Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La tecnica del montaggio fu sviluppata e perfezionata dal regista americano David Griffith e dai russi Vsevolod Pudovkin e Sergej Ejzenstejn. Mentre nel montaggio invisibile, nel tentativo di costruire l’illusione di una continuità temporale e spaziale, la macchina da presa tende per quanto possibile a non rivelare la sua presenza, in quello visibile, al contrario, il montaggio stesso impone il suo ritmo con inquadrature e tagli discontinui che sottolineano il carattere artificiale del prodotto filmico. In vari autori e movimenti artistici del Novecento sono riscontrabili tecniche di montaggio analoghe e talvolta ispirate da quelle cinematografiche.
Una difficile datazione
Alfred Döblin
Berlin Alexanderplatz
I quattro anni erano passati. I ferrei battenti neri della porta, che da un anno egli aveva osservato con crescente avversione (avversione, perché avversione?) s’erano chiusi dietro di lui. L’avevano messo fuori! [...] Poi prese la rincorsa e saltò su un tram. Fra altra gente. Libero. [...] Il tram prese una curva, gli si pararono in mezzo alberi, case. Strade movimentate, gente che scendeva e saliva. [...] Confusione, che confusione. Tutto girava attorno. Il mio cervello non ci ha proprio più condimento, è diventato completamente secco. Cosa era tutta quella roba? Negozi di scarpe, cappellerie, lampade elettriche, osterie. La gente ci ha ben bisogno di scarpe se deve andare tanto in giro, anche noi avevamo una calzoleria. Cento vetrate lucide, e lasciale luccicare, non ti faranno mica paura, e, se vuoi, le puoi fracassare tutte quante, ma cos’hanno di strano, sono state ripulite proprio adesso. Sulla Rosenthaler Platz disfacevano il selciato, e in mezzo agli altri dovette passare su assi di legno. Ci si mischia con la gente, tutto passa, non ti accorgi di niente, figliolo. Nelle vetrine stavano manichini con abiti, cappotti, sottane, calze, scarpe.
A. Döblin, Berlin Alexanderplatz, Milano, dall’Oglio, 1946
Il montaggio consiste nella “selezione, scansione temporale e ordinamento di un certo numero di inquadrature nella continuità filmica” (Millar-Reisz), o, in termini più pratici, nel “prendere due differenti inquadrature, decidere per ognuna di esse un inizio e una fine, giuntarle insieme in modo tale che possano essere viste […] l’una dopo l’altra, in una stretta successione” (Cassani).
Difficile definire con certezza la precisa data di nascita del montaggio, al tempo stesso sia invenzione tecnica sia “idea”, specialmente nel variegato e confuso contesto del cinema delle origini. I primissimi film dei fratelli Lumière, di Thomas Edison e Georges Méliès, quando il cinema era ancora prolungamento della fotografia nella dimensione temporale, consistono nella ripresa continuata di un evento senza lo spostamento della cinepresa, finché non finisce la pellicola. Il pubblico era interessato non tanto a uno specifico contenuto, quanto alla possibilità di riprodurre il movimento, al carattere spettacolare e di attrazione del film: le primissime modalità di rappresentazione consistono nella “veduta” (la ripresa di un fatto dal vivo o comunque ricostruito in ambiente naturale – si ricordi di Lumière L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (Arrivée d’un train à La Ciotat, 1895), La colazione del bambino (Le repas de Bébé, 1895) – e nel “tableau” (la ripresa di un’azione su una scenografia dipinta). Poco alla volta si svilupparono i film di finzione basati sulla successione di vari tableaux, ciascuno però con la propria indipendenza e autonomia tanto che non sono rare, per esempio, brevi repliche dell’azione precedente – si veda l’allunaggio ne Il viaggio nella Luna (Le voyage dans la Lune, 1902) di Méliès – o ripetizioni della stessa azione girata prima in interni poi in esterni, come il salvataggio della donna e del bambino compiuta dai pompieri de La vita di un vigile del fuoco americano (The life of an american fireman, 1902) dell’americano Edwin Porter, uno dei primi cineoperatori di Edison.
