Il modello anomalo: Atene e la polis democratica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La democrazia ateniese, che si realizza pienamente tra il 461 e il 322 a.C., ha un’importanza centrale nella storia. Nonostante i limiti che si possono segnalare (esclusione di donne, stranieri, schiavi, leadership di grandi aristocratici come Pericle, estrema aggressività e forte propensione alla guerra in politica estera), rimane comunque un’esperienza assolutamente eccezionale, nella quale un numero straordinario di cittadini anche di bassa estrazione è coinvolto, si può dire quotidianamente, nell’amministrazione della propria comunità, cui dedica uno spazio importante della propria vita, con grande dedizione e passione. A questo si giunge attraverso alcune innovazioni decisive, quali il sorteggio e la retribuzione delle cariche pubbliche
Chiedersi se con Clistene nasca la democrazia è una domanda un po’ oziosa. Sì, secondo i solerti organizzatori di iniziative e convegni che, nel 1992, ne celebrarono i 2500 anni. No, tranne poche eccezioni, secondo gli antichi, che dimenticano presto Clistene (il quale, dopo il 508 a.C., scompare dalle fonti, come inghiottito nel nulla) e, per individuare i padri fondatori, si volgono o più indietro (Solone) o più avanti (Efialte e Pericle).
No, infine, anche secondo la verisimiglianza storica. Clistene mantiene in vita, con un ruolo di fondamentale importanza, quello strumento principe del controllo aristocratico sulla vita politica che è l’Areopago, il consiglio di anziani formato dagli ex arconti; più in generale, il percorso di formazione del “modello anomalo” è un processo complesso, che si realizza per fasi, nel tempo. Difficile dunque stabilire un momento preciso dopo il quale si possa parlare di demokratia (“dominio”, kratos, del demos: un termine che, in origine, rivela, come ha notato Luciano Canfora, il carattere violento e liberticida del governo popolare): il più plausibile è il 461 a.C., anno nel quale le riforme di Efialte e Pericle esautorano l’Areopago di gran parte dei suoi poteri, riducendo formalmente le capacità di controllo dell’aristocrazia sulla cosa pubblica. Ma altri passi restano da compiere: per citarne uno solo, la retribuzione delle cariche pubbliche sarà realizzata completamente solo un paio di generazioni dopo.
Ad Atene viene adottato un modello compiuto tra il 461 e il 322 a.C., con due soli, brevi intervalli. Non si tratta di un modello uscito già perfettamente formato dalla testa di Zeus, come sua figlia Atena, che della città era la protettrice: nel corso di quei 150 anni circa, vi sono infatti varie trasformazioni e adattamenti, in particolare nel periodo storico che si inaugura dopo la fine della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.).
“Atene, che già prima era grande, divenne ancora più grande, da quando si era liberata dai tiranni”, afferma Erodoto, stupito della crescita straordinaria, in dimensioni e potere, dell’Atene del suo tempo. In effetti, la città diventa di gran lunga la più grande del Mediterraneo: i suoi cittadini maschi sopra i 18 anni, dai (forse) 20 mila al tempo di Pisistrato ai 30 mila durante le guerre persiane, sono cresciuti fino a circa 60 mila alla vigilia della guerra del Peloponneso.
I Greci contavano solo i maschi adulti; se volessimo abbozzare un confronto con una città moderna, dovremmo aggiungere altrettante donne e un numero considerevole di bambini e ragazzi, che nella struttura demografica delle città premoderne sono in numero molto maggiore che non oggi. Ma non basta: Atene ospita anche molti stranieri (quelli con residenza fissa sono chiamati meteci, pagano una tassa speciale, hanno molti doveri e pochi diritti, non potendo possedere terre e case e avendo bisogno di un cittadino ateniese che li tuteli e rappresenti quando necessario; ma le possibilità offerte dalla polis sono così vantaggiose che, almeno fino al 431 a.C., essi non fanno che aumentare), forse circa 15-20 mila maschi adulti nel momento di maggiore sviluppo della città (tradizionalmente fissato al 431 a.C., l’anno in cui scoppia la guerra del Peloponneso) e, infine, un numero non precisabile, ma sicuramente non inferiore a 100-150 mila, di schiavi (il numero degli schiavi ad Atene è oggetto di infinite discussioni sulle quali non è il caso di soffermarsi: tra 20 mila e 400 mila sono state proposte quasi tutte le cifre intermedie...).
Complessivamente, da un minimo di 300 mila a un massimo di 500 mila esseri umani, dei quali, come abbiamo visto, forse un terzo, più probabilmente una metà circa – affollandosi stranieri e schiavi in maggior misura nella zona del porto e delle attività produttive – vivono nella città vera e propria, costituita dai due poli di Atene e del suo porto, il Pireo, gli altri, sparsi in centinaia di insediamenti dell’Attica, una penisola collinosa e montagnosa, dotata di poche pianure, dove migliaia di piccoli e medi proprietari terrieri si dedicano in particolare alla coltura della vite e dell’olivo.
All’estremità meridionale dell’Attica, a quasi 50 km da Atene, si trova la zona del monte Laurio, la più importante dal punto di vista economico, per la presenza di preziose miniere di piombo argentifero, sicuramente la più grande risorsa di una terra complessivamente povera.
Un primo dato su cui riflettere, un dato che – tutto sommato ingiustamente – è stato nei secoli utilizzato per sminuire l’importanza dell’esperimento democratico ateniese: esso, a ben guardare, riguarda una minoranza esigua del complesso della popolazione. Ne sono esclusi, oltre agli stranieri residenti, le donne e i numerosissimi schiavi. Non solo: con una legge del 451 a.C. Pericle limita il diritto di cittadinanza a quanti abbiano non solo il padre, ma anche la madre di origine ateniese: una restrizione non da poco, nonostante le oggettive difficoltà per stabilire con sicurezza i requisiti necessari. Abbiamo detto che sminuire l’importanza dell’esperimento sulla base di questi dati è ingiusto, per molti motivi: per esempio, le donne dovranno aspettare quasi 2500 anni per accedere ai
pieni diritti e sarebbe ingeneroso, oltre che stupido, mettere in conto agli Ateniesi questa mancanza; in generale, ogni realizzazione deve essere giudicata con gli standard dell’epoca, e in quest’ottica il tentativo ateniese è rivoluzionario. Ma è vero, e va sottolineato, che la democrazia ateniese ha anch’essa alla sua base il principio dell’inclusione/esclusione. Fare parte della cittadinanza è, con qualunque regime, partecipare di un privilegio. E, da che mondo è mondo, chi detiene dei privilegi cerca di limitare quanto più possibile l’accesso al club dei privilegiati.
