Il mondo vivente: le piante, gli animali e gli uomini
Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In questo capitolo sono trattate le dottrine dei Greci e dei Romani sulla natura vivente, sulle piante, gli animali e sugli uomini, nonché sulla generazione. Lo studio del mondo animale in Aristotele risponde a finalità in primo luogo conoscitive. L’interesse di Teofrasto per il mondo vegetale unisce motivi teorici e tassonomici alla ricerca delle utilizzazioni pratiche delle piante. L’interesse per gli usi pratici è particolarmente evidente negli autori romani, soprattutto in Plinio.
Nel pensiero greco non si dà una netta demarcazione tra mondo della vita e mondo inorganico: dai presocratici a Platone (Timeo), il cosmo è concepito come un tutto dotato di vita. Aristotele è tra i primi a distinguere i fenomeni biologici dal non vivente. Tutti i viventi, egli afferma, hanno quale principale funzione quella di riprodursi. Ciò che contraddistingue poi ogni organismo vivente è la presenza dell’anima, che si identifica con la forma, ovvero con la struttura funzionale del corpo. Per poter operare, l’anima ha bisogno di uno strumento: la natura ha quindi dotato i viventi di calore, che rende possibili i processi di accrescimento, nutrizione, riproduzione. Sulla base della nozione di anima secondo Aristotele vi è una linea di continuità tra i vari ambiti del vivente: le piante sono dotate dell’anima nutritiva, gli animali anche di quella sensitiva, mentre agli uomini è aggiunta l’anima intellettiva. Ciò consentiva una transizione senza salti dalle piante agli animali fino agli uomini, nonché l’uso di analogie.
Nel IV secolo a.C. le scienze della vita erano certamente le più avanzate dopo le matematiche, grazie soprattutto alle scuole di medicina. Queste ultime si concentravano sul corpo umano, mentre le ricerche di zoologia e botanica erano sviluppate a scopi pratici: agricoltura, pesca, allevamento, caccia, farmacia. In ambito medico-fisiologico era stata affermata la dottrina che attribuiva al calore l’origine della vita organica, localizzata nel cuore e nel cervello dalla scuola medica siciliana (e da Empedocle), ma nel cervello da Alcmeone, Anassagora e dai testi ippocratici. Sempre in ambito fisiologico, si sviluppa – a partire da Diogene di Apollonia – il concetto di pneuma, o soffio vitale, che, inspirato nel corpo, ne fornisce un principio vitale. Come vedremo, Aristotele fece uso critico delle indagini fisiologiche dei medici e in molti casi definì le proprie idee (in particolare sul pneuma e sulla generazione) in opposizione a questi.
Le ricerche aristoteliche sugli animali e sulla generazione costituiscono la componente più originale, nonché quella che ebbe maggior influenza nello sviluppo delle scienze, di tutta la sua produzione scientifica. Aristotele e la sua scuola fecero un ampio uso del metodo empirico, nel tentativo di fornire prove a sostegno delle teorie intorno all’uomo e alla natura vivente. Aristotele esegue direttamente le dissezioni di animali, tema cui era dedicata un’opera andata perduta; commissiona dissezioni ai suoi collaboratori del Liceo e raccoglie da pastori, pescatori, allevatori, cacciatori, agricoltori e macellai un’ingente mole di informazioni, relative agli habitat, alla crescita, accoppiamento e comportamento degli animali. Le indagini biologiche aristoteliche si svolgono all’interno di un quadro teorico ben definito e seguono metodologie e nessi argomentativi precisi.
I concetti che organizzano le indagini dello Stagirita sono quelli che poi rimarranno a lungo centrali nelle scienze della vita: struttura/funzione; processo/fine; individuo/specie; corporeità/psichicità.
