Il mito
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Agli inizi della tradizione greca la parola mythos esprime non il racconto favoloso o incredibile ma, al contrario, un’enunciazione estremamente autorevole. Solo col trascorrere del tempo mythos passa a identificare il racconto favoloso, generalmente poetico, della cui credibilità si può o si deve dubitare. Nel seguito della sua vicenda culturale questo termine assume diversi e più complessi valori, che confluiscono nel moderno concetto di "mito". Fornire perciò una definizione di "mito", soprattutto se la si intendesse come esaustiva e definitiva, non avrebbe senso. È possibile, però, darne almeno una definizione di tipo operativo.
Il termine italiano mito – come il mythe dei francesi, il myth degli inglesi, il mythos dei tedeschi, e così via – deriva direttamente dal termine greco mythos. Ma possiamo esser certi che, se ci mettessimo a discutere il significato di questa parola con i suoi legittimi proprietari, i Greci, emergerebbe subito una notevole diversità di opinioni.
Con mythos infatti i Greci indicavano la "parola", il "discorso", il "racconto". Ma chi si aspettasse di veder definito come mythos esclusivamente il racconto sacro, favoloso, o semplicemente la storia alla quale non si presta fede – tutti significati a cui ci ha abituati la fortuna posteriore di questo termine – sarebbe destinato a restare deluso. Agli inizi della letteratura greca, ossia in Omero ed Esiodo, mythos indica sì discorsi o racconti, ma non quelli incredibili o pieni di accadimenti soprannaturali. Al contrario, nella lingua dell’epica arcaica sono definiti mythos racconti o discorsi di carattere indiscutibilmente autorevole. È mythos, per esempio, il discorso che il falco predatore rivolge "con forza" all’usignolo, la sua preda (Esiodo, Opere e i giorni, 206). Allo stesso modo, in Omero viene definito mythos il discorso pronunziato con veemenza da maschi guerrieri sul campo di battaglia; e quando Poseidone respinge l’ordine di Zeus di abbandonare la lotta, la sua risposta "dura e potente" è definita mythos (Omero, Iliade XV, 202). Non diversamente sono definite mythos le orazioni pronunziate, in assemblea, da eroi che posseggono il prestigio necessario per farlo: come Agamennone quando caccia via dal campo acheo il sacerdote Crise, minacciandolo; o come Achille quando respinge gli ambasciatori di Agamennone (Iliade, I, 25; IX, 309). Il mythos dell’epica è un discorso assertivo, che chiede in qualche modo di essere eseguito: prova ne sia il fatto che esso non viene mai pronunziato da donne – "speaker" prive di autorità, perché a detenerla sono solo gli uomini – e suona male perfino sulla bocca di maschi troppo giovani. Il mythos insomma è, in primo luogo, un discorso autorevole pronunziato da locutori altrettanto autorevoli.
Sarà solo nel seguito della cultura greca, con Erodoto e Tucidide, oltre che con Platone, che questo termine comincerà a designare il discorso favoloso, in cui compaiono eventi di carattere meraviglioso o tali comunque da suscitare il problema della credibilità. E sarà proprio attorno all’asse della credibilità del mito che si articolerà tanta parte della riflessione greca su questo tipo di racconti, con l’elaborazione di strategie interpretative che – come l’allegoria – tenderanno a salvare l’importanza della mitologia senza per questo accettarne gli imbarazzanti, talvolta scandalosi, significati letterali. In ogni caso, parlando di mythos per la Grecia classica, non bisogna dimenticare che questa forma discorsiva resta specificamente connessa alla produzione di carattere poetico: sono i poeti che hanno creato o creano il mythos, e senza di loro esso non esisterebbe.
Quanto alla vicenda moderna della parola, è opportuno ricordare che, per designare i racconti mitologici degli antichi, il Medioevo e il Rinascimento non hanno più parlato di mythos o di mythus, ma hanno usato il termine latino fabula (da cui l’italiano "favola", il francese "fable" e così via). Così farà ad esempio Giovanni Boccaccio che, nelle sue Genealogiae deorum gentilium, redigerà la prima grande enciclopedia delle fabulae antiche. A riportare in luce il termine greco dimenticato, sono Giambattista Vico in Italia e Christian Gottlob Heyne in Germania, entrambi nella seconda metà del XVIII secolo. Da questo momento in poi, le vicende (ma anche le metamorfosi) del mythus, mythos o "mito" che dir si voglia, assumono un andamento turbinoso. Con questa parola, infatti, non si designa più semplicemente un racconto, ancorché favoloso. Mythos diviene capace di veicolare significati assai più complessi, raffinati, affascinanti. Il discorso mitico comincia a essere inteso come manifestazione di una civiltà prefilosofica destinata ad essere superata dalla razionalità successiva – se poi questo trionfo della ragione sul mito fosse da considerarsi un vantaggio o meno per l’umanità era naturalmente un altro discorso. E soprattutto materia di un dibattito che, per certi versi, dura ancora.