I principi fondamentali sui quali si basa il modello democratico ateniese sono quattro: 1) uguaglianza, 2) sorteggio, 3) retribuzione, 4) partecipazione. Ognuno di essi merita una breve discussione.
1) In linea di massima, tutti i cittadini ateniesi, qualunque fossero la loro origine familiare e il loro reddito, detengono gli stessi diritti e hanno gli stessi doveri nei confronti della comunità. Nel “manifesto” della democrazia che Tucidide fa recitare a Pericle nel discorso di commemorazione dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso, il grande statista esplicita questo fondamentale punto: “Se in base alle leggi tutti godono di una condizione di parità nelle dispute private, per ciò che riguarda la reputazione individuale si viene preferiti per la cura degli affari pubblici, in base al credito di cui ciascuno gode in qualche campo, non in virtù di un diritto di partecipazione in misura maggiore che per la propria eccellenza; e neppure chi è povero, se è in grado di rendere buoni servigi alla città, si trova impedito dall’oscurità del suo rango” (II 37.1, trad. Ugo Fantasia). Esistono delle eccezioni, legate al permanere – per lungo tempo, ma con un’incidenza sulla vita comunitaria sempre meno rilevante – delle classi censitarie soloniane, che impediscono ai più poveri l’accesso a poche cariche pubbliche. Non mancano – ovviamente – eccezioni nella pratica, per cui gli esponenti più ricchi e più nobili della società mantengono a lungo il controllo delle cariche più importanti; ma è comunque importante notare come nei luoghi fondamentali della democrazia – l’assemblea, il consiglio e i tribunali – la completa parità fra tutti i cittadini sia un dato di fatto non formale.
2) Tutte le cariche pubbliche vengono in linea di massima attribuite per sorteggio, tanto che tale forma di selezione diviene un vero e proprio marchio di fabbrica della democrazia, con relative critiche (“chi vorrebbe scegliere il proprio medico per sorteggio?”). Due limitazioni: in primo luogo, il sorteggio viene sempre effettuato tra volontari e, a volte, può essere solo formale per scarsità di candidati (ciò avviene specialmente per quanto riguarda i rappresentanti dei demi più lontani e sperduti al Consiglio dei Cinquecento, che comporta per un intero anno un impegno gravoso); secondariamente, gli Ateniesi si rendono conto che esistono incarichi per i quali non è possibile prescindere da un giudizio sulle capacità dei candidati e sulla fiducia che ispirano: per alcune cariche, dunque, in primo luogo per i 10 strateghi annuali e per alcuni incarichi di natura finanziaria, si mantiene l’elezione per alzata di mano da parte dell’assemblea.
3) Quello relativo alla retribuzione delle cariche pubbliche è uno dei punti più delicati, e anche quello che suscita la riprovazione più diffusa negli avversari della democrazia. Alla base della società greca tradizionale, infatti, vi è il concetto che la cura della cosa pubblica, la politica, sia un’attività superiore, cui possono dedicarsi le persone in possesso del necessario tempo libero; in altre parole, che non siano costrette a lavorare per vivere. Ma, come in ogni società di qualsiasi epoca, la stragrande maggioranza delle persone che vive ad Atene è, in effetti, costretta a lavorare per guadagnarsi il pane, e spesso l’attività lavorativa, che sia l’agricoltura, o un’attività artigianale, o il commercio, occupa gran parte della giornata.
Qualsiasi diritto di partecipazione ai processi decisionali riguardanti la comunità sarebbe rimasto lettera morta, se la grande maggioranza degli interessati non avesse avuto la possibilità di partecipare. Ed ecco la soluzione, che Pericle introduce inizialmente per i giurati dei tribunali e viene estesa progressivamente alle cariche pubbliche e ai membri del Consiglio dei Cinquecento: gratificare l’impegno pubblico con un gettone di presenza, corrispondente grosso modo al modesto compenso di un lavoratore salariato non specializzato. Sul finire del V secolo addirittura viene introdotto il misthos ekklesiastikos, la retribuzione per la semplice partecipazione all’assemblea generale di tutti i cittadini.
4) L’ultimo punto è legato al precedente. Se ogni sistema politico adottato nelle poleis presuppone una diretta partecipazione dei politai, per quanto riguarda Atene colpisce il numero delle persone coinvolte; molti studiosi hanno altresì sottolineato la particolare passione con la quale molti ateniesi si dedicano alla politica, alla partecipazione attiva al funzionamento quotidiano della macchina statale (Christian Meier). Tale dedizione è stata paragonata agli ormai scomparsi attivisti di partito dei primi decenni del dopoguerra (Paul Veyne).
Tutto vero, ma dobbiamo ricordare che esistono anche molti “quiet Athenians” (L.B. Carter) che non hanno alcuna voglia di partecipare al grande gioco pubblico e coltivano una sorta di disgusto per i luoghi della politica, privilegiando l’apragmosyne, il disimpegno, come una virtù. Difficile, anzi impossibile fornire statistiche, ma possiamo affermare con sicurezza che i secondi, gli ateniesi tranquilli, sono in netta maggioranza. Lo possiamo affermare, per esempio, facendo notare come i partecipanti all’assemblea – prima dell’introduzione del misthos ekklesiastikos – raramente raggiungessero il numero di 6000, richiesto come quorum in varie circostanze. 6000 cittadini, lo ricordiamo, non erano che il 10 percento della popolazione maschile adulta, al momento del massimo sviluppo della città. Ma non esiste forza al mondo – crediamo – capace di convincere un contadino di Maratona o del Laurio a svegliarsi alle tre di notte per compiere un tragitto di 40-50 km in tempo per giungere di prima mattina sulla collina della Pnice, per ascoltare lunghi discorsi su argomenti che lo riguardano in misura modesta. Ciò che semmai è più sorprendente, alla fin fine, è che c’era qualcuno che lo faceva, e neanche pochissimi.
