Il miracolo economico italiano
Lo storico britannico Eric J.E. Hobsbawm (1917-2012), nel suo celebre volume Age of extremes. The short twentieth century, 1914-1991 (1994) ha definito il secondo dopoguerra una nuova «età dell’oro», mettendo in evidenza che si trattò di anni di «straordinaria crescita economica e di trasformazione sociale, che probabilmente hanno modificato la società umana più profondamente di qualunque altro periodo di analoga brevità» (trad. it. Il secolo breve, 1995, p. 18).
La definizione di Hobsbawm pare particolarmente centrata per l’Italia: questa, infatti, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta conobbe un periodo di crescita economica accelerata (che sarà soprannominato miracolo economico o, ancora più sinteticamente, boom), che ne trasformò in maniera profonda il volto, facendola passare da Paese a economia prevalentemente agricola a una delle principali potenze industriali dell’Occidente.
Un altro storico britannico, Paul Ginsborg, profondo conoscitore della storia italiana tra Otto e Novecento, ha scritto che in quel periodo «il paesaggio rurale e urbano, così come le dimore dei suoi abitanti e i loro modi di vita, cambiarono radicalmente» (1990; trad. it. 1989, p. 622).
Questa fase di crescita costituisce ancora oggi un oggetto di studio nelle università di tutto il mondo. È sufficiente, infatti, una breve analisi di tre manuali di storia contemporanea o di storia dell’economia – tutti pubblicati in anni recenti e adottati in prestigiosi atenei stranieri – per rendersi conto dell’importanza di un periodo della storia italiana che presenta molti aspetti ancora da studiare.
In Gran Bretagna, la International history of the twentieth century and beyond (2004, 20082) – di Anthony Best, Jussi M. Hanhimäki, Joseph A. Maiolo e Kirsten E. Schulze, docenti della London school of economics e del King’s college di Londra – parla di uno «straordinario successo», che ebbe profonde ripercussioni non solo sull’economia e la società italiane, ma anche sulla politica del vecchio continente, dal momento che contribuì a fare dell’Italia una della nazioni che più contribuirono al processo di creazione della Comunità economica europea e di integrazione fra gli Stati.
In Francia, la Histoire économique et sociale du XXe siècle (2002, 20062) – una raccolta di saggi di vari autori, curata da Jean-François Muracciole, dell’Università di Montpellier –, riferendosi alla situazione italiana nel secondo dopoguerra sottolinea il pragmatismo che accomunò i protagonisti del processo di ricostruzione, e si sofferma in particolare sulle figure di Luigi Einaudi – promotore nel 1947 di un’importante riforma monetaria – e di Enrico Mattei – che tra il 1945 e il 1962 portò avanti strategie industriali e politiche spregiudicate e innovative.
Negli Stati Uniti, Iván Tibor Berend – direttore del Center for European and Eurasian studies nella facoltà di Storia della UCLA (University of California, Los Angeles) –, nel suo libro An economic history of twentieth-century Europe: economic regimes from laissez-faire to globalization (2006) individua i settori trainanti dello sviluppo italiano nelle industrie che fabbricavano automobili, elettrodomestici, mobili e macchine per ufficio, tutti prodotti che in breve tempo divennero un punto di riferimento a livello mondiale sia per le innovative soluzioni tecnologiche sia per la qualità della progettazione e del lavoro di design. Ed è proprio lo studio dell’attività dei maestri italiani dell’interior e dell’industrial design, dei loro stili e delle tecniche da essi impiegate nel realizzare oggetti d’arredamento e macchine, il tema che maggiormente continua ad affascinare gli studenti dell’UCLA, ma anche di numerose università straniere, dall’Europa all’Asia.
Nelle pagine che seguono si analizzeranno alcuni aspetti del boom da un punto di vista statistico, politico e soprattutto sociale per rilanciare la riflessione su un periodo di particolare rilievo per il nostro Paese ed estremamente significativo al confronto con quello attuale, in cui l’Italia è colpita da una crisi economico-finanziaria che ha notevoli ripercussioni sui nostri stili di vita e sui nostri comportamenti sociali.
La crescita demografica e i diversi settori produttivi
Come primo elemento di analisi può essere preso in considerazione l’andamento demografico della popolazione italiana, che dopo la Seconda guerra mondiale conobbe un lungo periodo di crescita, almeno sino all’inizio degli anni Settanta, quando si verificò un assestamento.