I fenomeni della vita, secondo lo Stagirita, possono dividersi in tre grandi gruppi: riproduzione e crescita; sensazione; movimento. Di questi, il primo è il più importante, quello che, secondo Aristotele può sussistere da solo (come nelle piante), mentre gli altri non possono sussistere senza quello. Lo studio della riproduzione è quello che sembra averlo interessato maggiormente, essendo egli convinto che ogni specie vivente sia finalizzata alla propria riproduzione. Quest’ultima può aver luogo in tre diversi modi: spontaneamente, da un solo genitore, da due genitori. Per generazione spontanea si riproducono alcune piante, alcuni pesci, molti insetti e i gasteropodi. La generazione spontanea (una teoria che sopravviverà fino al XIX secolo) è prodotta – secondo lo Stagirita – dalla materia putrescente. Le differenze tra gli animali nati per generazione spontanea derivano dalla materia che subisce la putrefazione, alcuni insetti nascono dal letame, altri dalla rugiada, le ostriche dal limo, il paguro dalla terra e dal limo. La riproduzione da genitore unico avviene, a suo parere, nelle piante o in quegli animali che, come le piante, non mutano dimora.
Quanto alla generazione sessuata, Aristotele affronta due ordini di problemi: 1. se il suo contributo proviene da tutto il corpo, oppure solo da una sua parte; 2. il contributo di ciascun genitore. Aristotele rifiuta la dottrina contenuta nel trattato pseudo-ippocratico De genitura secondo la quale il seme deriva dall’intero organismo (pangenesi). L’argomento principale a favore della tesi della pangenesi è la rassomiglianza dei figli con i genitori, in ciascuna loro parte, anche – come era universalmente accettato – rispetto a mutilazioni o caratteristiche acquisite. Aristotele confuta questo argomento sostenendo che la progenie mostra somiglianze con i genitori che non possono essere attribuite ad alcunché di materiale, come la voce, l’andatura, i capelli. Inoltre, egli asserisce che talvolta i figli assomigliano non ai genitori, ma ad antenati remoti. Nel trattato pseudo-ippocratico De genitura era affermata la teoria della doppia provenienza del seme, dal padre e dalla madre, che Aristotele rifiuta. Lo sperma secondo Aristotele è il residuo di un processo di trasformazione degli alimenti, che ha luogo nell’organismo. Esso non proviene da tutte le parti del corpo, ma si produce per una successiva cozione del sangue e si compone di pneuma caldo e di acqua. Lo sperma, secondo Aristotele, contiene in potenza la psyché, o anima, in quanto principio organizzativo del corpo. In realtà, il seme maschile trasmette la psyché, senza contribuire materialmente alla generazione, ovvero non come causa materiale. Il principio organizzativo, contenuto in potenza nel seme, è veicolato dal pneuma. Il seme maschile ha il ruolo di fornire il movimento e la forma o principio organizzativo, mentre quello femminile, che Aristotele identifica con il sangue mestruale, la materia. Gli assunti teorici di Aristotele circa il corpo maschile e quello femminile hanno una forte impronta sessista: l’idea dell’inferiorità del sesso femminile si esprime in un’articolata dottrina biologica: la femmina, caratterizzata dall’incapacità di “cuocere” il proprio sangue (il seme maschile è sangue cotto, mentre il mestruo è sangue crudo), è definita una deformità naturale.
Quanto allo sviluppo del nascituro, Aristotele sostiene una teoria di tipo epigenetico: né il seme maschile, né quello femminile contengono i futuri tessuti e organi in uno stato preformato. Le parti sono in potenza nella materia e si sviluppano, per azione del seme maschile, in successione: i polmoni si sviluppano dopo il cuore, che precede le altre parti. Nel cuore ha sede il calore vitale, qui si forma il sangue che si diffonde in tutte le parti portandovi il nutrimento necessario a farle crescere. Il cuore è anche sede del pneuma, che con le sue contrazioni e dilatazioni è causa della respirazione e di tutti i movimenti degli animali. Il pneuma è presente nell’organismo dalla nascita, e la funzione della respirazione è quella di raffreddare l’organismo, costantemente impegnato in processi di cozione.
I fenomeni del mondo vivente, specialmente quelli relativi alla riproduzione, esprimono più di altri fenomeni naturali la teleologia immanente alla natura: “Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque – scrive Aristotele nelle Parti degli animali – ma questa determinata creatura da questo seme particolare, né un certo seme deriva a caso da un corpo qualsiasi.” La natura, continua lo Stagirita, non fornisce mai un organo se l’animale non è in grado di servirsene. A ogni organo è associata una funzione e a ogni funzione è preposto un certo organo. Nelle piante la finalità della natura è meno articolata, lo è maggiormente negli animali e poi ancor di più negli uomini. Imperfezioni sono sì presenti in natura, ma queste – secondo lo Stagirita – derivano dalla variabilità della materia.