Come qualsiasi testo sottolinea, enfatizzandone forse in modo leggermente eccessivo il ruolo, luogo sovrano del potere democratico è l’assemblea di tutti i cittadini maschi adulti (ekklesia) che, in età classica, si riunisce sulla collina della Pnice, a pochi passi dall’Acropoli, circa 40 volte all’anno.
La riunione dura tutta la mattina, dall’alba a mezzogiorno circa; inizia con il sacrificio rituale di un maiale e si svolge seguendo un ordine del giorno predisposto dal Consiglio dei Cinquecento. Gli argomenti sono i più disparati: la politica estera è l’ambito privilegiato, con la stipula di alleanze e dichiarazioni di guerra, relazioni internazionali, decreti onorifici a favore di benefattori della città; ma non mancano certo temi relativi alla vita cittadina, a partire dall’elezione degli strateghi e di altri funzionari, per arrivare al varo delle leggi (la procedura relativa alla promulgazione delle leggi peraltro si trasforma nel corso del IV secolo). Ogni anno, poi, una sessione dell’assemblea è dedicata a decidere se qualcuno degli ateniesi debba subire l’ostracismo.
Gli oratori si alternano iniziando dai più anziani: è una mera illusione, che può avere solo chi non abbia mai partecipato a un’assemblea pubblica, immaginare che molti oratori sempre diversi si affollino a dire la propria. In realtà, parlare in pubblico (senza microfono!) di fronte a migliaia di persone, a braccio, richiede una notevole disinvoltura e una altrettanto notevole capacità.
Parlare è insomma una techne, un’arte, e gli interventi improvvisati e spontanei sono sicuramente pochissimi. La stragrande maggioranza dei partecipanti si limita ad ascoltare passivamente, a rumoreggiare di tanto in tanto, nonché a votare quando necessario, sempre per alzata di mano; un metodo che favorisce tendenzialmente l’unanimismo.
Dopo l’assemblea, l’organo più importante è il Consiglio dei Cinquecento: ne abbiamo già accennato, definendolo la cinghia di trasmissione tra il centro di Atene e la periferia, vale a dire i numerosi – e a volte lontani – insediamenti dell’Attica. Il Consiglio ha numerose funzioni: fondamentale quella di preparare l’ordine del giorno dell’assemblea, e quindi decidere i tempi e i modi di discussione di ogni argomento. Ha inoltre giurisdizione su pressoché tutte le questioni amministrative che, giorno per giorno, interessano la vita della comunità. Ne fanno parte 50 cittadini per ciascuna tribù, scelti secondo il metodo rappresentativo di ogni demo. Ciascuna tribù esercita, per circa 36 giorni all’anno, a turno, la pritania, vale a dire siede in permanenza con i suoi membri nell’edificio che ospita il Consiglio (il bouleuterion): sono i pritani, o meglio il presidente dei pritani (ne viene eletto uno al giorno, quindi 36 dei 50 esercitano questa carica) a ricevere, per esempio, ospiti illustri provenienti da altre poleis, o sovrani e altre personalità in visita alla città. Qualsiasi comune cittadino sorteggiato ha discrete possibilità di svolgere almeno una volta nella sua vita questo ruolo che, con un pizzico di retorica, possiamo avvicinare a quello del nostro presidente della Repubblica.
A completare il quadro, dobbiamo citare i funzionari pubblici. Ne esistono moltissimi (intorno a 700, almeno nel IV secolo a.C.!), ed esercitano i loro compiti per un anno, riuniti in collegi di 10 membri, uno per ciascuna delle tribù. Tranne le poche cariche cui abbiamo già accennato, i funzionari vengono sorteggiati tra quanti intendano cimentarsi e si occupano di vari settori dell’amministrazione della città. Esistono collegi per la manutenzione delle strade, addetti al mercato, tesorieri dei vari santuari, addetti alle vendite pubbliche, e tanti altri. I funzionari sono tenuti a una verifica molto circostanziata del loro operato alla fine dell’anno, così come sono stati sottoposti a un esame (non molto impegnativo: vengono fatte domande relative, per esempio, al trattamento che il candidato riserva ai genitori, alla sua devozione verso gli dèi, nonché alla sua fedeltà alla democrazia...) al momento dell’accettazione dell’incarico.
Una tale frammentazione, il continuo rinnovamento dei funzionari, “non lavoravano certo in favore dell’efficienza; ma l’efficienza non era il principale obiettivo” (Peter John Rhodes). Comprendere questo significa comprendere uno degli aspetti centrali della mentalità greca, che aborre qualsiasi forma di professionalizzazione. Il sistema possiede comunque una serie di correttivi, che garantiscono un certo grado di scorrevolezza: la relativa semplicità di molti dei compiti, la supervisione del Consiglio dei Cinquecento, l’elezione e non il sorteggio delle cariche più importanti e, last but not least, l’esistenza oscura, raramente rammentata, di grammateis, segretari spesso di condizione schiavile, che mettono a disposizione l’esperienza accumulata nei settori di loro competenza.
Strepsiade, protagonista delle Nuvole (423 a.C.) di Aristofane si rifiuta di credere che quella rappresentata su una carta del mondo sia la sua città, Atene: non vede, infatti, i giudici riuniti a celebrare processi! Il grande poeta comico, profondo conoscitore dei suoi concittadini, ne aveva colto una caratteristica: la mania per i processi, per l’amministrazione della giustizia. Ed è effettivamente impressionante osservare il monte ore che, complessivamente, gli ateniesi dedicano a questa attività ogni anno: difficile fare statistiche e classifiche, ma è certo che ne verrebbe fuori un dato che non ha confronti in alcuna società conosciuta.
