.
42 A.M. Mauri, La Confederazione cooperativa italiana nel primo dopoguerra (1919-1926), «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 19, 1984, 2, pp. 223-272.
43 A. Albertazzi, L’area emiliano-romagnola, cit., p. 335.
44 S. Pretelli, L’area marchigiana, cit., p. 447.
45 Cit. A. Albertazzi, L’area emiliano-romagnola, cit., p. 336.
46 P. Cafaro, L’area lombarda, cit., p. 114.
47 A. Gorini, L’area ligure, cit., pp. 61, 66.
48 Ibidem, p. 66.
49 Ibidem, pp. 52-53.
50 M. Tosti, L’area umbro-sabina: cultura della solidarietà. Mondo contadino e cooperazione, in Mezzo secolo di ricerca, I, 2, a cura di S. Zaninelli, cit., pp. 406, 409, 423.
51 Cit. ibidem, p. 422.
52 G.L. Fontana, L’area veneta (province di Vicenza, Padova e Belluno): matrici, esperienze, percorsi di una società cattolicamente ispirata, in Mezzo secolo di ricerca, I, 1, a cura di S. Zaninelli, cit., p. 171.
53 T. Menzani, Il movimento cooperativo fra le due guerre. Il caso italiano nel contesto europeo, Roma 2009, p. 169.
54 L. Trezzi, Confederazione cooperativa italiana, in DSMC, Aggiornamento 1980-1995, Genova 1997, pp. 208-213.
55 A. Basevi, Sintesi storica del movimento cooperativo italiano, in Id., Studi cooperativi, Roma 1953, p. 36; Primo congresso nazionale della cooperazione cristiana (Treviso 1921), Atti ufficiali, a cura della Cci, Roma [1921] (rist. 1981).
56 E. Bramini, Cronologia e statistica, «Lettere Censcoop», nuova serie, 1988, 13, pp. 123-124.
57 P. Cafaro, “Una cosa sola”, cit., p. 158.
58 Ibidem, pp. 205, 247.
59 Ibidem, p. 212.
60 T. Menzani, La cooperazione in Emilia Romagna. Dalla Resistenza alla svolta degli anni settanta, Bologna 2007, p. 79.
61 P. Cafaro, “Una cosa sola”, cit., p. 106.
62 S. Agnoletto, Dall’Associazione all’Unione: la cooperazione bianca milanese tra il 1945 e il 1980. Il sistema di coordinamento, in L’Unione fa la forza. Imprese e strutture di supporto del cooperativismo bianco milanese: cinquant’anni di storia, a cura di P. Cafaro, Pavia 2000, pp. 69-150.
63 P. Cafaro, “Una cosa sola”, cit., p. 136.
64 P. Cafaro, “Una cosa sola”, cit., pp. 220-221.
65 P. Battilani, Da istituzione marginale a fattore di modernizzazione economica: l’impresa cooperativa in Italia nella seconda metà del Novecento, «Impresa e storia», 2009, 37, gennaio-giugno, p. 47.
66 G. Sapelli, La cooperazione: impresa e movimento sociale, Roma 1998, p.109.
67 P. Cafaro, “Una cosa sola”, cit., p. 284.
68 A.M. Mauri, La Confederazione cooperativa italiana, cit., p. 239.
69 P. Cafaro, “Una cosa sola”, cit., p. 225.
70 Ibidem, p. 270.
71 Ibidem, p. 274.