Il modello rifiutato: re e tiranni
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Delle tre forme principali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia), i Greci rifiutarono ben presto il modello monarchico, che a ben vedere appare già piuttosto debole nella saga omerica. Ciò non toglie che, durante l’età arcaica, buona parte delle poleis conosca l’esperienza della tirannide, vale a dire del governo assoluto e illegale di un personaggio che si impadronisce del potere con la forza, riuscendo di solito a trasmetterlo ai figli. La tirannide è ricordata nelle fonti posteriori come il peggiore dei governi, anche se, in realtà, essa si rivelò spesso un importante fattore di crescita.
Il celebre logos tripolitikos del III libro delle Storie (80-82) di Erodoto, nel quale il grande storico ambienta alla corte persiana un dibattito su pregi e difetti delle principali forme di governo (monarchia, oligarchia, democrazia), ha avuto un’enorme influenza ben oltre i confini cronologici del mondo antico.
Esso contiene, affidato alle parole di Dario, futuro Gran Re, un elogio della monarchia: “essendoci di fronte tre forme di governo ed essendo tutte a parole ottime – nella loro forma migliore la democrazia, l’oligarchia e la monarchia – io sostengo che quest’ultima è di molto superiore. Nulla, infatti, può apparire meglio di un solo uomo quando sia il migliore; valendosi di un tal senno, egli può soprintendere alla moltitudine in modo impeccabile; così soprattutto si possono tenere segrete le decisioni contro i nemici. Nell’oligarchia, invece, tra i molti che impiegano le loro virtù per l’interesse pubblico, di solito sopravvengono forti inimicizie personali; volendo ciascuno essere il primo e far vincere le proprie opinioni, giungono tra loro a gravi inimicizie; dalle inimicizie nascono guerre civili e dalle guerre civili nascono le stragi; dalle stragi si passa quindi alla monarchia, ed è dimostrato così quanto quest’ultima sia migliore. A sua volta, quando comanda il popolo, è impossibile che non sorga la malvagità...” (III 82; trad. Augusto Fraschetti, con lievi variazioni).
Va notato come Dario sia anche il vincitore del dibattito: anche se la storicità del racconto erodoteo è tutta da dimostrare (e appare tipicamente greca, per esempio, la concezione della politica come sostanzialmente priva di qualsiasi mediazione), noi sappiamo che, dopo le turbolenze seguite alla morte di Cambise II (522 a.C.), l’anno seguente sarà appunto Dario a salire al trono.
Nel mondo greco, invece, il modello monarchico era già stato sconfitto da molto tempo anche se non mancherà di riaffiorare qua e là. Sconfitto perché identificato, a torto o a ragione, con la sua parte degenerata, con l’immagine dell’uomo che governa in modo assoluto e arrogante, calpestando ogni legge umana e divina.
Il rifiuto del tiranno – ecco la parola – attraversa tutta l’esperienza politica greca. Tale rifiuto è particolarmente forte – e letterariamente elaborato – ad Atene, durante l’età classica. Aristofane, nel passo che segue (Vespe vv. 488-497) non manca di dileggiare i suoi concittadini per l’ossessione mostrata nei confronti del pericolo della tirannide, un pericolo ormai immaginario: “Già, per voi tutto è tirannide e cospirazione, grande o piccola che sia l’accusa. Per cinquant’anni, della tirannide non ho sentito neppure il nome; ma ora è molto più a buon mercato del pesce in salamoia: il suo nome circola per la piazza. Se uno compra gli scorfani e non vuole le sardelle, subito il venditore di sardelle, lì accanto, dice: ‘Secondo me, costui fa provviste per la tirannide!’. E se per giunta chiede una cipolla per condire le alici, l’erbivendola, guardandolo di traverso, dice: ‘Dimmi, la cipolla la vuoi forse per la tirannide? Pensi che Atene ti debba versare i condimenti?’” (trad. Giuseppe Mastromarco). Dove la sardella è più “democratica” dello scorfano semplicemente perché costa meno, e la cipolla diventa un “tributo” che il tiranno esige dal popolo, solo perché l’acquirente dello scorfano cerca di farsela regalare dal pescivendolo, invece di comprarla dall’erbivendola!
Questa condanna del potere di un uomo solo, presente già in età arcaica, ma rinvigorita dalle guerre persiane, che contribuirono a diffondere il ben noto schema: Greci/vittoriosi/liberi vs Persiani/sconfitti/schiavi (in quanto l’unico persiano libero era il Gran Re) era, a ben vedere, tutt’altro che scontata. Dopo tutto, i Greci sono figli di un’epoca, quella micenea, in cui sono i wanakes, i re, a comandare. E dai secoli bui emergono i basileis, anch’essi dispensatori di un potere sovrano, e come tali descritti da Omero.