Quest’ultimo girò anche L’assalto al treno postale (The Great Train Robbery, 1903), composto da una serie di 14 tableaux a cui fu poi aggiunto il famoso piano ravvicinato di un bandito che punta la pistola e spara verso lo spettatore, che gli esercenti potevano liberamente proiettare all’inizio o alla fine del film. Fu un altro statunitense, David Griffith – si veda il famosissimo Nascita di una Nazione (The Birth of a Nation, 1915) –, ad approfondire e perfezionare le conseguenze spazio-temporali e le potenzialità narrative del montaggio.
Egli comincia a montare i tableaux (che perdendo autonomia si avviano a diventare adesso inquadrature) con la continuità spaziale e temporale data dai raccordi (cioè serie di soluzioni che consentono transizioni invisibili tra un’inquadratura e l’altra, ad esempio stessa direzione del movimento e successione degli sguardi) che creano uno spazio-tempo “altro”, quello appunto del film. Il regista americano inoltre sperimenta il montaggio alternato e quello parallelo che rendono con efficacia l’effetto di simultaneità di due azioni correlate, come ad esempio negli inseguimenti, dove si alternano le immagini degli inseguitori con quelle degli inseguiti. Griffith spezza poi l’azione in vari frammenti differenziati secondo la diversa posizione della cinepresa: il regista, attraverso il montaggio di queste parti, può dare maggiore o minore importanza alle singole inquadrature determinando così la potenza drammatica della narrazione. Il cambiamento delle inquadrature avviene dunque, per ragioni stilistico-drammatiche. In Intolerance (1916), ad esempio, lo stato psicologico di un personaggio, The Dear One, è reso con la successione dei primi piani delle mani, contratte per l’ansia, e del volto in preda all’angoscia. I vantaggi prodotti da questo tipo di montaggio sono molteplici: maggior completezza e realismo nella rappresentazione della vicenda, più possibilità di influenzare le reazioni dello spettatore attraverso la scelta di un determinato particolare, facilità nel riprendere scene fino ad allora difficili da gestire quali incidenti spettacolari e battaglie (ancora in Intolerance, ad esempio, l’inquadratura di un persiano che scaglia una freccia, seguita da quella di un babilonese che, colpito, crolla a terra, visualizzano con chiarezza il massacro dei babilonesi altrimenti difficile da rendere in una sola inquadratura). La responsabilità di creare un certo effetto sullo spettatore passa insomma, con Griffith, dalla recitazione dell’attore al lavoro di organizzazione e scelta del regista.
Montaggio contruttivo e montaggio intellettuale
L’opera di Griffith stimola nell’Unione Sovietica degli anni Venti e Trenta una fertile discussione teorica sul montaggio e interessanti applicazioni pratiche. I registi sovietici, senza una significativa tradizione filmica nazionale alle spalle, cercano nuovi modi per diffondere gli ideali socialisti tra il popolo e contemporaneamente, per la prima volta, sviluppano elaborate teorie del cinema e delle tecniche di montaggio. Protagonisti sono da una parte Vsevolod Pudovkin e Lev Kulešov – le tesi dei quali sono essenzialmente riportate in La settima arte, a firma del primo –, dall’altra Sergej Ejzenstejn, che divulga le sue idee in vari scritti non sistematici.
