Il mondo che invecchia: la crisi e la sua interpretazione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo la sempre più incerta stabilità del periodo severiano (nel corso del quale si fanno sempre più evidenti i problemi strutturali dell’impero), lo stato romano scivola in quella che tradizionalmente viene chiamata "anarchia militare". L’etichetta, tuttavia, è riduttiva: la crisi non sarà uniforme e, anche prima di giungere a Diocleziano, non mancheranno tentativi, parzialmente riusciti, di correggere la situazione. Nel frattempo, la religione acquisisce un ruolo sempre più importante anche per spiegare la crisi in atto.
Nel corso del III sec. d.C. viene tradotto in latino un dialogo greco che ha come protagonista una figura leggendaria e divina, Hermes Trismegisto, identificato con il dio egiziano Thoth. Il dialogo, intitolato Asclepius, più tardi confluirà in quello che oggi conosciamo come Corpus Hermeticum; all’epoca risulta attuale per più motivi, forse anche per un passo di tenore profetico e apocalittico nel quale si descrivono i segni che caratterizzeranno l’ultima età del mondo, quella immediatamente precedente la sua fine: “la vecchiaia del mondo è destinata a giungere come empietà, disordine, dispregio di ogni bene”.
Questi tre elementi, con ogni probabilità, per un lettore del III secolo evocano in maniera inquietante la situazione contemporanea. Dalla morte di Commodo all’ascesa al trono di Diocleziano si succedono, con un ritmo sempre più drammaticamente inarrestabile, una trentina di imperatori ufficiali e decine di usurpatori o pretendenti al trono. Quasi tutti periscono di morte violenta, uno addirittura fatto prigioniero dal sovrano della rinata Persia. L’impero, all’interno del quale tutti gli abitanti liberi sono per la prima volta cittadini romani, non ha pace: flagellato da pestilenze e invasioni sempre più massicce, giunge a spaccarsi in tre, e l’economia, in particolare quella monetaria, viene travolta da un’inflazione inarrestabile. Le stesse istituzioni religiose tradizionali sono minate dalle fondamenta, tanto dall’esterno, con la diffusione del cristianesimo, represso con inutile ferocia, quanto dall’interno, con il tentativo di creare culti più o meno monoteistici incentrati intorno al Sole, che sfociano in una vera e propria scandalosa teocrazia durante il regno di Eliogabalo.
In maniera quasi sorprendente il sistema tuttavia riesce a reggere. Dopo aver toccato il fondo sotto gli sfortunati regni di Valeriano e del figlio Gallieno, per ironia della sorte ultimi esponenti dell’aristocrazia italica a rivestire il potere imperiale, la marea comincia a cambiare. È certo merito degli energici imperatori provenienti dai ranghi dell’esercito, come Claudio e Aureliano, che cominciano a intuire le mosse da prendere per arrestare la disgregazione dell’impero e tentare di risolvere i problemi strutturali che lo affliggono. Se i loro tentativi finiscono frustrati dalla malattia e da una congiura, la medesima linea d’azione viene infine raccolta e portata fino in fondo da Diocleziano.
Subito dopo l’assassinio di Commodo, il 31 dicembre del 192, i congiurati (in particolare il potente prefetto del pretorio, Emilio Leto) scelgono come nuovo imperatore Publio Elvio Pertinace, un rispettabile senatore dell’età di 66 anni, che forse cerca troppo rapidamente di porre rimedio alle numerose storture che affliggono lo stato, prima fra tutte l’indisciplina dei pretoriani: finisce eliminato da questi ultimi nel marzo del 193.
La carica imperiale passa a quel punto a Didio Giuliano, ricchissimo senatore il cui unico merito è quello di aver promesso un astronomico donativo ai soldati di stanza a Roma (il famoso episodio dell’impero "messo all’asta"). Didio viene travolto entro pochi mesi da Settimio Severo, giunto in Italia alla testa delle truppe della Pannonia; nei quattro anni successivi egli riesce ad avere ragione anche di altri due pretendenti al trono (Clodio Albino e Pescennio Nigro) e rimane unico padrone dell’impero. Approfittando della sua presenza in Occidente, il re dei Parti, Vologese V (sul trono dal 191 al 208), invade alcuni territori romani; Settimio accorre ed è in grado di respingere i nemici ed invaderne il territorio, arrivando ad occupare anche le città di Seleucia, Babilonia e Ctesifonte, la capitale, che viene distrutta.