Andiamo con ordine. Ogni anno, come sempre da un elenco di volontari (ma almeno in questo caso sappiamo che coloro che si proponevano erano molti di più del numero necessario), vengono sorteggiati 6 mila cittadini, il cui unico requisito è aver compiuto il trentesimo anno di età: questi uomini, effettuato un giuramento, saranno per i successivi 12 mesi i giudici della città. In un numero di giorni quasi incredibile, probabilmente tra i 150 e i 200 ogni anno, dall’alba al tramonto, un buon numero di essi, a seconda delle necessità, esercita questa funzione, recandosi la mattina all’alba in un punto stabilito della piazza principale della città, l’agorà, e lì, con una procedura di sorteggio estremamente complicata – della durata, da sola, di oltre un’ora! – viene assegnato a uno dei tribunali attivi in quel giorno. Il servizio è retribuito; fu anzi il primo, probabilmente, a esserlo.
Il compito di giudice/giurato (la distinzione tra le due funzioni non esiste: non ci sono infatti giudici professionisti che dirigano il dibattito: quest’ultima funzione è demandata a funzionari pubblici, privi di competenze specifiche, che si limitano a mantenere l’ordine) consiste nell’assistere, come membro di una giuria a numero variabile – da 201 a 1001 cittadini, di solito – a uno o più processi (di solito, in una giornata ciascuna giuria ne può evadere almeno tre-quattro), che si esauriscono nell’ascolto dell’arringa dell’accusatore e della controarringa dell’accusa per un tempo prefissato, controllato da una clessidra (di solito, intorno all’ora). Al termine delle arringhe, senza alcuna discussione di alcun genere (in teoria, non è permesso neppure scambiare un’opinione con il vicino!), si procede alla votazione segreta con gettoni predisposti allo scopo, da deporre in un’urna. Se l’accusato risulta colpevole, un’ulteriore sessione, più breve, ascolta le proposte di accusatore e accusato sull’entità della pena da assegnare.
La votazione finale serve a scegliere la pena più opportuna tra le due proposte dagli interessati. L’accusatore che, al processo, non riesca a raggiungere il 20 percento dei voti, è soggetto a punizioni gravi, che possono comportare l’esilio e la perdita dei diritti civili. Questa misura è diretta contro il fenomeno dei sicofanti, accusatori “di professione” che vivono di denunce o, spesso, di ricatti nei confronti di ricchi cittadini minacciati di essere portati in tribunale: inquietante conseguenza del diritto, risalente allo stesso Solone, che ciascun cittadino aveva di effettuare una denuncia anche se non parte in causa.
Non dobbiamo pensare che i tribunali si occupino esclusivamente di processi che rientrerebbero nell’ambito del nostro diritto civile e penale. Molti dibattimenti sono in realtà di natura politica. Spesso infatti vengono istituiti processi contro strateghi e altri funzionari pubblici, nei quali non viene fatta alcuna distinzione tra eventuali reati compiuti (corruzione, truffa, inefficienza) e la semplice manifestazione dell’insoddisfazione da parte degli Ateniesi per il comportamento di un funzionario e per l’esito di una qualsiasi iniziativa (per esempio, una spedizione militare): un aspetto che, in effetti, ripugna alla mentalità giuridica moderna. Inoltre, qualsiasi atto che sia stato deciso in assemblea – e quindi una legge, un decreto, un’onorificenza – può essere impugnato in tribunale; vale a dire, può essere messa sotto accusa la persona che ha promosso l’atto in assemblea. Il tribunale viene così a esercitare un forte controllo sull’assemblea, mentre i suoi atti sono insindacabili, poiché non esiste alcuna forma di appello. Ciò che viene deciso in tribunale, inoltre, è percepito come di livello superiore alle delibere assembleari, sia perché le votazioni vi avvengono a scrutinio segreto e non palese, sia perché i giurati sono vincolati da un giuramento sacro, che invece non è previsto per i partecipanti all’assemblea.
I tribunali, alla cui composizione concorrono, a quanto pare in larga maggioranza, persone anziane delle fasce più povere della cittadinanza (il contrario di quanto avviene, per esempio, per la composizione del Consiglio, nel quale c’è sempre una larga rappresentanza di benestanti), è il luogo per eccellenza della democrazia. Attraverso il suo operato – certamente non rispondente ai canoni di una giustizia “perfetta”, ma quale sistema giuridico lo è? – vediamo realmente realizzarsi il controllo del popolo su tutto quanto viene deliberato da organi che, in qualche misura, possono essere controllati dai cittadini più ricchi e influenti. Forse per questo gli Ateniesi rimasero sempre legati profondamente alle loro corti di giustizia, e vi profusero energie e attenzioni di ogni genere.
Aristofane
Confidenze di un giurato
Vespe
Questo passo di Aristofane, inserito in una commedia (rappresentata nel 422 a.C.) tutta incentrata sull’ironia nei confronti della passione principale degli Ateniesi, la celebrazione dei processi, fa capire, più di ogni analisi, le motivazioni recondite di questa passione: motivazioni non sempre confessabili ma certo molto realistiche.
Bene; subito, sin dal via, mostrerò che il nostro potere non è inferiore a nessuno: Cosa c’è oggi di più felice e beato di un giudice? Chi è più agiato o temuto anche se vecchio? Appena mi metto giù dal letto, uomini importanti, pezzi grossi mi fanno la posta presso i cancelli del tribunale; e quando gli passo accanto subito uno mi tende la mano delicata che ha rubato denaro pubblico. E si inchinano, mi supplicano con voce lacrimosa: “Abbi pietà di me, padre, ti scongiuro, se qualche volta è capitato anche a te di rubare quando hai esercitato una carica pubblica o quando, sotto le armi, andavi a far la spesa per i tuoi commilitoni”. Costui non saprebbe nemmeno che esisto se, qualche tempo prima, non l’avessi... assolto.
[...]