E vediamoli dunque da vicino, i basileis omerici. È tradizione ben consolidata distinguere i capi dell’Iliade da quelli dell’Odissea, intesa quest’ultima come rappresentativa di un periodo successivo di almeno un paio di generazioni. In questo lasso di tempo, i basileis perdono potere: da assoluto, questo si fa sempre più condizionato. Tipico esempio, quello di Alcinoo, che regna sui Feaci come primus inter pares di altri 12 basileis dell’isola (Odissea, VIII 390-391). In questa rappresentazione c’è qualcosa di vero. Ma, a ben riflettere, già il potere di Agamennone, il capo della spedizione degli Achei a Troia, è un potere limitato: limitato dalla necessità di consultare una dozzina o poco meno di capi, facenti parte di una sorta di consiglio ristretto; limitato, ancor di più, da quella che potremmo chiamare la personalità dello stesso Agamennone, comandante tutt’altro che carismatico: non il più forte, non il più intelligente. Per dirla con lo storico Pierre Carlier, “l’ideologia della regalità che trova espressione nell’Iliade, in quanto sottolinea le manchevolezze del re e ne attribuisce la responsabilità alla volontà divina, è agli antipodi delle concezioni orientali o ellenistiche che fanno del re ‘lo specchio di tutte le virtù’”.
Sul piano storico, una fase monarchica della polis è sostanzialmente inafferrabile (eccezione sorprendente sarà costituita dai due re spartani), anche se qua e là affiora qualche indizio, valorizzato da quanti – antichi e moderni – amano le semplificazioni rassicuranti offerte dagli schemi “geometrici”: uno di questi è la progressione monarchia > aristocrazia > democrazia, che avrebbe contraddistinto la natura dei governi delle poleis nel corso dei secoli.
Molte più tracce – tanto da connotarlo come uno dei fenomeni più importanti e vistosi dell’età arcaica – ha lasciato il governo illegale, provvisorio e assoluto (un paragone con le moderne dittature non è poi fuor di luogo) da parte di un singolo personaggio, esperienza vissuta da molte poleis in un arco di tempo abbastanza vasto, il cui culmine può essere collocato tra il 650 e il 550 a.C.
Con un nome destinato a sfondare le barriere dei secoli per giungere fino a noi, i Greci chiamarono questi personaggi tiranni. Il successo del Mr. Hyde del tiranno – violento, crudele, eccessivo – non era poi inevitabile. Accanto a questa tradizione convive imperturbabile il tiranno/Dr. Jekyll: brillante, promotore della cultura, difensore dei diseredati, addirittura saggio, tanto da essere annoverato tra i Sette Sapienti – come accade a Periandro). A testimonianza, tutto questo, di un’indissolubile ambiguità della figura, il nome della quale era, all’inizio, a ben vedere, neutro: tyrannos infatti non è altro che la trasposizione greca del termine orientale seran, che vuol dire semplicemente “signore”.
I tiranni sono degli aristocratici (generalmente, degli outsiders all’interno del loro gruppo) che, approfittando di circostanze favorevoli – tra le quali persino quella di essere... re! Aristotele parla infatti di Fidone di Argo, figura liminare tra storia e leggenda, come di un “re che si fece tiranno”, non contribuendo certo a fare chiarezza sulle origini del fenomeno –, liquidano la concorrenza e instaurano un regime dispotico. Nell’esercitare il potere, si affidano a una ristretta cerchia di familiari e amici; non hanno alcun interesse per gli aspetti costituzionali: quando non le aboliscono, tendono a servirsi delle precedenti strutture di governo (magistrature, consigli, assemblee), dopo averle opportunamente normalizzate con elementi fidati. Curano con attenzione gli aspetti spettacolari del potere: opere pubbliche e forme di mecenatismo, tese a propagarne quanto più lontano possibile il kleos, la fama. Come è facile aspettarsi, quasi sempre mostrano tendenze demagogiche, favorendo i più poveri della comunità, nel tentativo di puntellare il proprio potere, per definizione precario.