La guerra aveva comportato un elevatissimo costo in vite umane, calcolato attorno alle 450.000 persone. A tale cifra, già di per sé considerevole, va aggiunto l’alto numero dei feriti, dei mutilati e dei bambini rimasti orfani. La situazione era stata ulteriormente aggravata dagli spostamenti forzati di popolazione che si erano verificati tra il 1945 e il 1950, coinvolgendo centinaia di migliaia di ex soldati – che rientravano in patria dai lager nazisti o dai campi di prigionia alleati – e decine di migliaia di civili – in fuga dai territori dei Balcani un tempo appartenenti all’Italia.
La fase dell’emergenza postbellica si concluse intorno al 1949, quando tutti gli indicatori economici si riportarono ai livelli d’anteguerra e in qualche caso addirittura li superarono.
Quegli stabilimenti industriali che erano stati lasciati indenni dai bombardamenti aerei delle ‘fortezze volanti’ alleate e dalle distruzioni e razzie operate dalle truppe tedesche, ripresero a lavorare a pieno ritmo sin dal 1945, pur se con macchinari ormai obsoleti e senza le ricche commesse militari su cui avevano potuto contare in precedenza. Ritornarono in piena attività anche gli istituti bancari, compresi quelli che avevano assecondato le politiche dei nazifascisti – per es., portando a termine la confisca dei beni degli italiani di religione ebraica. Ne furono creati anche di nuovi, come la Banca di credito finanziario, in seguito conosciuta come Mediobanca; primo direttore ne fu Enrico Cuccia (1907-2000), che negli ultimi venti mesi del conflitto aveva sostenuto la Resistenza e che in seguito, con la sua discreta presenza, avrebbe dominato la scena del capitalismo italiano.
Grazie a un’energica ricostruzione – sospinta dalla voglia di vivere che aveva ampiamente contagiato le persone uscite indenni dalla guerra –, nel 1950 venne registrato un primo significativo innalzamento dei valori demografici.
Il censimento del 1951 mostrò che la popolazione residente in Italia (nei confini dell’epoca) risultava di 47.516.000 unità; queste sarebbero salite nel 1961 a 50.624.000. La crescita demografica venne favorita da vari fattori, come la contrazione del tasso di mortalità – il rapporto tra le morti e la popolazione totale –, sceso dal 14,28‰ del 1937 al 9,72‰ del 1950, e dagli elevati livelli mantenuti dal tasso di natalità, che tra il 1949 e il 1967 oscillò costantemente tra il 18 e il 20‰ circa.
Nel biennio 1963-64 il numero dei matrimoni e quello delle nascite raggiunsero valori mai più toccati in seguito, segno di un’aspettativa di benessere e di un’inedita propensione a investire nel futuro.
Nel 1963 si celebrarono 420.300 matrimoni, con un tasso di nuzialità – il numero di matrimoni per 1000 abitanti residenti – dell’8,2‰. Solo nel 1947 i matrimoni erano stati più numerosi (438.000), ma si era trattato allora di una ripresa della nuzialità di carattere ‘fisiologico’, cioè tipica degli anni immediatamente successivi alla fine di una guerra.
Nel 1964 i nati vivi superarono il milione (precisamente furono 1.016.120), un fatto che non accadeva dal 1948 e che non sarebbe più accaduto in seguito. Nello stesso anno le morti furono 490.000 e, di conseguenza, si registrò la più alta eccedenza delle nascite sulle morti mai verificatasi nella storia italiana. Interessante è anche il dato relativo al tasso di fecondità totale – il numero medio di figli per donna in età feconda –, che misura il livello di riproduzione della popolazione: salì progressivamente, fino a raggiungere nel 1964 il valore di 2,70.
Passata la fase del boom, i dati sulla vitalità demografica cominciarono a scendere sempre più rapidamente, soprattutto dopo la crisi petrolifera del 1973. Eppure quella breve ‘fiammata’ bastò per cambiare profondamente i modi e i tempi della vita degli italiani, la cui speranza di vita alla nascita salì dai 63,7 anni del 1950 ai 69,0 del 1970 (un valore, quest’ultimo, da confrontare anche con i 42,6 anni del 1899). La speranza di vita è poi ulteriormente cresciuta, fino agli 81,86 anni del 2011 (ultima stima ufficiale disponibile); questo, unito alle pochissime nascite – a partire dalla metà degli anni Ottanta il tasso di fecondità totale è oscillato costantemente tra 1,2 e 1,4 circa, valori tra i più bassi del mondo –, ha contribuito a fare dell’Italia un Paese molto ‘vecchio’.