Ma quando sono entrato in tribunale, dopo tante suppliche e dopo che mi è sbollita l’ira, non mantengo, là dentro, nessuna delle promesse fatte; ascolto tutti i loro lamenti per essere assolti. Quali piaggerie non si trova a sentire là un giudice? Alcuni si lamentano della loro miseria e ai guai veri ne aggiungono altri, nella speranza di eguagliare, in un modo o nell’altro, i miei. C’è invece chi dice delle storielle, e chi una favola divertente di Esopo; altri ancora fanno gli spiritosi: così io scoppio a ridere e metto da parte l’ira. E se non ci lasciamo convincere da questi espedienti, allora c’è chi trascina per mano i suoi bambini, femminucce e maschietti. Io sto ad ascoltare; e quelli, a testa bassa, si mettono a... belare; e il padre, tremebondo, mi prega – quasi fossi un dio – di assolverlo; di farlo per loro: “se ti piace la voce di giovenco, abbi pietà della voce di questo giov...inetto”; se invece mi piacciono le troiette, debbo farmi convincere dalla voce della figlia. E allora allentiamo un po’ la nostra ira contro di lui. Non è un grande potere questo? Non è la prova che disprezziamo le ricchezze?
[...]
E se un padre, in punto di morte, ha affidato ad un tale la figlia, sua unica erede, noi mandiamo a quel paese il testamento e il sigillo messovi sopra così pomposamente, e la diamo in moglie a chi ci convince con le suppliche. E di tutto questo non dobbiamo rendere conto a nessuno; e nessun’altra carica ha questo privilegio
[...]
Ma la cosa più bella – quasi me ne dimenticavo – è quando torno a casa col salario: al mio arrivo tutti mi fanno festa per i soldi; e, per prima cosa mia figlia mi lava e profuma i piedi, e si china a baciarmi e, chiamandomi “paparino” con la lingua mi pesca dalla bocca i tre oboli; e la mia mogliettina mi fa le moine: mi porta una focaccia, mi si siede accanto, e insiste: “mangia questo, manda giù quest’altro”... (trad. G. Mastromarco)
È impossibile separare il fenomeno della democrazia ateniese dallo sviluppo imperiale della città nel corso del V secolo a.C. C’è in primo luogo un indiscutibile parallelismo cronologico.
Tra la fine delle guerre persiane (478 a.C.) e l’inizio della guerra del Peloponneso (431 a.C.), un periodo che gli antichi denominarono pentecontetia (che vuol dire semplicemente “periodo di cinquant’anni”), Atene conosce il trentennio di assoluto splendore (461-431 a.C.) passato alla storia come età periclea, un’epoca che coincide con la messa a punto dei meccanismi della democrazia radicale.
Negli stessi anni Atene diventa la città egemone del mondo greco e si pone a capo di un impero che comprende centinaia di poleis della Grecia, dell’Asia Minore e della zona dell’Egeo. Vediamone con ordine le tappe.
Sull’onda della grande vittoria sui Persiani, e con lo scopo ufficiale di continuare la guerra (che formalmente non era terminata), nel 477 a.C., sotto la supervisione di Aristide, viene fondata una lega, che sceglie come sede delle riunioni e di conservazione del tesoro federale l’isola sacra di Delo – da qui il nome lega di Delo, o delio-attica, con cui viene di solito ricordata nei testi moderni. Con sorprendente rapidità, la lega si trasforma nello strumento del dominio ateniese, sotto la guida del figlio di Milziade (550 ca. - 489 a.C.), Cimone. Pochissime poleis sono in grado di fornire le navi per la flotta federale che deve combattere i Persiani; molte scelgono di fornire un phoros, un tributo in denaro, da versarsi annualmente, il cui ammontare ben presto viene stabilito unilateralmente dalle autorità ateniesi, che nel 454 a.C. decidono anche il trasporto del tesoro federale sull’acropoli, di fatto non distinto dalle altre entrate dello stato.
Le tappe dell’aumento della pressione della città imperiale su quelli che presto diviene lecito chiamare, più che alleati, sudditi, sono impressionanti: via via, le città della Lega devono adottare gli stessi pesi e misure, la stessa moneta, si vedono controllata l’attività giudiziaria (con i processi capitali celebrati direttamente ad Atene) e, oltre al pagamento del tributo, di per sé non altissimo, ma soggetto a variazioni decise a seconda delle esigenze degli Ateniesi, devono subire altre vessazioni, tra cui, in alcuni casi, lo stabilirsi di coloni ateniesi sulle loro terre.
A ciò si aggiungerà un “indirizzo” politico da parte della città egemone, che privilegia – e non potrebbe essere diversamente – lo stabilirsi di regimi democratici (anche se tale esigenza non è considerata prioritaria); infine, l’aspetto forse più inquietante: l’assoluta impossibilità di defezionare dalla Lega, pena l’immediato intervento militare ateniese. È così che, dopo assedi più o meno lunghi, cadono le isole di Nasso (465 a.C.), Taso (463 a.C.) e Samo (439 a.C.).
In tale contesto, continua anche, e con successo, la guerra contro i Persiani. Ciò che colpisce è l’estrema aggressività militare della democrazia ateniese. Un’iscrizione giunta fino a noi, datata all’anno 459 a.C., certifica che una delle 10 tribù ateniesi ebbe, in quell’anno, caduti su ben sei fronti di guerra, sparsi un po’ in tutto il Mediterraneo. Dobbiamo rassegnarci: lo splendore dell’età periclea ha un contrappeso in un imperialismo violento, aggressivo e cinico. Sentiamo ancora Pericle (o meglio, il Pericle di Tucidide), la cui oratoria sublime nobilita anche ciò che di nobile ha poco: “Quello di essere detestati e di riuscire odiosi nell’immediato è destino comune di tutti coloro che hanno preteso di imporre il loro dominio sui loro simili; ma chi incorre nell’impopolarità mirando agli obiettivi più elevati segue una saggia politica. L’odio, infatti, non resiste a lungo, mentre lo splendore del momento presente e la gloria per l’avvenire rimangono immortali nel ricordo” (II 64.5, trad. Ugo Fantasia). Lungimirante, di sicuro. Nessuno in effetti contestava la legittimità dell’impero, ma c’è di più: il secondo era funzione del primo. Innanzi tutto, per una banale motivazione economica: la democrazia radicale costava, e costava moltissimo, se la inseriamo nel contesto delle poleis greche, i cui bilanci erano molto modesti.