Il tentativo di trovare una base sociale a un fenomeno tanto sfuggente (ogni tiranno ha la sua storia, senza contare che le fonti sono quasi sempre insufficienti a formare un quadro coerente, mentre perlopiù tendono a ripetere cliché consolidati) ha fatto intravedere ad alcuni un legame fra i tiranni e la più o meno contemporanea riforma oplitica e, attraverso questa strada, fra i tiranni e un ceto “medio” che esiste solo nei pensieri di alcuni studiosi, ma non certo nella realtà antica; o anche un legame fra i tiranni e nascenti classi mercantili che, arricchitesi con i commerci, avrebbero mal sopportato l’antico dominio della tradizionale aristocrazia di sangue.
La vera ispirazione di una costruzione tanto temeraria, che nelle sue punte più estreme giunge a far assomigliare la società della polis arcaica a quella dell’Inghilterra dei primi secoli del capitalismo, è una singola frase di Tucidide (I 13): “La Grecia diveniva più potente e accresceva ancor più che per il passato il possesso di ricchezze; allora sorsero un po’ dovunque tirannidi nelle poleis”. È evidente che in piccole comunità rurali, quali erano quelle dell’VIII secolo, la mobilità sociale doveva essere assai limitata, mentre poleis come la popolosa Corinto del VII secolo, aperta agli scambi commerciali grazie alla sua posizione sull’istmo, conobbero tensioni, conflitti, ma anche possibilità di sviluppo ben più notevoli, che le tirannidi cercarono di intercettare. È questo il senso da dare alle parole di Tucidide, e il senso in cui possiamo accettare il legame da lui ipotizzato fra tirannidi e ricchezze.
Ma ci sono pochi dubbi sul fatto che, perlopiù, la tirannide sia il frutto della lotta interna all’aristocrazia. Di tale lotta vediamo l’eco nei frammenti a noi pervenuti di Alceo (Mitilene, fine VII sec. a.C.) e Teognide (Megara, prima metà VI sec. a.C.). Una lotta di straordinaria virulenza, che conosce spesso esiti illegali: è probabile che anche i primi tentativi di porre per scritto le leggi, un fenomeno di grande rilievo in questo periodo, sia il risultato di un conflitto interno all’aristocrazia dominante; le leggi di cui abbiamo notizia si occupano infatti di regolare non tanto ciò che deve e ciò che non deve essere fatto, ma chi deve occuparsi di ciò che deve e non deve essere fatto (Robin Osborne).
Corinto, la polis sull’omonimo istmo, è la più ricca e la più grande del mondo greco nel corso del VII secolo e per una parte del successivo. È qui che, alla metà del VII secolo a.C. (la data tradizionale è il 657) prende il potere Cipselo, dando vita alla tirannide più celebre della Grecia arcaica.
Prima del 650 a.C., da circa un secolo, a Corinto il potere era concentrato nelle mani di un grande clan familiare, i Bacchiadi. Molto grande, se è vero che esso comprendeva ben 200 maschi adulti, quasi una città nella città. I Bacchiadi possedevano gran parte delle terre, detenevano ogni carica, amministravano la giustizia. Praticavano inoltre l’endogamia, ma non erano certo chiusi a ogni innovazione: furono loro infatti a guidare la grande Corinto dell’arte “orientalizzante”, aperta agli influssi esterni, ricca e invidiata dal resto del mondo greco. A testimonianza dei contatti che la Corinto dei Bacchiadi coltivava, ricorderemo che Demarato, padre di Tarquinio, quinto re di Roma, era appunto un Bacchiade trasferitosi in Etruria.
La storia della presa del potere da parte di Cipselo, da cui il nome della dinastia, i Cipselidi, ha un tipico andamento novellistico.
Erodoto
Erodoto racconta la storia di Cipselo
Storie, Libro V, cap. 92
Lo splendido racconto – intessuto di motivi folclorici – non ci dice molto sulle modalità della presa del potere da parte di Cipselo. Ne viene confermata comunque la sua natura di outsider e l’importantissimo ruolo giocato nella vicenda dall’oracolo di Delfi.
A Corinto c’era un’oligarchia e costoro, chiamati Bacchiadi, amministravano la città e si sposavano fra loro. Ad Anfione, che era uno di questi uomini, nacque una figlia zoppa di nome Labda. Poiché nessuno dei Bacchiadi voleva sposarla, la prese in sposa Eezione, figlio di Echecrate, un popolano di Petra, ma di origine lapita e discendente di Ceneo. A costui, né da questa donna, né da altre nascevano figli, e perciò partì per Delfi per interrogare l’oracolo sulla prole. E a lui che entrava, la Pizia si rivolge subito con queste precise parole: Eezione, nessuno onora te, o degno di molto onore; un leone Labda ha nel ventre ma lo partorirà come un macigno precipite. Poi si abbatterà sugli uomini che regnano da soli e punirà Corinto.