Per quanto riguarda la distribuzione degli occupati tra i diversi settori di attività economica, secondo il censimento generale della popolazione nel 1951 lavoravano nell’agricoltura 8,261 milioni di persone (pari al 42,2% del totale degli occupati), nell’industria 6,290 milioni (32,1%) e in «altre attività» – prevalentemente i servizi e la pubblica amministrazione – 5,026 milioni (25,7%). L’economia italiana sembrava dunque basarsi ancora prevalentemente sull’agricoltura, ma in realtà si trattava di una situazione in via di cambiamento, tanto che un decennio più tardi i rapporti risultavano completamente ribaltati.
Nel 1958, per la prima volta il numero degli addetti all’industria superò quello degli agricoltori, rendendo in tal modo evidente un processo – iniziato con l’industrializzazione di fine Ottocento – che consentì all’Italia di diventare un Paese prevalentemente industriale. Nel 1961 gli addetti all’agricoltura erano ormai scesi a 5,657 milioni (il 29% del totale), mentre gli addetti all’industria erano saliti a 7,886 milioni (40,4%) e gli addetti ad altre attività a 5,976 milioni (30,6%). Prolungando l’analisi fino al 1971, si vede che rispetto a vent’anni prima gli occupati in agricoltura erano scesi di oltre il 60% (da 8,261 milioni a 3,243).
Con la crisi del mondo rurale si sgretolarono un sistema produttivo e un sistema di relazioni sociali fondati sul predominio della forza lavoro umana, sul tempo scandito dalle stagioni e sul ruolo centrale della famiglia contadina. La polarizzazione delle proprietà agricole – iniziata negli anni in cui la Democrazia cristiana (DC) si presentava come un ‘partito contadino’, attento al territorio, che controllava attraverso organizzazioni collaterali come la Coldiretti – portò al progressivo crollo della mezzadria, che, secondo il censimento generale dell’agricoltura, nel 1961 riguardava ancora 3,125 milioni di ettari (l’11,8% del totale) e oltre 316.000 aziende (il 7,4%).
L’accelerazione del processo di abbandono della terra venne favorita dalla diffusione delle macchine e della chimica. I trattori – sempre più simili, come dimensioni e potenza dei motori, a quelli prodotti negli Stati Uniti – passarono dai 57.000 del 1950 ai 1.072.000 del 1980, e al contempo comparvero moderne macchine operatrici (mietitrebbie, motofalciatrici, motozappe); per la raccolta dei cereali, se nel 1950 erano necessarie trenta ore di lavoro per ogni quintale di prodotto, nel 1980 bastavano appena trenta minuti (Leonardi, Cova, Galea 1997).
Contemporaneamente, l’impiego di concimi, antiparassitari e diserbanti – per lo più di produzione statunitense – consentì di raddoppiare e persino triplicare le rese dei prodotti agricoli.
Il boom economico in cifre
Il miracolo economico italiano appare ancora oggi un fenomeno di notevoli dimensioni, qualunque dato numerico si voglia prendere in considerazione. Rilevante è il fatto che tra il 1951 e il 1963 il prodotto interno lordo (PIL) aumentò in media del 5,9% annuo (con un picco dell’8,3% nel 1961). Grazie a tale accelerazione, l’Italia riuscì a superare nazioni europee come i Paesi Bassi (che nello stesso periodo conobbero un tasso medio del 4,9%), la vicina Francia (4,4%) e persino la Gran Bretagna (2,6%).
Nel medesimo lasso di tempo, il reddito nazionale lordo italiano passò da 14.900 miliardi di lire a 31.261, mentre gli investimenti lordi salirono da 2300 miliardi a 7700. Significativo appare l’andamento dei consumi privati che, se tra il 1950 e il 1953 erano stati in media ogni anno di 10.380 miliardi, in seguito crebbero fino ad arrivare nel 1963 a 20.500 miliardi, segno che in poco più di un decennio gli italiani avevano raddoppiato la spesa, soprattutto per spostarsi.