L’impero, con le risorse che consentiva di far convergere ad Atene, era sostanzialmente l’unica soluzione, come le grandi difficoltà del IV secolo dimostreranno.
Di nobilissime origini (Santippo, il padre, apparteneva all’antica famiglia dei Bugizi; Agariste, la madre, era un’Alcmeonide), eccezionale oratore, raffinato, affascinante, anticonformista (il suo rapporto con Aspasia, etera, amante, primo consigliere, la prima donna della storia a baciare il suo uomo per salutarlo mentre esce di casa per “andare al lavoro”, ha fatto epoca), Pericle domina la vita politica ateniese per oltre trent’anni, fino alla morte, a oltre 60 anni, nel 429 a.C. La sua leadership fu così indiscussa e ingombrante da ispirare il celebre giudizio di Tucidide (II 65.9), che certo ne era un grande ammiratore: ““Di nome era una democrazia, di fatto però il potere era nelle mani del primo cittadino”.
Pericle ha costituito una insperata quadratura del cerchio per tanti studiosi di stampo conservatore, fornendo una risposta allo sconfortato quesito: come è possibile che qualche migliaio di contadini e piccoli artigiani abbiano creato un impero e costruito l’acropoli? Ed ecco la risposta: la democrazia avrebbe funzionato grazie alla sua tutela, mentre tutto sarebbe crollato alla sua morte, quando i demagoghi di estrazione popolare prendono il potere, portando Atene a una sconfitta “impossibile”, vista la sua superiorità economica, demografica e militare nei confronti di Sparta.
Si tratta di un giudizio ingeneroso. Vero è che Pericle rappresenta solamente il caso più eclatante – e più fortunato – di uno schema ben conosciuto e certo non limitato alla Grecia antica, in virtù del quale il popolo viene guidato nelle sue conquiste da persone non di estrazione popolare e che gli studi e l’educazione ricevuta hanno messo in grado di esercitare la necessaria leadership.
In effetti, i prostatai tou demou, i “capi-popolo” sono, nella storia greca, di solito, aristocratici votati alla causa. Limitandoci ad Atene, vediamo come questa regola sia priva di eccezioni fino alla morte di Pericle: sono esponenti delle più nobili famiglie ateniesi Milziade e il figlio Cimone, Aristide, Temistocle, lo stesso Pericle, così come in seguito lo sarà almeno Alcibiade.
Ma le realizzazioni della democrazia ateniese non debbono essere cancellate in modo così banale.
Migliaia di uomini di umile estrazione, senza alcuna competenza specifica, per la prima volta nella storia, hanno dedicato una parte non trascurabile del loro tempo alla comunità, l’hanno sentita propria, l’hanno amata, l’hanno resa grande. In certe occasioni sono riusciti effettivamente ad annullare le secolari, immense differenze tra loro e un nobile che vantava degli dèi tra gli antenati.
Certo, nel fare questo hanno commesso molti errori e ingiustizie, e hanno prevaricato con violenza altri popoli; a volte si sono persi in vicoli pericolosi e terribili, come quando hanno pensato che il popolo riunito avesse comunque ragione e si potesse porre impunemente al di sopra delle leggi; ma la strada maestra che hanno tracciato è una strada di enorme importanza nella storia dell’umanità, che non può essere identificata con una sola persona, non foss’altro perché si tratta di un’esperienza che continuerà, con immutata passione, per più di un secolo dopo la sua morte.
La democrazia ateniese appare per lungo tempo solidissima, e gli aristocratici ricavano essi stessi vantaggi dall’impero. Solamente in seguito alle difficoltà seguite al rovescio in Sicilia viene realizzato un colpo di stato oligarchico, che si esaurisce dopo pochi mesi con il pieno ripristino della democrazia. Persino il regime dei Trenta Tiranni, appoggiato dagli Spartani dopo la fine della guerra del Peloponneso, ha breve vita: l’attaccamento degli Ateniesi al “loro” regime democratico si rivela ancora una volta troppo forte.
A eccezione di quanti vi sono costretti, in quanto colpiti da ostracismo o da altri provvedimenti decisi dal popolo, non sono molti gli aristocratici ateniesi che scelgono di allontanarsi dalla città durante il lungo periodo della democrazia radicale. Non solo gli aristocratici, in verità, ma chiunque detenga un certo censo vede nel dominio del “popolino” un tipo di governo non tanto sbagliato, quanto folle, quasi una offesa alle leggi di natura: “Il governo democratico lo conosciamo bene... e io potrei non essere secondo a nessuno in questa conoscenza, per come e quanto potrei insultarlo! ma a proposito di una follia su cui c’è pieno accordo, non potremmo dire nulla di nuovo” (VI 89, trad. Aldo Corcella).
Queste sono le parole che Tucidide fa pronunciare ad Alcibiade al suo arrivo a Sparta, di fronte agli efori e alle altre autorità. Il motivo per cui, dunque, pochi scelgono di abbandonare la patria, risiede nel fatto che i successi del governo democratico e il dominio imperiale di Atene garantiscono anche ai ricchi dei vantaggi non da poco: possono infatti godersi le loro proprietà senza dover sovvenzionare in alcun modo gli sforzi militari della polis (i proventi dell’impero sono più che sufficienti per questo), senza contare le infinite occasioni che vivere in una città così potente garantisce per incrementare la propria ricchezza. Si viene così realizzando una sorta di concordia ordinum, grazie a cui ad Atene non si verifica, per quanto ne sappiamo, alcun tentativo di rivolta oligarchica nel primo secolo della democrazia.