Questo vaticinio dato a Eezione viene per caso riferito ai Bacchiadi […] Questi se ne stavano tranquilli, avendo l’intenzione di far morire il figlio che sarebbe nato a Eezione. Appena la donna partorì, mandano dieci di loro al villaggio in cui Eezione abitava per uccidere il bambino. Giunti a Petra ed entrati nell’atrio della casa di Eezione, chiedevano del bambino e Labda, che non sapeva affatto per quale ragione quelli si trovassero lì, lo consegnava nelle mani di uno di essi. Tra loro era stato deciso, lungo la strada, che il primo che avesse preso il bambino lo avrebbe gettato per terra. Appena Labda lo portò e lo consegnò, il bambino, per divina sorte, sorrise all’uomo che lo aveva preso, e un sentimento di pietà impedì a quest’ultimo di ucciderlo; impietosito, lo passa al secondo, e questo al terzo; e così tutti e dieci se lo passarono di mano, senza che nessuno osasse compiere il lavoro. Perciò, restituendo indietro il bambino alla madre e usciti fuori, si accusavano l’un l’altro […]; passato del tempo, pensarono bene di ritornare e partecipare tutti all’uccisione.
Ma era destino che dal figlio di Labda derivassero sciagure per Corinto. Labda, infatti, stando presso la porta, udì tutto; lo prende e lo nasconde nel luogo che le pareva più impensabile, e cioè in un’arnia, ben sapendo che, se fossero tornati indietro per cercarlo, avrebbero frugato dappertutto, come di fatto avvenne […].
Dopo tali episodi, il figlio di Eezione cresceva e, dato che era sfuggito al pericolo grazie a un’arnia (kupsele), gli fu posto il nome di Cipselo. Quando Cipselo divenne adulto e interrogò l’oracolo, gli venne dato a Delfi un responso favorevole, confidando nel quale assalì e prese Corinto (trad. G. Nenci).
Erodoto, Storie, trad. it. di A. Izzo d’Accinni, Milano, BUR
Il pattern del futuro “eroe” salvato per caso e allevato presso persone di umili origini è diffusissimo e si perde nella notte dei tempi (l’origine è, probabilmente, mesopotamica); viene impiegato ove si voglia introdurre l’arrivo in una comunità di un outsider destinato a grandi imprese, che sia Sargon, Romolo o Mosè. Come si debba interpretare la conquista del potere da parte di Cipselo, non è chiaro. L’ipotesi più semplice punta nella direzione di una variante della sempre presente lotta tra famiglie aristocratiche, con lo sfruttamento da parte del futuro tiranno di una posizione favorevole (per esempio, quella di polemarco, vale a dire di comandante militare) per prendere il potere con un colpo di stato: vicende simili sarebbero poi state rivisitate romanzescamente dalla leggenda.
Alla morte di Cipselo, il potere fu trasmesso senza opposizione di sorta al figlio Periandro, vera e propria ipostasi dell’ambiguità del tiranno. Personaggio eccessivo nel bene e nel male, la realtà storica della sua figura è definitivamente perduta in un’orgia di aneddoti più o meno insensati. Alla morte di Periandro, il potere passa nelle mani del nipote di questi, Psammetico (un nome egiziano, che quanto meno testimonia dei rapporti internazionali intrattenuti dai Cipselidi). Dopo circa tre anni, però, Corinto torna a un governo costituzionale, un’aristocrazia di stampo moderato che l’avrebbe contraddistinta ancora per lungo tempo.
Gran parte delle poleis conosce un periodo in cui viene governata da tiranni, anche se le testimonianze sono quasi sempre assai scarse. La tradizione è decisa su questo dato: solamente Sparta e l’isola di Egina sarebbero state prive di un’esperienza tirannica nella loro storia arcaica e classica. Le principali tirannidi di cui è rimasta traccia, oltre a quella di Corinto, sono il dominio degli Ortagoridi a Sicione (650-550 a.C. ca.), incentrato sulla debordante figura di Clistene, nonno del più noto Clistene di Atene, al padre del quale aveva concesso in moglie la figlia Agariste; la tirannide di Teagene a Megara (640-620 a.C. ca.), con connotati particolarmente antiaristocratici (il tiranno prende il potere sterminando le greggi dei suoi pari). Altre famose tirannidi sorgono in Asia Minore e nelle isole: si ricorderanno per esempio la lotta politica a Mitilene, nell’isola di Lesbo, il cui esito è la tirannide di Pittaco (che va considerato più correttamente un esimneta, vale a dire un “tiranno elettivo”, che la polis nomina per venire a capo della lotta tra fazioni).