Interessanti sono i dati relativi al commercio con l’estero, che testimoniano il ruolo riconquistato in ambito internazionale dall’Italia dopo anni di isolamento imposti dal regime fascista. Prendendo il 1938 come base (e perciò uguale a 100), le importazioni furono pari in quantità a 148 nel 1950 e a 823 nel 1963, mentre le esportazioni furono negli stessi anni rispettivamente 119 e 593. Per le esportazioni si verificò, tra il 1951 e il 1963, un incremento annuo del 12%, inferiore solo a quello della Germania Ovest, mentre la media delle altre nazioni dell’Europa occidentale era del 9%.
La produzione industriale, trainata inizialmente dall’industria metalmeccanica e dal settore petrolchimico, tra il 1951 e il 1963 raddoppiò, grazie anche all’ingresso dell’Italia (1° gennaio 1958) nella Comunità economica europea (CEE): basti pensare che le esportazioni destinate agli altri cinque Paesi fondatori della CEE salirono dal 29% del totale nel 1960 al 40,2% nel 1965.
Mutò anche il tipo di merci esportate: i prodotti tessili e alimentari (cioè quelli tradizionalmente esportati dall’Italia) lasciarono il passo a nuovi beni di consumo, in primis gli elettrodomestici.
La produzione di frigoriferi salì da 370.000 unità del 1951 a 3.200.000 unità del 1967, e le aziende italiane del settore, concentrate nel Centro-Nord, conquistarono ampie fette del mercato mondiale, collocandosi subito dietro le aziende statunitensi e giapponesi.
Un ulteriore dato che colpisce è che nell’immediato dopoguerra quasi tutte le aziende che sarebbero diventate famose a livello internazionale nel settore delle lavatrici erano poco più che stabilimenti artigianali: la Ignis aveva poche dozzine di operai, mentre la Candy nel 1947 produceva una lavabiancheria al giorno.
Il progetto di una macchina che lavasse la biancheria venne ideato da Enzo Fumagalli nel 1944 mentre si trovava rinchiuso in un campo di prigionia negli Stati Uniti. Finita la guerra egli tornò a casa e ribattezzò la bottega artigianale del padre con il nome di Candy (dal titolo di una canzone che canticchiavano le guardie del campo). Nel 1967 il ritmo di produzione del nuovo stabilimento era arrivato a una lavatrice ogni 15 secondi.
Guidate da abili imprenditori – disposti a investire nella ricerca scientifica e nelle nuove tecnologie –, le industrie di elettrodomestici prosperarono soprattutto nelle regioni o zone cosiddette ‘bianche’ (in particolare Veneto, Friuli e basso Piemonte), dove forte era il peso elettorale della DC e dove, al contrario, risultava debole la presenza dei sindacati nazionali maggiormente combattivi, la CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori) e soprattutto la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro). Come ha scritto Ginsborg, in queste zone gli abitanti «identificarono le loro fortune con quelle dell’azienda» (1990; trad. it. 1989, p. 295), accettando bassi salari in cambio di un’occupazione sicura.
Negli stessi anni conobbero un notevole sviluppo anche i settori delle macchine da scrivere – grazie alla Olivetti, che nel 1961 produceva 650.000 esemplari di vari modelli, tutti tecnologicamente all’avanguardia – e delle materie plastiche, settore in cui, tra il 1951 e il 1961, la produzione crebbe di 15 volte e le esportazioni di 55 volte.
Una delle imprese private italiane più innovative fu appunto la Olivetti, che mostrò una spiccata attenzione alle scienze sociali e ai modelli di organizzazione industriale sviluppati negli Stati Uniti. Fondata come piccola officina nei primi anni del Novecento, si specializzò nella realizzazione prima di macchine per scrivere e poi – dagli anni Quaranta – di calcolatrici. Nel 1948 produsse la Divisumma 14, la prima calcolatrice scrivente al mondo in grado di eseguire le quattro operazioni. Nonostante la dura concorrenza dei colossi dell’elettronica giapponesi e statunitensi, nel 1965 presentò a New York il primo calcolatore elettronico commerciale del mondo, la P 101, che raccolse un successo strepitoso.