Ne La settima arte, Pudovkin, formulando i principi generali del montaggio, spiega dal punto di vista teorico ciò che Griffith aveva messo in pratica nei suoi film, come risulta, ad esempio, dal seguente passo che descrive la messa in scena di un uomo che cade dalla finestra: “Come prima cosa, l’uomo viene ripreso mentre dalla finestra si getta in una rete, in modo che questa non appaia sullo schermo; poi lo stesso uomo viene ripreso mentre cade a terra da un’altezza limitata. Unite insieme, le due inquadrature in proiezione comunicano l’impressione desiderata. […] Della caduta vera e propria di una persona da grande altezza vengono scelti solo due punti, l’inizio e la fine”. Pudovkin giunge così alla formulazione personale di quello che egli chiama “il montaggio costruttivo”: non più, come aveva fatto Griffith, inquadrature in campo lungo intervallate da primi piani o dettagli, ma sequenze costituite solamente da dettagli significativi per l’idea che si vuole dare della vicenda. I dettagli, dunque, “non devono venir interpolati nella scena: è quest’ultima che deve essere costruita partendo da essi”: non sono i gesti degli attori che portano avanti la narrazione, ma l’effetto suscitato nello spettatore dalla contrapposizione di una serie di dettagli.
Ejzenstejn, nel suo saggio Dickens, Griffith e noi (1944), spiega come Griffith si fosse ispirato a Dickens per tradurre sul piano filmico tecniche proprie della letteratura (montaggio parallelo, primo piano, flashback) a scopo prettamente narrativo. Come Pudovkin, Ejzenstejn è interessato non solo a raccontare una storia, ma anche a interpretarla e a stimolare nello spettatore conclusioni concettuali. Tuttavia, mentre per il primo il montaggio di dettagli serve ad accentuare la situazione drammatica, per il secondo sono i significati e il valore che si danno alle scene montate a essere importanti: la storia diventa un’occasione per trarre conclusioni e osservazioni di carattere generale. Ejzenstejn teorizza così il “montaggio intellettuale”: “mentre il film convenzionale comanda alle emozioni, [il montaggio intellettuale] suggerisce che sia possibile anche dirigere l’intero processo del pensiero”.
Prendiamo ad esempio alcune scene tratte da Ottobre (Oktiabr, 1927). Il film narra le vicende che portarono, dopo la caduta dello zar, alla fine del governo provvisorio presieduto da Kerenskij e alla presa di potere dei bolscevichi guidati da Lenin. A un certo punto la serie di inquadrature di Kerenskij ripreso al rallentatore mentre, sempre con lo stesso passo, sale orgogliosamente lo scalone del Palazzo d’inverno, sono intercalate, con effetto comico, da didascalie che espongono i suoi incarichi: comandante in capo, ministro della Guerra e della Marina, e così via. “Il conflitto tra la vanità dei titoli – commenta Ejzenstejn – e il nostro eroe che sale trotterellando sempre le stesse scale consente di ottenere un certo effetto psicologico: la futilità di Kerenskij viene mostrata in forma satirica […]. L’incongruenza porta lo spettatore a una decisione del tutto intellettuale, a spese del personaggio stesso”. Seguono altri accostamenti di questo tipo, tra i quali l’associazione di Kerenskij a un pavone di bronzo, con la quale il regista vuole rendere la sete di potere personale e l’avidità che spinsero il generale a tradire la causa rivoluzionaria.
Il cinema americano degli anni Trenta e Quaranta (si veda, tra gli altri, John Ford e Frank Capra), continuando la tradizione inaugurata da Griffith, si basò sul cosiddetto montaggio invisibile, in cui la macchina da presa, attraverso il sistema dei raccordi, rivela il meno possibile la sua presenza nel tentativo di produrre “nello spettatore la sensazione di essere di fronte a un’azione che si sviluppa in continuità nel tempo, all’interno di uno spazio che presenta una fortissima illusione di tridimensionalità” (Cassani). Al contrario, nel cinema d’avanguardia europeo (tra i tanti, ad esempio, lo stesso Ejzenstejn, Abel Gance, Jean Epstein, Fernand Léger, Hans Richter e Hans Eggeling), caratterizzato dall’“indifferenza delle più comuni regole della comunità e della verosimiglianza” (Cassani), il montaggio stesso impone il suo ritmo con inquadrature e tagli discontinui che sottolineano il carattere artificiale del prodotto filmico e la presenza attiva della cinepresa (e dunque di un punto di vista non neutro, ma ben preciso ed evidente) nella narrazione.