A motivo di questa prima trasformazione, il "mito" ne subisce una seconda, che sviluppa e completa quella precedente. Esso infatti perde definitivamente, il proprio valore originario di enunciazione, di modalità del discorso, soprattutto poetico, per presentarsi come un vero e proprio "modo di pensare": la manifestazione di una ragione arcaica, ovvero primitiva, e in ogni caso diversa da quella condivisa dai moderni, che esprimeva in maniera fascinosamente "mitica" le proprie memorie storiche o le proprie idee cosmologiche e filosofiche. Il mito, concetto descrittivo, assume così lo statuto di una realtà trascendente, diviene qualcosa che esiste per sé e, soprattutto, qualcosa di cui si può parlare. Anzi – e questa costituisce la terza tappa nella metamorfosi del mito – un qualcosa di cui si può fare la scienza: siamo così arrivati alla mitologia, una disciplina per la quale si richiedono conoscenze specifiche, una specializzazione, una biblioteca. E soprattutto l’attività di innumerevoli scuole interpretative.
Nel corso di questa vicenda si è prodotta un’altra importante conseguenza. Fondandosi sulla – presunta – equivalenza fra antichi da un lato e cosiddetti "primitivi" dall’altro, il termine "mito" è stato usato anche per designare i racconti provenienti da culture lontane: dall’America precolombiana all’Africa, all’Oceania. L’auroralità di carattere temporale, insomma, è stata vista come intercambiabile con l’auroralità di carattere spaziale, e così gli esotici "primitivi" dell’antropologia ottocentesca hanno potuto prendere il posto degli antichi. La parola greca mythos ha dunque finito per designare anche i racconti di culture che con quella greca non avevano nulla a che fare. Siamo così arrivati a quegli innumerevoli libri, presenti tanto nelle biblioteche universitarie che in quelle domestiche, i cui titoli suonano Miti Nordici, Miti Maya, Miti Indù e così via, di continente in continente.
Questa pluralità di valori e significati assunti dalla categoria "mito" nella cultura moderna appare evidente anche dalla molteplicità di definizioni che ne vengono date. Accanto a quelle più semplici e ormai tradizionali, come "racconto sugli dèi", "racconto sull’origine" o anche "racconto connesso al rituale", ci sono poi quelle più recenti e sofisticate, che hanno a che fare con la psicoanalisi, con l’analisi strutturale o con la teoria letteraria. Di fronte al mito ci si può perfino scrollare di dosso qualsiasi necessità di definirlo, per rifugiarsi direttamente nell’empatia o nell’ineffabile: il mito lo si "sente", è un’esperienza emozionale. Ecco come si esprimeva, nel 1825, il fondatore della cosiddetta mitologia scientifica, Karl Otfried Müller: “Questo è comunque chiaro: che la semplice tecnica combinatoria del sillogismo, per quanto ordito con sottigliezza, può condurre vicino all’obiettivo, ma non all’obiettivo stesso; e che l’ultimo atto, la comprensione autentica e interiore [del mito], richiede un momento di entusiasmo, di eccezionale tensione e di straordinaria cooperazione fra tutte le forze spirituali, che si lascia indietro ogni calcolo” (K. O. Müller, Prolegomeni a una mitologia scientifica, 1825, Guida, Napoli 1991, p. 151). Si tratta di una visione di tipo apertamente romantico, che giunge però fino al XX secolo. Basta ricordare la concezione mistica che del mito, e di quello greco in particolare, hanno propugnato studiosi come Walter Otto. Quando si va in cerca del significato del mito – quando si desidera cogliere la sua "essenza" o la sua "verità" – ciò che conta è in primo luogo il coinvolgimento dell’interprete: ciò da cui non si può prescindere è una vicinanza elettiva fra Beruf inteso come "mestiere" e Berufung intesa come "vocazione". Insomma, più che studioso il mitologo avrebbe da esser poeta.
