Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’alba del Seicento è Shakespeare, con la metafora del mondo come palcoscenico, a fornire l’immagine più eloquente del secolo a venire. L’intreccio tra realtà e finzione, il gioco tra maschera, inganno e verità, l’oscillazione della vita fra dramma e commedia: lo spettacolo teatrale rappresenta i molti volti del Seicento filosofico e della vivacità intellettuale che lo ha attraversato.
La vita come teatro: Shakespeare e Corneille
“Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena. Ognuno nella sua vita interpreta molti ruoli e gli atti sono le sette età della vita. Dapprima l’uomo è un bambino che frigna fra le braccia della nutrice, poi uno scolaro lamentoso e svogliato che si incammina verso la scuola a passo di lumaca. Poi è un innamorato che sospira come un mantice, [...] più tardi un soldato baffuto e lesto di mano, [...] poi un giudice sentenzioso con la pancia piena, gli occhi severi, la barba ben curata, [...]. La sesta età lo vede in ciabatte e i pantaloni sformati e vuoti, le lenti sul naso, [...]. La scena infine che chiude questa strana e movimentata storia è una seconda infanzia, puro oblio, senza denti, senza vista, senza gusto e senza niente ” (As you like it, atto II, scena VII).
Chi scrive così è Shakespeare, ma sappiamo che la metafora della vita come teatro è diffusa in altri testi – non solo teatrali – di autori che scrivono fra Cinque e Seicento. Simmetrica all’ambizione del teatro di rappresentare le vicende della vita, la metafora della vita come spettacolo teatrale rappresenta un’immagine duplicata e complessa, specchio nello specchio. Alla base della fortuna della metafora in quei tempi sta il diffuso successo del teatro, un’arte esaltata da Corneille come “l’amore di tutti i buoni ingegni, l’argomento delle conversazioni di Parigi, il più caro divertimento dei nostri principi, la delizia del popolo [...]”.
Tutte le avventure e disavventure, gli amori e le inimicizie della vita reale possono per magia diventare puro teatro, un’illusione che talvolta prevede un “lieto fine”: il padre che disperato piangeva la morte del figlio scopre che è vivo e fa l’attore; lo vede mentre alla fine della giornata riceve la sua paga insieme ai compagni. Tutti “gli attori” – scrive Corneille – “senza prender vero interesse alle parti che hanno recitato, il traditore e il tradito, il morto e il vivo, si trovano alla fine amici come prima” (L’illusion comique, atto V, scena V).
La vita è dunque un dramma il più sovente non molto allegro nel suo insieme (e raramente a lieto fine come L’illusion) e il mondo è un palcoscenico, un luogo non scelto dagli attori come del resto il copione assegnato agli interpreti che possono modificarlo solo in minima parte. Una fila interminabile di uomini entra sul palco e poi definitivamente esce: “l’uomo è un poveraccio che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo durante la sua ora e poi non se ne parla più, è una favola raccontata da un idiota [...] qualcosa che non significa nulla” (Macbeth, atto V, scena V).
Storia e significati di una metafora
Qual è il senso del pensare e immaginare fin nei particolari – palcoscenico, attori, copione e prima di tutto l’Autore – che la vita sia una recita teatrale?
Il teatro/mondo è un’immagine polivalente che ha un’origine lontana e si è ampliata nel corso del tempo: Platone nella Repubblica (604bc) e nelle Leggi (644e; 645b; 803b-c) parla della vita come dramma (un’arte che non amava e giudicava moralmente dannosa), anche se non sviluppa l’analogia nelle sue componenti; gli stoici, ai quali sta a cuore il nucleo etico dell’idea, allargano il confronto e aggiungono che compito dell’uomo è recitare bene la parte che gli è assegnata mentre sceglierla è compito d’altri. È noto che recitare bene significa per il filosofo stoico seguire la Ragione.
Qualcosa cambia ma non molto nell’elaborazione dell’immagine da parte dei letterati cristiani. Fra gli antichi e gli scrittori secenteschi pochi ricordano che a far da tramite, in modo originale ed esplicito, è un autore del XII secolo, dunque un filosofo “medievale” che adorava le “parole e le immagini eleganti” degli antiqui: Giovanni di Salisbury, allievo di Abelardo e dei maestri di Chartres. Nel suo Policraticus – testo di etica politica sul governo e la convivenza umana – Giovanni di Salisbury, rifacendosi al Satyricon di Petronio (il passo tuttavia non è stato individuato dagli studiosi) riprende la metafora, la arricchisce con riflessioni nuove e quella melanconia trasognata che anticipa i pensieri di Shakespeare e di Corneille.