Tecniche di montaggio in letteratura
Il montaggio cinematografico, connaturato al mezzo filmico stesso (la pellicola non è infinita), ha avuto nel secolo scorso un’importanza particolare come modello specifico per le altri arti sia per la vastissima diffusione del cinema, sia per l’influenza delle varie teorie elaborate dai grandi registi. Ci si può dunque riferire al montaggio “come a un principio compositivo molto generale che, in quanto tale, risulta applicabile a diversi materiali espressivi” (Montani), in un uso metaforico del termine che si applica, anche retrospettivamente, pressoché a tutti gli altri campi del sapere (basti pensare agli scritti di Ejzenstejn). Così la letteratura che, in quanto immersa e vivente nei cambiamenti epistemologici e artistici dell’epoca storica, ha sviluppato naturalmente le sue poetiche e metamorfosi strutturali, si è trovata comunque sempre di fianco la realtà cinematica con la quale ha intrattenuto rapporti di interazione plurivoci e spesso non definibili con esattezza, cosicché in vari autori e movimenti artistici del Novecento sono riscontrabili tecniche di montaggio analoghe e talvolta ispirate da quelle cinematografiche. Premessa la differenza strutturale tra cinema e letteratura, il primo composto di parole, la seconda di immagini, se per un verso va rilevato come la letteratura abbia oscillato tra il desiderio di emulare e quello di distinguersi dal nuovo mezzo, cercando di ribadire le sue peculiarità intrinseche, per un altro è infatti opportuno sottolineare quanto specifiche costruzioni e “ritmi” di montaggio siano stati determinati, una volta tradotti e/o rielaborati nel contesto della pagina scritta, per la produzione teorica e pratica di certi movimenti e autori novecenteschi; va aggiunto inoltre come sempre più spesso le metafore di natura cinematografica siano state utilizzate per definire e spiegare meglio particolari procedimenti letterari presenti in vari scrittori, non solo del secolo scorso, spesso anzi indicandoli come “anticipatori” o “precursori” di tecniche specificatamente cinematografiche (come per esempio Alessandro Manzoni, Honoré de Balzac, Charles Dickens, Giovanni Pascoli). Utilizzando categorie cinematografiche, con l’intento di evidenziare un’analogia tra costruzione cinematica e letteraria, in certi casi più o meno caratterizzata da rapporti genetici, di sicuro nata e sviluppatasi nello stesso contesto di frammentazione, velocizzazione e tecnicizzazione del Novecento, in linea generale da una parte si potrebbe dire che il grande romanzo realista del XIX secolo, che con i debiti cambiamenti non si è comunque esaurito nel Novecento, utilizzò un “montaggio invisibile” per la creazione di un mondo letterario autosufficiente regolato da logiche causali e temporali razionali, cioè finalizzate a una narratività quanto più scorrevole; dall’altra risulta evidente che buona parte della produzione letteraria novecentesca si è giovata di un “montaggio visibile”, in cui è ben percepibile lo stacco, sia a livello formale che di contenuto, nella giustapposizione di determinate parole, frasi, sequenze, immagini, stili, toni, registri, idioletti, punti di vista, effetti sonori, generi letterari, persino materiali tipografici. Il montaggio di questo tipo presenta dunque elementi (intesi nel senso più ampio) che, accostati in modo da produrre una relazione particolare che ne faccia risaltare l’eterogeneità, introducono nel racconto di una storia (o anche di un’esperienza lirica, nel caso della poesia) corrispondenze e significati ulteriori (intellettuali, metaforici, metonimici ecc.) debordanti dal principio costitutivo prettamente narrativo; in maniera evidentemente più incisiva, inoltre, in quei casi caretterizzati dal collage e dal frammento essi minano e problemizzano la narratività stessa, assemblando rapporti più o meno arbitrari (rispondenti comunque ad altre logiche) che distorcono il ritmo e la scansione, spesso con effetto straniante e di shock sul lettore, tanto che la forma (il mezzo stesso di rappresentazione) arriva ad avere addirittura più importanza del contenuto stesso (l’oggetto della rappresentazione).