L’imperatore può così assumere il titolo di Parthicus Maximus, celebrando il suo successo con il celebre arco di trionfo che si può ammirare ancora oggi nel Foro Romano. Più tardi a Settimio è riservata un’ultima campagna militare. Accompagnato dai due figli Caracalla e Geta, si reca in Britannia nel 208 per tentare di porre un freno alle scorrerie dei Caledoni e dei Meati. Non è chiaro se intenda conquistare la Scozia o limitarsi ad azioni punitive; nel corso della campagna si ammala e finisce per morire nel 211 a York.
Secondo gli auspici di Settimio Severo, i due figli dovrebbero regnare insieme; Caracalla, tuttavia, elimina ben presto il fratello e, forse per evitare di confrontarsi con un’opinione pubblica e un senato piuttosto ostili, decide di lasciare la capitale per dedicarsi a imprese militari; in questi anni estende la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, un importante provvedimento che forse non è privo di rapporti con l’assassinio del fratello. L’imperatore sta pianificando una spedizione in grande stile contro i Parti quando, nel 217, è ucciso a tradimento da un ufficiale istigato dal prefetto del pretorio Macrino, di origini mauritane e di rango equestre, che assume il potere all’indomani dell’assassinio.
L’atto di governo più importante, e anche più enigmatico, attuato durante il regno di Caracalla è la cosiddetta Constitutio Antoniniana, la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero. L’atto risale probabilmente al 212 (è stata proposta anche la data del 213), ma non sono chiare le sue motivazioni. Per il contemporaneo Cassio Dione, l’imperatore così facendo mira ad accrescere il gettito fiscale, giacché solo i cittadini romani erano assoggettati al pagamento delle tasse su eredità e manomissioni, che lo stesso Caracalla innalza dal 5 al 10 percento; è stato peraltro obiettato che Cassio Dione (un senatore, tra l’altro) era piuttosto ostile all’imperatore, e che sarebbero esistiti anche mezzi più semplici per accrescere gli introiti. Un papiro (P. Giss 40), che riporta la traduzione greca del testo originale del provvedimento, lascia invece supporre che il gesto fosse presentato come ringraziamento per qualche successo del sovrano (forse, è stato suggerito, l’eliminazione di Geta, o la salvezza dopo un naufragio).
Questo sarebbe coerente con la prassi romana secondo la quale l’estensione della cittadinanza è essenzialmente un atto di liberalità, peraltro già praticato estesamente dagli imperatori precedenti (a partire da Claudio), al punto che, si è notato, forse all’inizio del III secolo quasi tutti gli abitanti liberi dell’impero erano già cittadini romani. C’è poi da dire che la cittadinanza va rapidamente perdendo valore anche nel campo del diritto: la distinzione fondamentale è sempre più quella tra i ceti più elevati (honestiores), che comprende gli appartenenti all’ordine senatorio ed equestre (nonché le autorità municipali e i militari), e i ceti inferiori (humiliores). Mentre questi ultimi sono assoggettati a tutto il campionario delle torture e delle pene (comprese la crocifissione e la condanna ad bestias), gli honestiores hanno diritto ad un trattamento privilegiato. Pur con queste precisazioni, tuttavia, non si può negare che la Constitutio Antoniniana abbia avuto un ruolo importante nel rendere l’impero una grande comunità i cui abitanti, pur diversi per lingua e costumi, possono sentirsi tutti "Romani" o, nel caso dell’Oriente greco, Rhomaioi (denominazione che rimarrà in auge per tutta l’epoca bizantina e anche in seguito).
Le mosse di Macrino dopo l’ascesa al trono non sono molto accorte. Conclude rapidamente il conflitto con i Parti per mezzo di un accordo che, per quanto non disastroso, viene accolto con freddezza a Roma; ancora peggio, suscita nelle truppe il timore di una decurtazione del salario. In questa condizione di malcontento deflagra la rivolta aggregatasi intorno alla figura del giovanissimo Vario Avito, pronipote di Giulia Domna (moglie di Settimio Severo), presentato come figlio illegittimo di Caracalla e, sull’onda del malcontento generale e del lealismo dei soldati, innalzato al trono nel 218.