Certo, non tutti i ricchi aristocratici si comportano allo stesso modo: c’è chi, pur non allontanandosi da Atene, vive in una sorta di esilio all’interno della città. È questo, per esempio, il caso di Antifonte, “un uomo che fra gli Ateniesi del suo tempo non era secondo a nessuno per statura morale, il più profondo nel concepire pensieri come nell’esprimerli; non si prestava volentieri a parlare in assemblea né in alcuna altra sede di dibattiti...” (VIII 68, trad. Mariella Cagnetta); Antifonte, dunque, nelle parole di Tucidide, evita di frequentare i luoghi della politica ateniese; ma non perché sia incapace di parlare – anzi, Tucidide lo definisce eccellente oratore; ma, probabilmente, per completa sfiducia nei confronti dei meccanismi decisionali della città, in mano come sono al popolo. Antifonte si fa dunque “invisibile” ai suoi concittadini ed esercita la sua influenza all’interno delle eterie aristocratiche (dove, occasionalmente, è possibile circolassero pamphlet quali la splendida Costituzione degli Ateniesi del cosiddetto Vecchio Oligarca).
Altri, molti altri all’apparenza (ma sono, evidentemente, i più visibili, e dunque non ci azzardiamo a proporre statistiche), scelgono invece un’aperta collaborazione con il demos, cercando di orientarne le decisioni; Pericle e Alcibiade non sono che i casi più famosi. Valutarne la “buona fede” è un esercizio che porta poco lontano: la posta in palio è molto alta, poiché essere un uomo politico di grande influenza ad Atene significa ricoprire un ruolo che ha pochi o nessun eguale nel mondo di allora.
In generale, possiamo affermare (John Kenyon Davies) che gli Ateniesi mostrarono sempre una grande predisposizione ad affidare la direzione dei loro affari a cittadini ricchi, spesso molto ricchi. Non necessariamente di nobili origini (questa tendenza termina sostanzialmente con Alcibiade), ma comunque assai benestanti.
Il patto silenzioso tra classi superiori e popolo si rompe al momento in cui le vicende della guerra minacciano l’impero e quindi la rendita di posizione dei ricchi. Il disastro in Sicilia (415-413 a.C.), seguito dall’occupazione della fortezza di Decelea, segna il momento della rottura. In una città impaurita, delusa, incerta sul da farsi, mentre le eterie aristocratiche si danno un gran daffare, viene improvvisamente a mancare quello che era il cemento stesso della democrazia: la fiducia reciproca dei cittadini. Tutti parlano di complotti contro la democrazia, qualche personaggio scomodo viene fatto sparire, la massa immagina che il numero dei congiurati sia molto più alto di quanto in realtà non fosse: quello che ci descrive Tucidide è il sottile instaurarsi di un vero e proprio clima di terrore. E così, in un giorno di maggio del 411 a.C., avviene qualcosa che solo tale clima può riuscire a spiegare: l’assemblea del popolo “si suicida”, riunendosi e votando all’unanimità la propria abolizione! Il potere passa a un Consiglio di soli Quattrocento uomini, scelti per cooptazione (secondo un rapido sistema, per cui cinque uomini designati ne sceglievano 100, essi stessi compresi, e ciascuno dei 100 ne sceglieva altri tre), che cacciano il Consiglio dei Cinquecento dalla sua sede e si mettono a governare, liberandosi in maniera spiccia di un certo numero di avversari (non molti, a quanto pare). Ovviamente, non si sente più parlare di retribuzione delle cariche pubbliche, né di sorteggio. Tra gli uomini più in vista, oltre ad Antifonte, di cui abbiamo già detto, e che forse costituisce la mente dell’operazione, ci sono Pisandro, Frinico, Teramene. Quest’ultimo – vera e propria incarnazione del politico che si barcamena, cercando di mantenere la barra più o meno al centro – lo ritroveremo protagonista anche nelle vicende successive.
La situazione, in realtà, non è affatto chiara. Non è chiaro, per esempio, che cosa il nuovo governo intenda decidere riguardo alla guerra e ai rapporti con Sparta; non è chiaro quale regime si voglia imporre ad Atene dopo l’emergenza: si parla spesso, in quei mesi, di una costituzione che avrebbe concesso i pieni diritti a 5000 ateniesi, un numero non esiguo, che configurerebbe, grosso modo, l’instaurarsi di una democrazia moderata, ma tale lista non sarà in effetti mai compilata; soprattutto, poi, non è chiaro quanto solida sia la posizione dei congiurati, soprattutto in relazione alla circostanza che una discreta parte della cittadinanza ateniese si trova in quel momento a Samo, là dove è stanziata la grande flotta della città, insieme a numerosi strateghi di rilievo, come Trasibulo e Trasilo: è qui che si coagula l’opposizione più decisa al colpo di stato.
Infine, non è chiaro neppure il rapporto dei congiurati con il convitato di pietra di tutta la vicenda, Alcibiade, dedito a un gioco di impressionante complicatezza tra il satrapo Tissaferne, che cerca ora di trarre dalla parte ateniese, i congiurati ad Atene, che a quanto pare aveva inizialmente incitato ad agire, e la flotta a Samo, a cui manda continuamente segnali per proporsi come deus ex machina al fine di ripristinare la democrazia.
La scarsa leggibilità della situazione, oltre che dai doppi e tripli giochi connaturati a personaggi come Alcibiade, nasce in realtà dal fatto che quelli che chiamiamo per brevità “congiurati” non sono affatto uniti. Al loro interno vi sono rappresentati gli “estremisti”, fautori di un governo oligarchico molto ristretto e di una pace con Sparta, che avrebbe di fatto segnato l’ingresso di Atene nell’orbita politica della rivale; ma vi sono anche i fautori di una democrazia moderata – appunto quella dei Cinquemila –, contrari a ogni accordo non paritario con Sparta e inclini in genere a evitare una contrapposizione troppo netta con il demos.