I futuristi italiani nel manifesto La cinematografia futurista (1916) riconoscono il cinematografo come “mezzo di espressione più adatto alla plurisensibilità di un artista futurista”. Nel precedente manifesto Il teatro futurista sintetico (1915) è detto che, nella vita reale, la velocità e la frenesia del mondo esterno sono percepiti dall’uomo solo in maniera frammentaria e discontinua: “È stupido rappresentare sulla scena una contesa tra due persone sempre con ordine, con logica e con chiarezza, mentre nella nostra esperienza di vita troviamo quasi solo dei pezzi di disputa, a cui la nostra attività di uomini moderni ci ha fatto assistere per un momento in tram, in un caffè, in una stazione, e che sono rimasti cinematografati nel nostro spirito come dinamiche sinfonie frammentarie di gesti, parole, rumori e luci. La realtà (sostanzialmente la moderna metropoli) invia cioè una serie di immagini che il cervello trasforma, secondo una sorta di montaggio, in un “film interno”.
Distruzione della sintassi, parole in libertà, immaginazione senza fili (quest’ultima intesa come“libertà assoluta delle immagini o analogie, espresse con parole slegate e senza fili conduttori sintattici e senza alcuna punteggiatura”) sono i capisaldi della poetica futurista che produce testi frammentati composti dall’assemblaggio di parole, periodi e slogan con il minimo di connessioni sintattiche e grammaticali, e perfino di materiale verbale e tipografico, tanto da anticipare alcune costruzioni visive della pubblicità – vedi la poesia di Marinetti Sì, sì, così l’aurora sul mare e le composizioni dei futuristi russi, tra i quali ricordiamo Viktor Majakovskij e Velimir Chlebnikov.
Un altro gruppo artistico, quello dei dadaisti, negando in blocco l’arte tradizionale, pone al centro della sua poetica il gioco, la scomposizione del linguaggio e la combinazione casuale di parole. Tristan Tzara, esponente di spicco del gruppo, spiega, in un suo articolo, come comporre una poesia dadaista tramite il montaggio casuale di frammenti di parole ritagliate da un giornale: “Prendete un giornale […] Ritagliate poi accuratamente ognuna delle parole che compongono l’articolo e mettetele in un sacco […]. Tirate poi fuori un ritaglio dopo l’altro disponendoli nell’ordine in cui sono usciti dal sacco […]. Ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità”.
Non importa dunque il contenuto della poesia, ma l’atto dissacratorio e desublimante del montaggio stesso attraverso il quale viene assemblata la poesia. I surrealisti condividono con futuristi e dadaisti la tensione distruttiva verso le forme e le verità tradizionali che impediscono all’uomo di raggiungere la felicità. Essi ritengono che valorizzando nella produzione artistica la sfera dell’inconscio (la dimensione onirica, le pulsioni, le allucinazioni) oppressa dalla civiltà, l’uomo possa raggiungere la liberazione personale e sociale. André Breton, fondatore del movimento, definisce il surrealismo un “automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone […] di esprimere […] il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero, con assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale” (Primo manifesto del surrealismo - Premier manifest du surréalism, 1924).
Un tipo di scrittura come questa tende così a liberare l’inconscio tramite una parola che non ha niente di razionale o interpretabile. Mentre la poesia dadaista è montata secondo il caso, quella surrealista (almeno nella primissima fase del movimento) lo è secondo l’inconscio. Il montaggio di immagini incongruenti l’una con l’altra, contraddittorie, illogiche e assurde perde ogni valore comunicativo per assumerne uno evocativo. Il pittore e scultore surrealista Max Ernst spiega che la frase del poeta Comte de Lautréamont, “bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, è data dall’“accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano che in apparenza non è conveniente per esse”, cioè dal montaggio di due immagini incongruenti in un contesto altrettanto incongruente. Il montaggio non è fine a se stesso, ma funzionale alla creazione di una nuova bellezza: la visione evocata stimola una sensazione inedita che sorprende per la sua assurdità e per questo dotata di una particolare valore estetico.