Macrino e suo figlio tentano un’inutile fuga che termina con la loro morte. Vario, cresciuto nella città siriana di Emesa, è sacerdote del dio solare Elagabalo (o Eliogabalo), e con questo nome passa alla storia, dopo un regno esecrato dai contemporanei per l’introduzione di stravaganti culti orientali e quella che viene percepita come una dilagante immoralità e corruzione dei costumi nella corte imperiale. La nonna dell’imperatore, l’influente Giulia Mesa, rendendosi conto delle nubi che si addensano intorno ad Eliogabalo, pensa bene di affiancargli il giovane cugino Alessiano, che assume il nome di Alessandro Severo. Più malleabile e discreto, e meglio diretto, Alessandro si conquista il favore di tutti, in particolare dei pretoriani che nel 222 tolgono di mezzo l’imbarazzante Eliogabalo.
Il regno dell’ultimo dei Severi dura 13 anni e viene dipinto dai posteri come un ultimo momento di felicità prima dell’inizio dell’"anarchia militare". Alessandro, in genere ben consigliato dalla madre e dalla nonna, si presenta come un sovrano morigerato e mostra di tenere in grande considerazione il senato (a livello, peraltro, più formale che sostanziale), che gliene è riconoscente. Meno facili, dopo un buon inizio, sono invece i suoi rapporti con i militari, sempre più irritati per le continue ingerenze femminili e per l’atteggiamento singolarmente irresoluto che il giovane imperatore mostra in occasione della guerra contro i Persiani e di una successiva campagna in Germania. Nel 235 Alessandro Severo e sua madre sono uccisi in una rivolta capeggiata da Giulio Vero Massimino, detto il Trace, un ufficiale di umili origini.
Massimino nel corso del suo non lungo regno evita di recarsi a Roma (probabilmente non fidandosi dell’ambiente politico della capitale) e, anzi, continua ad impegnarsi in indefesse campagne militari contro Germani, Daci e Sarmati. Questo ingente sforzo bellico comincia a gravare pesantemente sui contribuenti, soprattutto sulle classi più abbienti, sempre più ostili verso un sovrano perennemente distante, dal punto di vista fisico e ideologico. Nel 238 si verifica una ribellione dei possidenti della provincia d’Africa, che si stringono intorno alla famiglia dei Gordiani; il senato di Roma appoggia la sollevazione e, dopo una serie di colpi di scena che si concludono con l’eliminazione di Massimino ad Aquileia da parte dei suoi stessi soldati, sul trono rimane il giovane Gordiano, detto III (l’avevano brevemente e tragicamente preceduto il nonno e lo zio). Questi cerca di presentarsi come sovrano colto e filosenatorio, in antitesi al suo predecessore e sulla linea di Alessandro Severo. La situazione sui confini, tuttavia, è sempre più preoccupante, in particolare sui fronti danubiano e orientale; Gordiano muore nel 244 (ucciso in battaglia o eliminato dai suoi uomini) proprio nel corso di una campagna contro i Sasanidi di Persia.
Il suo immediato (e forse non del tutto innocente) successore è il prefetto del pretorio Filippo, detto l’Arabo, che acquista frettolosamente e onerosamente la pace con la Persia e poi torna verso Roma per consolidare il suo potere. Nel 247 può festeggiare in grande stile il millenario della fondazione della capitale con giochi ricordati nelle sue emissioni monetarie. Di fronte all’irrequietudine dei Goti, che premono su Dacia e Mesia, Filippo invia nella zona Messio Quinto Decio, un distinto senatore che si rivela molto abile nel respingere gli attacchi. Forse addirittura troppo, al punto che nel 249 è nominato imperatore, a quanto pare contro il suo volere, dalle truppe. Nello stesso anno sconfigge Filippo in una battaglia presso Verona e rimane unico signore dell’impero. Il nuovo imperatore si trova a dover affrontare i ricorrenti attacchi dei Goti, e nel 251 viene ucciso in battaglia ad Abritto; il suo successore, nominato in gran fretta, è il governatore della Mesia, Treboniano Gallo, ben presto sostituito da Emiliano, a sua volta rimpiazzato in maniera cruenta da Licinio Valeriano, distinto aristocratico nonché governatore del Norico e della Rezia.