È verosimile che i maestri del teatro barocco, dove la metafora del teatro/mondo si dispiega con maggior splendore, conoscessero il tema sviluppato da Giovanni di Salisbury non direttamente ma attraverso le “piccole enciclopedie” – scritte nel Duecento ma dopo secoli ancora lette e diffuse nelle edizioni cinquecentine – che la ripetevano stancamente e senza fantasia.
In Shakespeare e negli altri l’immagine diventa invece una folgorante idea guida che spiega l’incanto filosofico del teatro ed espone la prospettiva etica dell’autore. Giovanni di Salisbury già segnalava che “la vita degli uomini è più simile a una tragedia che a una commedia perché tutto da dolce diviene amaro e il lutto succede alla gioia”, concludendo che l’agire umano è sottomesso alla fortuna “beffarda”, privo di significato, inconcludente, monotono e ripetitivo. Su questa scena immane dove gli eventi naturali si ripetono ciclicamente, l’uomo “dimentico di sé” recita la parte che gli è stata assegnata, “spettatore e attore insieme”.
La metafora allude a un autore ignoto – Dio, la Natura, il Caso – ossia Qualcuno o Qualcosa che è nascosto e non si identifica con chi vive o recita. Un autore che possiede il disegno generale dei destini e lo governa? Oppure una forza indecifrabile che assegna casualmente i ruoli e suggerisce agli ignari attori l’amarezza dolorosa del non senso del mondo?
Nel primo caso il mondo è leggibile e significante proprio come un libro (altra metafora medievale e poi secentesca, che va da Agostino a Nicola Cusano fino a Galileo), mentre nel secondo caso appare agli uomini, che provvisoriamente lo abitano, un deprimente e confuso quadro d’insieme.
Tra inganno e dissimulazione
Il mistero sull’autore del dramma non è che uno dei segreti celati nella metafora teatrale secentesca e nei suoi precedenti più antichi. Anche se ci aspetteremmo una prospettiva più ottimistica, doverosa per un credente cristiano, ecco Giovanni di Salisbury condividere le parole di Boezio (II libro del De consolatione philosophiae) e la triste filosofia dell’Ecclesiaste (1, 3-6): “Una generazione va una generazione viene e la terra rimane sempre la stessa. Il sole tramonta, il sole sorge [...] il vento soffia a mezzogiorno poi gira a tramontana, gira e rigira e ritorna”. Scrive Giovanni: “I singoli scompaiono uno dopo l’altro. Dove sono finiti i potenti nell’arte della guerra, quelli che giocano con gli uccelli del cielo e quelli che conservano l’oro e costruiscono case e case?”
La riflessione del filosofo medievale è intrisa di un pessimismo che è difficile definire cristiano in senso tradizionale: segnato dalla percezione amara di un’essenziale mancanza di libertà, denuncia la finzione e l’ipocrisia diffuse nel mondo. Qualcosa di terribilmente “normale” per un uomo che vive a corte (un curialis come Giovanni attento e inorridito osservatore delle ingiustizie e dei delitti commessi ai piedi del trono del principe), e un atteggiamento che sembra congeniale anche alle corti europee del Seicento stancamente e formalmente cristiane. Gli autori del teatro barocco rappresentano a tinte fosche le vicende che si svolgono nelle sale del principe squassate da assassini, stupri, congiure, incesti, prepotenze tiranniche, usurpazioni e inganni. La metafora del mondo/teatro esalta il clima tragico, isola la solitudine e la malinconia (o forse la disperazione) dell’eroe, sottolinea paradossalmente insieme al determinismo l’insignificanza del mondo. Un aspetto questo che risulta lontano tanto dalla tradizione cristiana quanto dai toni eroici degli umanisti che come Pico della Mirandola esaltavano l’uomo e la sua libertà.
Montaigne nei Saggi trattando passim dell’antica metafora del teatro/mondo aveva usato le parole “maschera”, “inganno”, “apparenza”, “simulazione” come termini-chiave per descrivere i caratteri negativi del suo tempo. “La dissimulazione è fra le più notevoli qualità di questo secolo [...]. L’inganno mantiene e alimenta la maggior parte delle professioni umane”. Se il mondo è un teatro pieno di trappole, finzioni e inganni, è necessario abbandonare la scena e cercare un rifugio il più lontano possibile dai luoghi pubblici: per Montaigne è la “torre dei libri” nella campagna del Périgord.
Inganno e triste passività segnano dunque in gran parte la diffusa presenza della metafora che nel Seicento celebra il teatro come arte massima e insieme dipinge la vita come un dramma squallido e insensato. In conclusione, dice bene Amleto: prima che sia tutto silenzio, “la vita si riduce a un ruolo che ognuno di noi deve recitare” (Hamlet, atto I, scena II).