Mentre la raccolta di racconti brevi Le Libertinage (1924) di Louis Aragon è composta da storie frammentate organizzate secondo il principio del collage, nel romanzo Nadja (1928) di Breton la scrittura è affiancata da una serie di fotografie di luoghi e oggetti che creano inconsuete associazioni. Alcuni dei più importanti narratori novecenteschi accentuano le tecniche di montaggio, in parte già presenti nel romanzo classico ottocentesco, nel trattamento del tempo, del punto di vista e della disposizione discontinua nel testo di elementi diegetici. Così, analogamente a quanto avviene con il montaggio parallelo, la rappresentazione nel testo letterario di più eventi simultanei assume un alto valore drammatico e narrativo nel romanzo di Jules Romains Morte di qualcuno (Mort de quelq’un, 1911), in cui lo scrittore narra come la morte di un tale, Jacques Godard, sia servita ad avvicinare persone tra loro normalmente distanti ma accomunate dall’affetto per il defunto. Il progressivo e simultaneo avvicinamento dei personaggi alla salma prima del funerale è ad esempio rappresentato con la successione, senza ulteriori notazioni sul cambio di scena, delle varie sequenze narrative di vicende e gesti che nella realtà devono essere appunto pensate come sincroniche.
Il montaggio permette poi di rendere la percezione di un evento da più punti di vista, sincronicamente e anche diacronicamente. Accade così che la prospettiva del narratore sia giustapposta a quella di uno o più personaggi. In Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps perdu, pubblicato fra il 1913 e il 1927) di Marcel Proust, dove gli oggetti e i personaggi rispondono a questo tipo di montaggio, può capitare che dallo stesso punto di vista, a distanza di tempo, emergano due o più realtà diverse, mentre Virginia Woolf in Al faro (To the Lighthouse, 1927) analizza gli eventi da diverse prospettive nel tempo e nello spazio. I Cantos (1917-1972) di Ezra Pound, progettato come “poema ideografico”, è una grande enciclopedia della cultura in cui lo scrittore inserisce numerosi ideogrammi cinesi e una tecnica della citazione sempre più ellittica e ardua in un accumulo di materiali eterogenei quali immagini astratte e dati materiali, lingue, stili, toni e registri diversi. Un altro americano, Thomas Stearns Eliot, struttura La terra desolata (The Waste Land, 1922) come una partitura a più voci in cui trovano spazio la molteplicità delle lingue, degli stili e delle citazioni dai più svariati testi, dall’antichità alla contemporaneità. La forte interazione tra la scrittura letteraria e il modello filmico del montaggio caratterizza la grande stagione del romanzo statunitense tra le due guerre, in cui spicca la figura di John Dos Passos con Il quarantaduesimo parallelo (The 42nd parallel, 1930), caratterizzato dal montaggio di cronaca, gergo giornalistico, slogan, parlate locali, e Manhattan Transfer (1925), che riprende e rende popolare il montaggio dei punti di vista già presente nei romanzi di William Faulkner.
Nell’Ulisse (Ulysses, 1922) di James Joyce, il montaggio è presente a vari livelli, dalla singola frase alla struttura dell’opera stessa. I pensieri, le emozioni e le impressioni dei personaggi sono resi immediatamente, in forma linguistica, come emergono nella mente dei personaggi senza apparenti intromissioni da parte del narratore che, in realtà, li sceglie e li monta presentandoli al lettore in una determinata forma e in uno specifico ordine – il monologo finale di Molly è stato spesso accostato al monologo che costituisce il romanzo La morte di Virgilio (Der Tod des Vergil, 1945) di Hermann Broch. Nel corso della narrazione essi sono giustapposti ai dialoghi e a più referenti prospettici (quali il narratore o i pensieri di altri personaggi), come indichiamo tra parentesi, ad esempio, nella frase seguente: “Ero con Bob Doran, è in un momento pazzo e, come si chiama, Bantam Lyons [parole dette a voce alta da uno dei protagonisti, Bloom]. Proprio giù da Conway eravamo. Doran, Lyons da Conway [coscienza di Bloom]. Ella portò ai capelli una mano guantata [narratore]”.