Anticipando un provvedimento che sarà preso più volte negli ultimi secoli dell’impero, Valeriano ne divide il territorio in due sfere d’azione: al figlio Gallieno affida le frontiere settentrionali, mentre egli si concentra su quelle orientali, messe a dura prova dalle invasioni dei Borani (popolazione stanziata in Crimea, dedita alla pirateria) e soprattutto dalla crescente aggressività del persiano Sapore. È proprio durante un colloquio personale tra i due sovrani, tra Carre ed Edessa, che nel 260 Valeriano e il suo stato maggiore vengono fatti prigionieri e deportati in Persia, un evento che comprensibilmente sconvolge l’opinione pubblica romana. Gallieno, in affanno contro le popolazioni germaniche, non riesce nemmeno a contrastare le tendenze centrifughe che lacerano lo stato. Uno degli elementi più rilevanti della geopolitica imperiale nella seconda metà del III secolo è in effetti l’emergere di entità statali autonome che arrivano a sottrarre al controllo dell’amministrazione centrale ampi territori.
La città carovaniera di Palmira, in particolare, assume grande importanza sotto l’abile dominio di Settimio Odenato, che dopo la cattura di Valeriano da parte di Sapore si oppone valorosamente all’esercito sasanide e ad alcuni ribelli emersi nella regione, al punto che Gallieno gli concede il titolo di corrector totius Orientis. Odenato, peraltro, riconosce sempre l’autorità di Roma; dopo il suo assassinio nel 267/268, tuttavia, le redini del potere vanno alla sua vedova, Zenobia, reggente per conto del figlio Vaballato. Cercando di approfittare della situazione sempre più caotica, Zenobia arriva a rivendicare il titolo di Augusta e ad invadere l’Egitto e gran parte dell’Asia Minore; le sue forze, tuttavia, non riusciranno a contrastare la controffensiva dell’energico Aureliano che la depone nel 272 e l’anno successivo, in seguito a una rivolta, devasta completamente la città.
All’altro capo dell’impero, sempre sotto Gallieno, nel 259 il comandante delle truppe di stanza sul Reno, Postumo, in seguito a una serie di dissidi elimina il giovane principe Salonino e stabilisce un dominio indipendente che comprende Gallia, Spagna e Britannia. Visto talora come prefigurazione del regno di Francia o come espressione di sentimenti autonomistici, in realtà il cosiddetto Imperium Galliarum è una sorta di governo romano su scala locale, peraltro molto efficiente sinché Postumo non viene eliminato dal consueto ammutinamento (268). La capitale è stabilita a Treviri, dove compaiono consoli, un senato, dei pretoriani; la fedeltà del nuovo imperatore al concetto di romanità è espressa da coniazioni monetarie di buona qualità che recano la legenda Roma aeterna. A essere messa in discussione è piuttosto l’autorità di Gallieno, forse sbeffeggiato dallo stesso Postumo in alcune celebri quanto enigmatiche emissioni auree dov’è qualificato come Galliena Augusta. Dopo l’assassinio del fondatore, l’imperium Galliarum, sempre più ristretto, è governato da una serie di oscuri personaggi (l’ultimo di essi, Tetrico, viene deposto da Aureliano nel 274).
L’impero dunque al tempo di Gallieno stava letteralmente cadendo a pezzi; la storiografia antica in genere individua come massimo colpevole proprio l’imperatore, dipinto come imbelle, effeminato, simpatizzante per i cristiani e per giunta colpevole di aver tolto il comando delle legioni ai legati di provenienza senatoria, sostituiti da praefecti equestri, che potevano anche giungere dai ranghi. Per quanto il suo non possa certo definirsi un regno di successo, gli studiosi moderni in genere gli concedono molte attenuanti, riconoscendogli anche di aver compreso i problemi e cercato, per quanto possibile, di trovare soluzioni.