Laddove in Aristotele il mondo vivente compendia la finalità immanente alla natura, nel De rerum natura di Lucrezio si afferma l’origine spontanea di tutte le creature, uomo compreso. In una lontana età dell’oro la Terra era dotata di una prodigiosa attività creativa da cui sono nate molteplici forme di vita. Molte di esse (come già aveva sostenuto Empedocle) erano però imperfette e non riuscirono a sopravvivere, né a propagarsi e così si estinsero: “Molte cose vediamo infatti che devono concorrere negli esseri / perché possano generare e propagare le stirpi; / bisogna anzitutto che abbiano di che nutrirsi, poi passaggi per cui / i semi genitali possano scorrere attraverso i corpi ed emanare / dalle membra rilassate; e, affinché la femmina possa congiungersi col maschio / devono avere ambedue ciò che occorre per scambiarsi vicendevoli piaceri. / E molte stirpi di esseri viventi dovettero allora soccombere / e non poterono generare e propagare la prole”. (De rerum natura, V, 850-856).
L’interesse per le piante è inizialmente legato ai loro usi alimentari e farmacologici, successivamente è anche rivolto alla loro classificazione, morfologia e fisiologia. Conoscenze empiriche sulle piante e i loro impieghi gastronomici, cosmetici e medicinali si diffondono tra agricoltori, raccoglitori di radici (rhizotomoi), venditori di farmaci (pharmacopolai), medici.
Le conoscenze empiriche sono spesso intrecciate a credenze intorno a usi magico-religiosi delle piante, di cui vi è ancora traccia nei trattati di Teofrasto. Dotate di carattere simbolico, le piante sono parte della mitologia, sono sacre agli dèi, come per esempio l’alloro, il mirto, l’olivo, il mandorlo, il melograno. L’interpretazione in chiave simbolica delle piante o di loro parti svolge una funzione non marginale nella farmacopea greca e romana: si ritiene che un vegetale possa curare la parte del corpo cui assomiglia: secondo Teofrasto, l’erba skorpios (Genista acanthoclada) è un efficace rimedio contro la puntura dello scorpione; Plinio afferma che l’echion (erba viperina), dalla corolla serpentiforme, è usata come antidoto contro i morsi delle vipere. La medicina greca elabora una ricca farmacopea che include piante comuni ed esotiche ed è diffusa l’idea che alcuni luoghi generino piante dai poteri straordinari. Omero ritiene che in Egitto nascano erbe medicinali con capacità terapeutiche fuori del comune; Eschilo, cui fa eco Teofrasto, sostiene che lungo le coste del Tirreno si producevano farmaci rinomati.
Nella filosofia presocratica, Empedocle di Agrigento è l’unico di cui ci restino frammenti e testimonianze sulle piante. Nella cosmogonia empedoclea esse figurano come i più antichi abitanti del cosmo, che precedettero anche la formazione del Sole. Per Empedocle, le piante crescono per l’azione del calore contenuto nella terra; sono decidue perché in estate l’umidità evapora e lasciano cadere le foglie, mentre altre, essendo dotate di una composizione equilibrata, trattengono l’umidità e non le perdono. Nelle piante è presente tanto il sesso maschile che quello femminile.
Aristotele fa spesso riferimento a una sua opera sulle piante che non ci è pervenuta. Le sue riflessioni sul mondo vegetale sono tuttavia deducibili (almeno in parte) da quel che scrive sull’argomento in altre opere. Si tratta di uno studio della fisiologia delle piante piuttosto che della loro morfologia. Secondo Aristotele, al pari di tutti gli esseri viventi, le piante sono dotate di un’anima o principio e forma del corpo: si tratta della più semplice delle anime, quella nutritiva. Lo Stagirita sviluppa un’analogia tra piante e uomini: le radici corrispondono alla bocca e da esse entra il nutrimento. Le piante attraggono dalla terra il loro nutrimento, già depurato degli scarti e pronto a divenire materia di crescita. Le piante hanno un minor numero di funzioni rispetto agli animali: non respirano, non si muovono, non hanno percezione e sono quindi maggiormente esposte a fattori ambientali. Aristotele nega inoltre che abbiano una riproduzione sessuata: ritiene che in esse non vi sia una differenziazione sessuale, ma sembrano distinguersi tra loro in quanto alcune recano frutti, mentre altre contribuiscono alla maturazione.