Erodoto
Erodoto racconta le nozze di Agariste
Storie, Libro VI
Le nozze di Clistene (collocabili intorno al 570 a.C.) sono il trionfo dell’aristocrazia arcaica: un network internazionale, in cui i confini stessi della polis perdono d’importanza e all’interno del quale, invece, vale la condivisione di certi valori e, soprattutto, di uno stile di vita lussuoso, incentrato sull’eccellenza fisica. La narrazione – che riprende ben noti motivi folclorici – pur essendo chiaramente orientata per esaltare il genos degli Alcmeonidi, cui appartiene il vincitore Megacle, che prevale soprattutto sull’altro candidato ateniese, Ippoclide, del genos rivale dei Filaidi (quello che sarà poi di Milziade e Cimone), ha qualche probabilità di conservare un nucleo di verità storica.
Quindi, la generazione seguente, Clistene, tiranno di Sicione, elevò la casata al punto che divenne tra i Greci molto più famosa di quanto fosse prima. A Clistene nacque una figlia di nome Agariste e volle che si sposasse dopo aver trovato il migliore di tutti i Greci. Durante le Olimpiadi, Clistene, che vi aveva vinto con la quadriga, fece un bando secondo il quale “chiunque dei Greci si stimasse degno di divenire genero di Clistene andasse a Sicione entro 60 giorni o anche prima, poiché Clistene avrebbe deciso le nozze entro l’anno partendo dal sessantesimo giorno”. Allora quanti tra i Greci erano fieri di sé e della loro patria si presentarono come pretendenti, e per essi Clistene a questo scopo aveva fatto costruire uno stadio e una palestra (segue un elenco di 13 pretendenti che accettarono l’invito, provenienti da ogni parte del mondo greco: Italia meridionale, Grecia settentrionale, Peloponneso, Atene, Eubea). Giunti nel giorno previsto, Clistene dapprima si informò sulle loro patrie e sulla famiglia di ciascuno. Poi, trattenendoli per un anno, ne sperimentò il valore, l’indole, l’educazione e il modo di vivere, sia intrattenendosi con ciascuno singolarmente sia con tutti insieme, portando nelle palestre quanti di loro erano più giovani e mettendoli soprattutto alla prova nei conviti in comune. E fece questo per tutto il tempo che li trattenne e allo stesso tempo li ospitava con magnificenza. […] Clistene, imposto il silenzio, davanti a tutti, pronunciò queste parole: “O pretendenti di mia figlia, io vi lodo tutti quanti e a tutti, se fosse possibile, vorrei fare cosa gradita, senza scegliere uno di voi in particolare e senza rimandare a casa gli altri. Ma poiché non è possibile a chi deve decidere su una sola fanciulla venire incontro al desiderio di tutti, a quelli di voi che sono privati di queste nozze dò in dono a ciascuno un talento d’argento per l’onore che mi ha fatto di voler sposare mia figlia e per essersi allontanato da casa. A Megacle, figlio di Alcmeone, dò in sposa mia figlia Agariste secondo le leggi degli Ateniesi”. E poiché Megacle dichiarò di accettarla, Clistene concluse le nozze. Questo avvenne per la scelta dei pretendenti e così gli Alcmeonidi divennero famosi per tutta la Grecia. Da queste nozze nacque Clistene che, portando il nome dell’avo materno di Sicione, istituì per gli Ateniesi le tribù e la democrazia (trad. G. Nenci).
Erodoto, Storie, trad. it. di A. Izzo d’Accinni, Milano, BUR
Qualche decennio dopo, nella grande isola di Samo, prende il potere Policrate, personaggio di eccezionale statura, in grado di realizzare una sorta di talassocrazia nel mar Egeo, ma non di dare continuità dinastica al suo dominio. Policrate sfrutta la posizione geografica di Samo per porsi al centro delle relazioni tra Oriente e Occidente: intrattiene infatti frequenti e fruttuose relazioni con l’impero persiano e con l’Egitto. Straordinaria anche l’attività edilizia che egli promuove nell’isola, di cui abbiamo conferme archeologiche. Poco chiara, invece, la base sociale del suo potere: sicuro è solo che Policrate entra in conflitto con parte dell’aristocrazia samia, il cui esponente più celebre, Pitagora, preferisce in quegli anni recarsi in esilio nell’Italia meridionale.