Ma il marchio più conosciuto del made in Italy divenne quello della Fiat, capace di attirare su di sé la maggior parte dei finanziamenti statali, generando al contempo un vasto indotto. È stato calcolato che tra il 1958 e il 1964 il 20% degli investimenti compiuti in Italia sia dipeso dalle scelte produttive fatte dai dirigenti di questa azienda (G.G. Migone, Stati Uniti, Fiat e repressione antioperaia negli anni Cinquanta, «Rivista di storia contemporanea», 1974, 2, p. 260).
Dopo la messa in vendita della 600 (1955), la Fiat si specializzò nella produzione di utilitarie a prezzi contenuti, che divennero il sogno di coloro che ricevevano basse retribuzioni, primi fra tutti proprio gli operai che costruivano le automobili.
Nel luglio 1957, l’allora presidente del Consiglio, il democristiano Adone Zoli (1887-1960), venne invitato a provare nel cortile del Quirinale la Fiat Nuova 500, progettata dall’ingegnere Dante Giacosa (1905-1996). La nuova vettura aveva una velocità massima di 85 km/h e consumava poco, ma costava 490.000 lire, pari a dieci stipendi di un impiegato e a tredici di un operaio. Nonostante il prezzo elevato, ebbe successo, perché la voglia degli italiani di muoversi in maniera indipendente fu più forte di ogni tradizionale tendenza al risparmio.
Nel 1959 Giacosa vinse il premio di design industriale Compasso d’oro e divenne celebre in tutto il mondo per la curiosa forma ovale che aveva dato alla sua creazione, immortalata in decine di pellicole cinematografiche. La 500 rimase in produzione fino al 1975, venne costruita in oltre 3 milioni di esemplari e in qualche modo fu un simbolo degli anni che videro la trasformazione dell’Italia in moderno Paese industriale.
Prendendo in considerazione anche gli altri marchi – come l’Alfa Romeo o la Innocenti, allora non ancora passate nell’orbita del gruppo Fiat –, risulta evidente che l’industria delle automobili nel suo complesso conobbe un’ascesa vertiginosa, passando dalle 100.000 vetture prodotte nel 1950 alle 230.000 del 1958, sino a superare il milione nel 1963.
Il successo del settore fu dovuto anche al sostegno del mondo politico, che scelse di concentrare notevoli risorse pubbliche nella costruzione di nuove strade; proseguì in tal modo una strategia già avviata negli anni Venti dal regime fascista con le strade a pedaggio, prima la Milano-Laghi e poi anche la Milano-Torino e la Padova-Mestre.
Nel 1952, il progetto di costruire nuove arterie stradali venne ripreso con il cosiddetto programma Aldisio, dal nome del ministro dei Lavori pubblici, il democristiano Salvatore Aldisio (1890-1964); questi era convinto che l’ampliamento e la modernizzazione della rete autostradale avrebbero favorito la mobilità delle merci, facendo diminuire i costi del trasporto e di conseguenza anche calare i prezzi dei prodotti finiti. Senza contare l’immagine moderna e dinamica che l’Italia avrebbe acquistato a livello mondiale.
Tali scelte favorirono la motorizzazione privata, causando però un rapido invecchiamento del sistema ferroviario, che pure rappresentava un settore tradizionalmente forte dell’industria nazionale, grazie alla presenza di gruppi, come la Breda, all’avanguardia nella costruzione di locomotori e treni.
Nonostante la presentazione in pompa magna di nuovi modelli di treni di prestigio – come il celebre Settebello, ancora oggi vanto dell’industrial design italiano –, le ferrovie ebbero la peggio, e i grandi gruppi industriali si accodarono ben presto alle strategie governative. Nel 1954 la Pirelli, l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) e l’Italcementi strinsero un accordo con la Fiat per dar vita alla SISI (Sviluppo Iniziative Stradali Italiane), la società che avrebbe realizzato l’Autostrada del Sole da Milano a Napoli.
In seguito, la legge del 21 maggio 1955 nr. 463, la cosiddetta legge Romita, affidò all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) la progettazione, la costruzione e la gestione delle nuove autostrade che sarebbero state in gran parte finanziate dallo Stato. Il proponente di tale disegno di legge, Giuseppe Romita del PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano), fu uno dei parlamentari e ministri che più si adoperò, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, per la costruzione di una rete di infrastrutture moderne. Oltre all’Autostrada del Sole – di cui inaugurò i lavori nel 1957 insieme al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi –, Romita promosse anche la creazione di nuovi acquedotti e l’ammodernamento dei principali porti italiani.