A un livello ancora più generale, Ejzenstejn sottolinea che ciascun capitolo corrisponde, tra i numerosi riferimenti, a una parte del corpo, a un colore, e in particolare a un’arte, materializzando “nella sua struttura le leggi della forma d’arte a cui è dedicato”; tutti i capitoli, “raccogliendosi in un tutto, compongono anch’essi un insieme [...]. Anche l’insieme degli stessi generi e forme letterarie indicato complessivamente come ‘letteratura’ è ripartito nei vari capitoli. Uno è scritto in forma di catechismo: domande e risposte. Un altro è modellato sui trafiletti dei giornali con i titoli a sensazione (è il capitolo in cui l’azione si svolge in una redazione di giornale). Un terzo è composto in forma drammatica. C’è poi il capitolo già ricordato nel ‘divenire’ della lingua. Il famoso ultimo capitolo in forma di scrittura automatica privo di punteggiatura e di divisioni fra le frasi ecc. È una sorta di piccola enciclopedia di tutte le forme e i generi della scrittura letteraria, che nell’insieme dei capitoli vanno a formare l’immagine della ‘letteratura’ [...]. Ogni espressione, ogni parola in Joyce lavora come un’intera colonna di piani, significati, strati di associazioni”, secondo modelli sovratonali e contrappuntistici di “poliritmia, simultaneità, molteplicità”.
Alfred Döblin , nel 1913, scriveva che “la rappresentazione richiede uno stile cinematografico”; solo così, a detta dello scrittore tedesco, sarebbe stato possibile rappresentare efficacemente il succedersi caotico e simultaneo degli eventi della città moderna. Nello stesso anno la raccolta L’assassinio di un ranuncolo e altri racconti (Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, 1913), caratterizzato dal montaggio di brevi segmenti narrativi che sfumano bruscamente l’uno nell’altro, fu commentato da un critico con le parole “il film verbale scorre”. Gli intenti di Döblin trovano la massima realizzazione 16 anni dopo, nel romanzo Berlin Alexanderplatz (1929), dove il vorticoso e caotico brulichio della metropoli e dei suoi abitanti è reso attraverso una tecnica narrativa e di montaggio molto complessa che include, ad esempio, anche l’assemblaggio di citazioni di testi di varia natura e genere, una vasta serie di dati statistici, frammenti di articoli di giornale, persino immagini pubblicitarie del tempo. Precursore di Döblin e di altri fu il poeta Rainer Maria Rilke, che assembla il suo I quaderni di Malte Laurids Brigge (Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, 1910), in cui manca una trama o un intreccio di tipo tradizionali, in sequenze non rispondenti a un principio logico spazio-temporale ma appunto secondo libere associazioni; in ambito tedesco ricordiamo poi il famoso dramma di Ernst Toller Oplà, noi viviamo! (Hoppla, wir leben!, 1927), che nel tentativo di dare un’efficace rappresentazione della vita nella società industriale utilizza il montaggio, le proiezioni simultanee e le scene a incastro.