Nel giro di pochi mesi, comunque, si renderà evidente la debolezza dei congiurati. Mentre a Samo Trasibulo richiama Alcibiade, nominandolo stratego e segnando così il suo ritorno “ufficiale” tra i democratici, ed entrambi faticano a trattenere la flotta dal fare rotta verso Atene, un atto che avrebbe dato vita a una vera e propria guerra civile e avrebbe lasciato l’Egeo nelle mani della flotta spartana; ad Atene il governo dei Quattrocento cade per discordie interne dopo soli quattro mesi, in settembre: la perdita nel frattempo dell’isola di Eubea, assai grave per gli Ateniesi, non fa che affrettare la caduta. Segue un governo che potremmo chiamare “di transizione”, guidato sostanzialmente da Teramene: in corrispondenza con la vittoria nella battaglia navale di Cizico, nel marzo del 410 a.C., gli Ateniesi, ormai liberi dalle paure che li attanagliavano, restaurano la piena democrazia, lasciandosi alle spalle un periodo oscuro, la cui durata non era però stata superiore a circa 10 mesi.
Passano altri sei anni, durante i quali la città si prende il lusso di rifiutare offerte di pace da parte di Sparta e di condannare a morte strateghi brillantemente vittoriosi; nella primavera del 404 a.C., un’Atene affamata e disperata si arrende a Lisandro. Il trattato di pace non prevede esplicitamente quale costituzione avrebbe dovuto darsi la città; nondimeno l’abbandono del regime democratico è nella logica delle cose. Vengono nominati 30 cittadini, incaricati di redigere una nuova costituzione; tra di essi, troviamo di nuovo Teramene e, soprattutto, Crizia, grande intellettuale, allievo di Socrate e zio di Platone. I Trenta (che la tradizione successiva indicherà come Trenta Tiranni), al potere dalla tarda primavera del 404 a.C., si limitano a stilare una lista di 3000 cittadini che avrebbero goduto dei pieni diritti civili. Tutti gli altri sono alla mercé di un governo arbitrario, violento e crudele, che nel giro di pochi mesi manda a morte, a quanto pare, ben 1500 persone, con lo scopo primario di impadronirsi dei loro beni. Di questo regime di terrore fa le spese lo stesso Teramene, che riscatta con una morte di grande eleganza una vita politica non priva di ambiguità. La reazione democratica non tarda a manifestarsi. Trasibulo, che abbiamo già incontrato nel 411 a.C., proveniente da Tebe, dove si era rifugiato, occupa con 70 compagni la fortezza di File. Da lì scende fino al Pireo, ingrossando via via le fila del suo esercito improvvisato. In una battaglia avvenuta probabilmente nel dicembre dello stesso 404 a.C. (o al più, nel febbraio successivo), trova la morte lo stesso Crizia. È di fatto la fine del regime; viene nominata in tutta fretta una nuova commissione di 10 cittadini, tratti dagli oligarchi più moderati, che gestiscono una nuova fase, nella quale il ruolo più importante è rivestito, come del resto era inevitabile, da Sparta. Mentre Lisandro intende supportare ulteriormente i fautori di un regime oligarchico estremo, di cui Crizia era stato il principale rappresentante, il re Pausania giunge da Sparta con un esercito e impone un compromesso favorevole ai democratici, ai quali viene di nuovo affidata la città (settembre 403 a.C.). In cambio essi si impegnano a rispettare una larga amnistia nei confronti di quanti si fossero resi colpevoli di reati nel corso di quei mesi terribili (vengono esclusi dall’amnistia solo i Trenta e i Dieci). Inoltre, agli oligarchi che lo desiderino è consentito rifugiarsi nella vicina Eleusi, dove per due anni resisterà una piccola repubblica indipendente.
Un momento, questo, importante nella storia occidentale: per la prima volta, un governo costituzionale che giunge al potere dopo una dittatura si interroga su come comportarsi nei confronti dei reati compiuti nel periodo precedente; una situazione che, purtroppo, si ripresenterà infinite volte.
Perché Pausania abbia preso tali decisioni non è del tutto evidente: ma certamente gioca un ruolo importante il sospetto, se non la palese avversione, che sta maturando nell’élite dirigente spartana nei confronti delle mire personalistiche e sempre più ambiziose di Lisandro.
Nel settembre del 403 a.C., dunque, a poco più di un anno dalla fine della guerra, Atene reinstaura il regime democratico radicale. I due tentativi di sovversione non hanno avuto alcun esito, e in tutto sono durati a stento un paio d’anni. A causa di queste esperienze (e, soprattutto, dell’ultima), nessuno, nel IV secolo, oserà più dichiararsi antidemocratico nei dibattiti politici. Nonostante la sconfitta in una guerra tanto dura e l’appoggio spartano, i plousioi e i kaloikagathoi, i ricchi e i gentiluomini non riescono a fare di Atene una città “normale”, piegandola a un regime moderato, e tantomeno a farne un’“altra Sparta”, come alcuni pensano che vagheggiassero Crizia e i suoi accoliti.
Si possono cercare le cause di questo esito nelle debolezze degli aristocratici che guidarono il movimento antidemocratico: dall’ambiguo Teramene allo stesso Crizia, troppo pieno di risentimento e di odio per poter essere un buon politico. O, più fondatamente, nelle debolezze e nelle divisioni all’interno dell’élite dirigente spartana, certo non pronta a esercitare una durevole egemonia su un mondo diventato troppo grande per loro. Resta il fatto che gli Ateniesi mostrarono un eccezionale attaccamento alla “loro” democrazia, tanto da riuscire a conservarla ancora per oltre 80 anni.
“Noi non copiamo le leggi dei vicini, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri”, dice ancora il Pericle tucidideo. Abbiamo tracciato in queste pagine le linee storiche fondamentali di questa esperienza politica, che ha costituito una pietra miliare e un modello per i millenni a venire. Certo, parlare di essa senza citarne le conquiste culturali, è come ascoltare un film senza vedere le immagini. L’esperienza politica, infatti, va di pari passo con un rigoglio impressionante in campo teatrale, letterario, artistico, filosofico, storico, quale forse nessuna comunità al mondo ha mai offerto, grazie agli uomini che in quella stessa comunità erano nati e ai tanti stranieri che erano giunti ad Atene abbagliati dalla sua eccezionale vitalità. Una città eccezionale, Atene: una città ricca di straordinaria energia, entusiasmo, ambizione; come disse una volta Borges, veramente “un’immagine rudimentale del paradiso”.