I principali studi di botanica a noi pervenuti dalla Grecia sono quelli di Teofrasto di Ereso (Historia plantarum e De causis plantarum). Egli, come del resto Aristotele, fa uso delle conoscenze pratiche di agricoltori, rhizotomoi, pharmacopolai, ma mostra un certo scetticismo sulla loro attendibilità; preferisce invece le informazioni che provengono dai medici. Teofrasto, che non adotta la concezione finalistica della natura di Aristotele, intraprende un’opera di carattere classificatorio. Utilizzando l’albero come modello per classificare tutte le piante, le divide in quattro gruppi principali: alberi, arbusti, sottoarbusti, erbe, ma è consapevole che si tratta di distinzioni non rigide. Per esempio, anche sulla divisione in piante sempreverdi e decidue è cauto, ritiene che spesso questa proprietà possa variare con il clima. Classifica poi le foglie in intere, divise, carnose, spinose ecc.
Accanto a scopi tassonomici, Teofrasto dà notevole importanza agli usi delle piante, per esempio, gli impieghi di vari tipi di legno per differenti scopi pratici e gli usi alimentari dei frutti. Si mostra inoltre interessato allo studio della coltivazione delle piante e ai modi di riproduzione “artificiale”, quali propaggine, innesto e talea. La coltivazione esprime al meglio la natura delle piante coltivabili. Il fico selvatico possiede, a suo avviso, caratteristiche completamente distinte da quello coltivato. Alcune piante hanno una natura che ne impedisce la coltivazione, altre una natura che è potenziata dalla coltivazione. Una parte considerevole dell’opera teofrastea è dedicata alla pratica dell’agricoltura, con l’idea che tra processi naturali e artificiali (indotti dall’uomo) non vi siano differenze sostanziali.
La Naturalis historia di Plinio dedica ampio spazio alle piante, utilizzando fonti greche (Teofrasto), conoscenze acquisite durante le campagne militari, nonché da medici, come Antonius Castor, medico del I sec. d.C., che aveva creato un famoso orto botanico a Roma – che Plinio certamente conosceva. Plinio è piuttosto interessato agli usi delle piante, in particolare in medicina e in agricoltura – argomento quest’ultimo su cui vi era uno spiccato interesse a Roma. Le piante sono descritte in relazione alle aree geografiche di provenienza, a cominciare dall’India, per passare alla Persia, all’Arabia con i suoi profumi, l’Etiopia con le spezie, per finire con le piante dell’Asia Minore e del Mediterraneo. Particolare interesse è riservato alla vite e alla vinificazione, agli alberi da frutto e all’olivo, agli ortaggi. La trattazione degli aspetti tecnici dell’agricoltura (vi è anche un calendario dei lavori agricoli) è legata all’esaltazione della vita dei campi come modello di vita virtuosa.
I Greci e i Romani guardano al mondo animale con l’idea che esso possa esprimere valori morali, credenze religiose e concezioni cosmologiche. Gli animali hanno funzioni specifiche nelle pratiche religiose, il serpente è considerato un intermediario tra il mondo terrestre e il mondo sotterraneo, come il serpente-drago Pitone, figlio di Gea, ucciso da Apollo.
Gli Etruschi e poi i Romani traggono auspicio dal volo degli uccelli: dalle loro traiettorie presagiscono gli avvenimenti futuri e stabiliscono l’orientamento delle mura delle nuove città. La letteratura greca guarda al mondo animale come a un sistema di segni: i comportamenti degli animali riflettono passioni e tipologie psicologiche umane. Così nelle favole di Esopo e nelle commedie di Aristofane gli animali sono simboli di vizi e virtù e possono trasmettere agli uomini insegnamenti di carattere morale. Si riteneva che il comportamento delle specie animali fosse costante, che il leone fosse sempre coraggioso, la volpe astuta, il cervo timido. Le differenze tra animali reali e immaginari sono spesso sfumate: il mondo animale è popolato da creature fantastiche, dalla Teogonia di Esiodo alla Naturalis historia di Plinio, per culminare con il cosiddetto Physiologus (III sec. d.C. ca.), vi è notizia di cani con 50 teste, di sfingi, di chimere, di idre, del leone-formica, dell’idrope. Creature straordinarie sono collocate perlopiù in aree remote della Terra, così come in fondo ai mari, associando la distanza alla diversità, all’eccezionalità. Gli scrittori greci del VI secolo a.C. descrivono i paesi dell’Oriente (in particolare Arabia e India) come terre in cui la natura ha caratteristiche fuori dal comune; l’Africa – Plinio ama ripetere – genera sempre qualcosa di nuovo. L’autore del trattato medico Le arie, le acque, i luoghi (che fa parte del Corpus Hippocraticum) è convinto che in Asia la natura sia più generosa e produca creature più belle e grandi che altrove.