Con tutto ciò, bisogna anche dire che rinunziare al mito è difficile, per non dire impossibile. La tensione fra il rifiuto e la fascinazione, il disinteresse (se non il disprezzo) e l’amore per questo genere di racconti sembra essere continua. Potremmo anche provare a mettere il problema in questi termini. Da un lato sta un discorso, definito "mitico", che spesso si presenta troppo bizzarro o inverosimile per essere accettato così com’è: Bellerofonte che cavalca un Pegaso alato e uccide una Chimera con testa di leone e coda di serpente, Eracle che affronta un serpente dalle molte teste, che una volta tagliate ricrescono – ma anche la fondazione di Roma da parte di due gemelli figli di Marte e allattati da una lupa, a loro volta discendenti da un eroe troiano che aveva Venere per madre. Dall’altro lato, però, stanno dei lettori che, in qualche modo, non vogliono o non possono rassegnarsi all’idea che il mito sia solo e soltanto questo. Sono quei "sapienti", come li chiamava Platone, i quali militano oggi nelle schiere degli storici (che nei miti cercano tracce di una storia mai scritta), degli antropologi (che nei miti cercano i fondamenti culturali di una data comunità), dei critici letterari (che nei miti cercano gli archetipi o i modelli dell’immaginario), degli psicoanalisti (che nei miti cercano le forme dell’inconscio), degli storici delle religioni (che nei miti cercano la giustificazione di rituali o credenze) – per non parlare dei potenti di tutti i tempi, che ai miti chiedono argomenti per giustificare il loro potere o per affermare la "vera" identità del gruppo cui sentono di appartenere. In altre parole, sono tutti lettori o fruitori del mito che tendono a restituire una specifica autorità al discorso mitico, anche a dispetto del modo – fantasioso, illogico, incredibile – in cui esso si presenta: o forse proprio per questo. E così facendo, questi interpreti tornano paradossalmente, e certo inconsapevolmente, a restituire al discorso/mythos quel carattere autorevole, forte, che esso aveva nella cultura greca arcaica: quasi che l’antica forza del mythos – discorso autorevole, discorso che si impone e deve essere eseguito – tornasse a farsi sentire sotto la "scorza" dei miti antichi.
Detto ciò, che cosa dobbiamo farne dei "miti"? Volgiamo le spalle all’ineffabile di Karl Otfried Müller o di Walter Otto e proviamo a rivolgerci (almeno) al ragionevole. “I miti sono racconti tradizionali forniti di una speciale ‘significatività’ (Bedeutsamkeit)”: così ha scritto Walter Burkert, un grande studioso che al mito e alla religione antica ha dedicato tutta la vita (W. Burkert, "Mythos - Begriff, Struktur, Funktion" in F. Graf, ed., Mythos in mythenloser Gesellschaft. Das paradigma Roms, Teubner Stuttgart und Leipzig 1993, p. 9 sgg.). Questa definizione si presenta sufficientemente semplice da risultare generale, ma anche sufficientemente specifica per destare fiducia. Soprattutto, possiede un indiscutibile valore operativo. "Tradizionalità" da un lato e "significatività" dall’altro, ecco i due poli fra i quali scatta quella tensione che viene chiamata "mito". Naturalmente, sugli elementi che fondano questa definizione ci si potrebbe subito mettere a discutere. Per esempio, esiste un preciso lasso di tempo in seguito al quale un racconto può essere legittimamente considerato "tradizionale"? Un secolo, due secoli, tre secoli... E non potrebbe essere considerato tradizionale anche un racconto nuovo di zecca che, però, di tradizionale presenta i materiali che lo compongono, o meglio ancora la forma utilizzata per costruirlo? Personalmente sottoscriverei volentieri questa possibilità. E poi, la "significatività" del mito a cosa deve essere riferita? Nella teoria della comunicazione, la "significatività" (Bedeutsamkeit) di un certo fenomeno, misurabile anche in termini di "rilevanza" o "importanza", ne definisce l’efficacia e la qualità riguardo alla trasmissione dell’informazione. Dunque il mito viene definito in qualche modo come un racconto "efficace". D’accordo, ma per chi? Efficace per la comunità, per una sua parte, per chi la governa, per chi semplicemente lo ascolta o lo legge...
Naturalmente, poi, sarebbe ingenuo credere che "tradizione" costituisca un sinonimo di antichità, genuinità o autenticità. Che le tradizioni di una comunità, e con esse i suoi miti, possano essere di volta in volta ricostruite a seconda delle necessità del presente è un fatto troppo noto perché sia necessario insistervi. Si tratta di un fenomeno legato al modo in cui procede, in generale, la "memoria collettiva" di una comunità. Come ci ha insegnato a suo tempo Maurice Halbwachs, infatti, la memoria collettiva si fonda su una serie di cornici di riferimento – cornici a carattere sociale – che ne condizionano fortemente i contenuti. Al mutare di questi quadri sociali mutano anche le memorie che del passato si hanno. Passo dopo passo, il gruppo sociale ricostruisce dunque anche il proprio passato e la propria tradizione – adattandoli ai quadri sociali del presente che avanza – così come progetta anche il proprio futuro. Nella definizione del "mito", dunque, la categoria di "tradizione" deve essere utilizzata indipendentemente dal fatto che questa "tradizione" sia da considerarsi antica o recente, genuina o manipolata, originale o ricostruita. L’importante è che il racconto "mitico" sia presentato e usato come se fosse un racconto tradizionale: e soprattutto, come abbiamo detto, che sia ritenuto in qualche modo "significativo" per la comunità a cui si riferisce.