Più tardi Thomas Mann, in una celebre lettera a Theodor Adorno, rilevò come il “metodo del montaggio” attraversi, “in modo abbastanza singolare e forse urtante, [...] e per di più esplicitamente, senza affatto dissimularsi”, tutto il suo Doctor Faustus (1947). L’anno nudo (Golyj god, 1922) di Boris Pil’njak (pseudonimo di Boris Andreevic Vogau), che narra dell’amore dell’aristocratica Natalja per il rivoluzionario Archipov, inaugura in Russia un nuovo tipo di romanzo, caratterizzato da un montaggio brusco delle parti narrative con i più disparati materiali, quali cronache, lettere, articoli di giornali, estratti di regolamenti e documenti vari, nel tentativo dell’autore di rendere nella pagina scritta la forza primordiale, esplosiva e liberatrice della rivoluzione. Lo stile cinematografico e il testo narrativo come insieme di frammenti saranno poi sviluppati dall’autore nei romanzi seguenti, tra cui Le macchine e i lupi (Masiny i volki, 1924) e Mogano (Krasnoe derivo, 1929).
Isaac Babel dopo aver partecipato nel 1920 alle campagne contro i polacchi e le armate dei bianchi, scrive L’armata a cavallo (Konarmija, 1926), sorta di montaggio di narrazione e materiale diaristico-memoriale che si intrecciano in un veloce ritmo narrativo percorso da una commistione di toni e registri. Sempre del 1926 è il poema epico L’anno 1905 (Devjat’sot pjatyj god) di Boris Pasternak, che per il montaggio parallelo di eventi storici e vicende quotidiane presenta somiglianze con il film Sciopero di Ejzenstejn, uscito due anni prima, nel 1924. Gli immaginaristi russi, per i quali l’“immagine divora il contenuto” e la poesia stessa è “un’onda di immagini”, assemblarono i loro “cataloghi di immagini” attraverso il montaggio, come succede ad esempio nell’opera poetica di Vadim Sersenevic, per il quale la parola poetica è “immagine” fine a se stessa, “anche se talvolta non del tutto priva di una ragione interiore” (Lo Gatto), come si può vedere nelle raccolte I merciai della felicità (Korobejniki scast’ja, 1920) e Le cooperative dell’allegria (Kooperativy vesel’ja, 1922). I principi ispiratori degli immaginisti russi trovarono una piena realizzazione nel romanzo di Anatolij Marienhof (1897-1962) I Cinici (Ciniki), uscito nel 1928 e subito tradotto in tedesco e in inglese. Il montaggio basato sul conflitto e sulla collisione, presente sia nella contrapposizione tra la cronaca degli anni rivoluzionari e le vicende private di una famiglia di intellettuali russi, sia nelle metafore che contrappongono il “puro” all’“impuro”, produce, in maniera simile a quanto realizzato nei primi film di Ejzenstejn, un effetto di shock e di tensione sul lettore, sollecitato così a una presenza e a una presa di posizione attiva di fronte agli avvenimenti narrati. Nella seconda metà del Novecento le dinamiche di scambio tra letteratura e cinema si sono sempre più infittite. Accenniamo brevemente a alcuni autori. Lo scrittore portoghese Benìgno José de Almeida Faria divide il suo romanzo La passione (A Paixão, 1965), racconto di un venerdì santo nella campagna dell’Alentejo, in 50 canti che possono essere considerati, in una prospettiva cinematografica, come 50 inquadrature diverse, dove ogni sequenza è vista o ascoltata attraverso lo sguardo di personaggi diversi (Le Gentil - Bréchon). Nel contesto francese del Nouveau roman Alain Robbe-Grillet, attivo sia come sceneggiatore e regista sia come scrittore, ha accompagnato alle elaborazioni teoriche sul montaggio interessanti realizzazioni pratiche come, tra gli altri, i romanzi Le gomme (Les Gommes, 1953); Il voyeur (Le Voyeur, 1955); La gelosia (La Jalousie, 1957) e Nel labirinto (Dans le labyrinthe, 1959). In Italia, infine, Edoardo Sanguineti, esponente della neoavanguardia, costruisce i suoi complessi testi (tra i tanti vedi Laborintus, 1956; Erotopaegnia, 1960; Purgatorio de l’Inferno, 1964) utilizzando un montaggio dei materiali più disparati, quali, ad esempio, la citazione colta e i deliri verbali e onirici.