Accanto all’interpretazione in chiave simbolica e morale, si sviluppa tra i Greci un approccio al mondo animale di tipo osservativo e razionale, che culmina con Aristotele e gli scienziati alessandrini. Le opere sugli animali dello Stagirita sono fondate su un’attenta osservazione anatomica delle parti e pongono le basi per le successive ricerche di carattere tassonomico.
Poco sappiamo delle ricerche sul mondo animale dei filosofi presocratici: secondo quel che ricaviamo da Aristotele, Democrito scrisse sugli animali, ma nulla ci resta delle sue indagini sull’argomento. Nella letteratura medica (nel Corpus Hippocraticum), l’osservazione e la classificazione degli animali è riferita ai loro usi alimentari, come nel trattato Sulla dieta, oppure per inferirne indicazioni pratiche per la medicina, come nel trattato intitolato Male sacro. Platone tratta in vari dialoghi del problema della classificazione e fa brevi riferimenti alla tassonomia zoologica, ma nelle sue opere non vi è un’indagine specifica sugli animali, che costituisce invece la parte più rilevante della scienza aristotelica. Aristotele e la sua scuola attingevano a un’ampia gamma di fonti: cacciatori, allevatori, pastori, apicultori, pescatori, medici. Aristotele prende sempre le mosse dai dati empirici accertati dall’osservazione oppure acquisiti da varie fonti: poeti, storici ed “esperti” – rispetto ai quali mantiene un atteggiamento critico. Le ricerche sugli animali (Historia animalium) discutono in dettaglio le parti, sia interne che esterne, le differenti componenti di cui son fatti: sangue, ossi, pelo, denti; i diversi modi di riproduzione, la loro dieta, il loro habitat e il loro comportamento. Dai dati osservativi e dalla dissezione Aristotele passa poi alla ricerca delle cause, aspetto saliente delle sue ricerche – di cui egli a più riprese sottolinea le finalità teoriche. Lo studio della composizione delle parti degli animali è subordinato alla definizione del loro fine, alla determinazione della loro funzione.
È oggi condivisa l’opinione che in Aristotele non sia presente una tassonomia di tipo linneiano, basata sulla distinzione tra generi e specie. Non solo, ma la tassonomia non è mai lo scopo principale della zoologia di Aristotele, anche se essa è ricavabile da alcuni testi aristotelici. Infine, egli non adotta un unico criterio di differenziazione delle specie animali, ma si basa sulla morfologia, sulle funzioni, sulla presenza o assenza di certi organi, sulla quantità e qualità del sangue.
Anche se non produsse una tassonomia animale completa e definitiva, Aristotele, in particolare nel De partibus animalium, fa della specie (eidos) l’estremo livello di individualità e di particolarità che possa essere oggetto di discorso scientifico – nella cui sfera non rientrano i singoli individui empirici. È però cauto sul significato di specie, asserendo che esistono specie che ammettono differenze e non sono indivisibili. In realtà ciò che egli intende con eidos è piuttosto il gruppo, e stabilisce infatti gruppi abbastanza ben definiti. Anche il termine genos (“genere”) non ha necessariamente una posizione gerarchica più elevata rispetto a eidos: in alcuni casi esso corrisponde alla “varietà” della nostra sistematica. Ciò non significa che lo Stagirita non mirasse a costruire raggruppamenti e ordinamenti differenti da quelli comunemente accettati: in alcuni casi corresse nozioni allora comuni, per esempio, affermando che i cetacei non sono pesci, ma partoriscono figli vivi e li allattano.