Gallieno, in ogni modo, viene eliminato da una congiura militare nel 268; gli succede un generale di cavalleria di origini illiriche di grandi capacità, Claudio, che nel 269 vince a Naisso una battaglia epocale contro i Goti, che per circa un secolo non costituiranno più un problema. L’anno dopo l’imperatore muore di malattia e il comando passa ad un suo stretto collaboratore, Aureliano. Anch’egli di origine illirica, celebre per la sua prontezza ed energia (è noto come manus ad ferrum, "mano alla spada"), nei suoi cinque anni di regno riesce a rimettere insieme i pezzi di un impero che sembra alla deriva, ponendo le basi per le successive riforme strutturali di Diocleziano. Se da un lato riassorbe le Gallie dissidenti e sottomette, in maniera più cruenta, Palmira, dall’altro ritira le legioni dalla Dacia, preferendo concentrare le forze lungo il critico limes danubiano. Ad Aureliano è attribuita anche una prima, limitata riforma monetaria e soprattutto l’inizio della costruzione della nuova cinta muraria di Roma, attuata forse più per placare le paure degli abitanti, spaventati dalle incursioni di bande germaniche che si spingevano fino in Italia, che per concrete necessità difensive. L’imperatore viene eliminato nel 275 da una congiura; dalla confusione che segue emerge nel 276 un altro generale illirico, Probo (232-282), che respinge o neutralizza tutta una serie di minacce esterne che gravano sull’impero, tanto a Oriente quanto a Occidente, per poi trovare la morte nel 282 a causa di un ammutinamento dei suoi soldati, che si è inimicati con il suo rigorismo.
Il suo successore, Caro (223 ca. – 283), percependo un’esigenza sempre più concreta che poi sarà istituzionalizzata da Diocleziano, decide di occuparsi della parte orientale dell’impero insieme al figlio Numeriano; ad un altro figlio, Carino, viene affidato l’Occidente. Caro e Numeriano periscono (il primo per cause naturali, il secondo assassinato) nel 284, nel corso di una spedizione contro la Persia; le truppe acclamano imperatore l’ennesimo generale illirico, Diocleziano, che con l’eliminazione di Carino l’anno seguente ha tutto l’impero sotto il suo comando.
Posti di fronte all’ingestibilità dell’esercito, alle tendenze centripete che lacerano lo stato, ad un’inflazione rovinosa, all’emergere della potenza persiana e alle sempre più massicce incursioni barbariche, i sovrani del III secolo, soprattutto a partire da Decio, adottano come principale spiegazione di questi problemi quella religiosa. Lo stato scricchiola perché gli antichi dèi sono trascurati, a causa, si pensa, della diffusione del cristianesimo: questa spiega le ricorrenti e sempre più crudeli persecuzioni, che culminano alla fine del periodo sotto Galerio e Diocleziano. Del resto tale concezione non viene respinta, ma semplicemente rovesciata quando, poco dopo, il cristianesimo diventa religione di stato: le sciagure di Roma sono dovute all’empietà dei suoi governanti, che si sono accaniti contro i seguaci di Cristo.
Le questioni teologiche e dogmatiche giocheranno un ruolo importante in tutto il IV secolo e, nella parte orientale dell’impero, fino alla caduta di Bisanzio. Già in età severiana si nota come il fattore religioso accresca la propria importanza, al punto da divenire fonte della legittimazione imperiale: Eliogabalo introduce a Roma il culto solare della sua natia Emesa, di cui era anche gran sacerdote, e nella sua volontà di sposare una vestale si indovina il desiderio di instaurare una vera e propria teocrazia. Misticismo e sincretismo permeano anche la corte di Alessandro Severo, così come quella di Gallieno, sotto il quale potranno prosperare il neoplatonismo, sempre più spirituale, e lo stesso cristianesimo.
L’interesse per la religione, accompagnato però da un atteggiamento molto meno tollerante, caratterizza anche gli energici imperatori illirici che, nella seconda metà del secolo, cercano di ricompattare, in tutti i sensi, l’impero. Aureliano, a quanto si dice in seguito ad una visione, promuove il culto del Sol Invictus, la stessa divinità solare di Emesa venerata da Eliogabalo; in questo caso, però, gli aspetti più scandalosi del culto vengono soppressi, e l’attenzione è focalizzata sull’aspetto unificante della divinità, nella quale si possono in qualche modo riconoscere tutti i culti pagani dell’impero. Anche Probo, successivamente, propaganda il culto del Sole; l’insistenza sulla religione tradizionale caratterizza infine anche il regno di Diocleziano, che giunge ad associare Giove con la figura imperiale, fino ad arrivare a Costantino che, avvicinandosi al cristianesimo, pratica dunque una scelta solo parzialmente di rottura rispetto al passato.