In maniera distinta dalle ricerche zoologiche di Aristotele, si sviluppano nel mondo romano conoscenze pratiche intorno agli animali, che troviamo documentate nei trattati di agronomia. Per il capofamiglia romano è della massima importanza mantenere in buona salute i familiari, gli schiavi e il bestiame. Marco Terenzio Varrone e Columella trattano vari aspetti della zootecnia, delle infermità e dei medicamenti degli animali. Un’ampia sezione della Naturalis historia di Plinio è dedicata agli animali, partendo dall’uomo, per terminare con gli insetti. La visione della natura pliniana è di carattere provvidenzialistico, vi è un equilibrio tra bene e male nel mondo animale, equilibrio dovuto alla natura. Vi è un secondo tipo di provvidenzialismo che ispira la visione pliniana degli animali: l’esistenza degli animali, con l’eccezione degli insetti nocivi, è finalizzata al benessere degli uomini.
L’antropologia della Grecia antica si costituisce come un complesso intreccio di credenze radicate nella società greca, consuetudini, convinzioni, riti, teorie e nozioni di carattere empirico. Collocati tra gli dèi e le fiere, gli uomini non sono autosufficienti: a differenza degli dèi, non possono vivere senza nutrirsi di continuo. Dopo la fine dell’età di Crono, gli uomini hanno dovuto guadagnarsi il pane con il lavoro, così Prometeo li ha dotati di sapere tecnico. Nel V secolo a.C. si afferma l’idea che l’ingegnosità, l’intelligenza, abbiano un ruolo centrale nella condizione dell’uomo. Il famoso primo stasimo dell’Antigone di Sofocle esalta le capacità tecniche dell’uomo e la sua abilità nel soggiogare le forze della natura. Alcmeone di Crotone, medico pitagorico vissuto intorno al 500 a.C., afferma che “l’uomo differisce dagli animali perché egli solo comprende, mentre quelli sentono, ma non comprendono”; Anassagora di Clazomene stabilisce che la peculiarità dell’uomo è l’uso delle mani: “L’uomo è il più intelligente degli animali poiché ha le mani”. Un ulteriore elemento si aggiunge al cervello e all’uso delle mani: il linguaggio simbolico. Per Diodoro Siculo l’uomo, spinto dalla paura, si aggrega ai suoi simili e sviluppa un linguaggio dotato di significato.
I Greci stabiliscono un sistema antropologico che si struttura in forma gerarchica: al di sotto dell’uomo, che segue il logos, sono collocati gli schiavi, i barbari (e i bambini), che, come gli animali, ne sono esclusi. Secondo Isocrate, gli Ateniesi eccellono in quelle doti per le quali la natura umana supera gli altri animali, e la stirpe dei Greci i barbari. Platone separa l’anima dal corpo e le attribuisce una funzione di comando. L’uomo in cui l’anima non eserciti questo ruolo di comando non è propriamente un uomo. Per gli stoici, solo l’uomo possiede la ratio e per questo occupa una posizione di assoluta superiorità nella natura.
Distinta e a volte contrapposta alla visione platonica, una tradizione di ricerca medica e naturalistica tende a sfumare le differenze tra mondo umano e mondo animale. Se consideriamo due nozioni-chiave dell’antropologia greca, l’anima e l’apprendimento, riscontriamo che esse non determinano necessariamente una demarcazione tra la condizione umana e quella animale. In Omero, psyché è una sostanza aeriforme, un principio vitale, comune a tutti i viventi e non coinvolta nello stato di coscienza ordinaria. L’anima per Aristotele è la somma delle funzioni del corpo che ne fanno un organismo vivente. Aristotele sottolinea che l’uomo è divino perché intelligente e da ciò derivano posizione eretta, uso delle mani, articolazione del linguaggio. Nell’Etica a Nicomaco, Aristotele attribuisce all’uomo la facoltà di riflessione razionale (logistikon), la virtù e quindi la felicità, quali elementi distintivi rispetto agli animali – che sono invece legati al senso. Tuttavia, in Aristotele la contrapposizione umano/animale non è così netta. Nel libro IX della Historia animalium (di incerta attribuzione, forse di un allievo dello Stagirita) agli animali sono attribuite facoltà naturali che corrispondono a ciascuna proprietà dell’anima. In ambito medico, un depotenziamento dell’anima si trova in Galeno, che nel Quod animi, sostiene che l’anima non è che la somma delle funzioni organiche e la struttura del cervello. Sempre Galeno (De semine, I, 5) antepone al cervello i testicoli, poiché garantiscono la sopravvivenza della specie. Ancora nel IX libro dell’Historia animalium la capacità di apprendere e di insegnare è attribuita anche agli animali: “Alcuni animali possiedono anche una certa capacità di insegnare e di apprendere, o da se stessi o dagli uomini – quanti almeno partecipano dell’udito, non solo nel senso di percepire le differenze fra i suoni, ma anche quelle fra i segni” (Historia animalium, IX, 608a 13 ss.). Plinio, in modo meno argomentato, farà dell’ippopotamo un maestro di medicina (Naturalis historia, VIII, 40-1). Nei Mirabilia di tradizione teofrastea animali si trasformano in uomini e viceversa. I Cinocefali, popoli feroci, con corpo di uomo e testa di cane, che abitavano secondo alcuni autori l’India, secondo altri l’Etiopia, testimoniano della contiguità del mondo umano con quello animale.
Vizi e virtù sono presenti anche nel mondo animale: l’elefante costituisce una concentrazione di virtù umane. Nell’Historia animalium di Aristotele gli sono attribuite spiccate virtù politiche e religiose: sa genuflettersi di fronte al sovrano, mentre, secondo Plinio, è dedito a una forma di religione astrale. Per Aristotele anche la politicità non è prerogativa dell’uomo: l’uomo è politico come lo sono le api, le vespe, le gru e le formiche. Anche il possesso e l’insegnamento del linguaggio è condiviso con alcuni uccelli, come gli usignoli; l’intelligenza, anche se solo in parte, con le api. Il punto di vista naturalistico nello studio degli uomini ha tra i suoi fondamenti principali le dottrine mediche, in particolare la teoria delle costituzioni fisiche (o complessioni) e dei temperamenti. Il De natura hominis (parte del Corpus Hippocraticum, scritto non più tardi del 400 a.C.) compendia questa visione naturalistica stabilendo un legame tra la teoria degli umori, delle qualità e le quattro stagioni, che durerà fino a tutto il Medioevo. Umore Stagione Qualità Sangue Primavera Caldo e umido Bile gialla Estate Caldo e secco Bile nera Autunno Freddo e secco Flegma Inverno Freddo e Umido La prevalenza di un umore sull’altro determina i temperamenti. I termini flemmatico, sanguigno, collerico, melanconico, furono usati per denotare aspetti peculiari, non necessariamente morbosi, della natura umana. Caratteri e tipologie umane sono fatte dipendere da umori e complessioni e dai loro rapporti con i climi. Nei Problemi pseudo-aristotelici si afferma che sono coraggiosi coloro che hanno una natura calda, codardi quelli che la possiedono fredda. Un criterio analogo regola la classificazione degli animali sanguigni nel trattato aristotelico De partibus animalium: il toro e il cinghiale dal sangue denso e caldo si distinguono per l’indole ardente e il temperamento impetuoso (650b 33-651a 5). Le caratteristiche di interi popoli sono fatte dipendere dal rapporto tra complessioni e climi. L’autore del trattato ippocratico Le arie, le acque, i luoghi afferma che coloro che abitano territori dal suolo pingue e ricco di acque sono di solito ben in carne, ma pigri e non portati a svolgere attività tecniche; gli abitatori di zone aride hanno carattere fiero, sono selvatici e si dedicano alle tecniche. Chi nasce in regioni fredde (si legge nella Politica di Aristotele) sviluppa più calore e possiede, di conseguenza, più coraggio. L’autore dei Problemi pseudo-aristotelici sviluppa le stesse relazioni tra climi e complessioni: “Perché gli abitanti delle regioni calde sono più intelligenti di quelli dei paesi freddi? Forse per lo stesso motivo per cui i vecchi sono più saggi dei giovani? Chi vive in paesi freddi è molto più caldo, per una naturale tendenza reattiva, dovuta al clima freddo della regione; così assomiglia a chi ha bevuto troppo, e non ama apprendere e indagare, ma mostra coraggio ed è pieno di fiducia. Chi vive in paesi caldi è invece sobrio, perché di costituzione fredda”.