Tra il 1945 e il 1970 la rete stradale della penisola passò complessivamente da 173.604 a 285.799 km, di cui 4342 di autostrade a pedaggio. Al contrario, nello stesso intervallo di tempo la rete ferroviaria calò da 17.105 a 16.100 km.
Le origini
L’analisi del boom non può basarsi solo sulla realtà italiana, ma va contestualizzata in uno scenario economico globale di segno positivo, almeno per le nazioni occidentali, dipendenti – e non solo a livello politico – dagli Stati Uniti.
Il ventennio 1950-70 rappresentò, in effetti, un periodo d’oro per il commercio internazionale; questo periodo premiò soprattutto i Paesi dell’Europa occidentale, dove la media di crescita del PIL fu del 5,5%.
All’interno di questo trend positivo, l’Italia, a differenza di altre nazioni più o meno simili – come per es. la Spagna (cfr. Berend 2006, pp. 258-60) –, seppe ‘mettersi in gioco’, abbandonando la sua tradizionale politica protezionistica e avviando un generale ammodernamento.
Di grande giovamento per il ‘sistema Italia’ (per usare un’espressione oggi in voga) furono le strategie politiche messe in atto dai primi governi della Repubblica. In particolare, la vittoria della DC – sotto la guida di Alcide De Gasperi (1881-1954) – nelle elezioni del 18 aprile 1948 ebbe come effetto la definitiva collocazione dell’Italia nel cosiddetto blocco occidentale e il suo inserimento nell’European recovery program, meglio noto come piano Marshall, lanciato dal governo degli Stati Uniti per sostenere gli alleati europei e tentare di riorganizzare l’intero sistema economico mondiale in contrapposizione al ‘blocco comunista’.
Molti esponenti del governo statunitense erano infatti convinti che la guerra fredda sarebbe stata combattuta anche tramite l’economia: in tale ottica, la ripresa dell’Europa avrebbe consentito di trovare i mercati necessari per collocare i prodotti statunitensi, mentre un diffuso benessere avrebbe ridotto nelle popolazioni ogni desiderio di rivoluzione, finendo così per offuscare il mito rappresentato dall’Unione Sovietica.
Grazie al piano Marshall, attivo dal 1948 al 1952, l’Italia ricevette aiuti per circa 1400 milioni di dollari, che utilizzò per completare la ricostruzione e per rilanciare i settori dei trasporti, dell’agricoltura, dei lavori pubblici e delle industrie.
Decisiva fu anche la netta scelta europeista fatta da De Gasperi, basata sulla convinzione che un’Europa unita e forte avrebbe consentito di equilibrare il rapporto con gli Stati Uniti e di fare dell’Italia un Paese pienamente occidentale. Nel 1949 De Gasperi, insieme al ministro degli Esteri Carlo Sforza, avviò contatti con i governi britannico e francese, e il 4 aprile venne invitato a Washington per partecipare alla nascita del Patto Atlantico, del quale l’Italia divenne quindi membro fondatore.
Il 18 aprile 1951, su iniziativa del ministro degli Esteri francese Robert Schuman, il cammino verso l’unificazione europea, sognato fin dal 1943 da Altiero Spinelli, divenne realtà, concretizzandosi nella costituzione ufficiale della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), con la partecipazione, oltre che dell’Italia, di Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. In virtù di tale accordo, l’Italia ricevette finanziamenti comunitari per il rilancio delle miniere del Sulcis, in Sardegna.
Importante fu anche la scoperta di nuove fonti di energia, come i giacimenti di metano e di idrocarburi trovati dall’ENI in Val Padana che fornirono un’alternativa al carbone – di cui peraltro l’Italia divenne il principale esportatore europeo all’inizio degli anni Sessanta, superando la Germania Ovest.
In politica interna, la formula del cosiddetto centrismo, imperniato sulla DC, garantì una certa stabilità e continuità di indirizzi tra il 1948 e il 1953. In questo lasso di tempo
l’intervento pubblico si mosse nella direzione giusta, sia varando provvedimenti atti a creare occupazione e a rimettere in circolo energie e ricchezze, sia utilizzando in senso propulsivo le stesse industrie di Stato, ancora lontane dalla decadenza clientelare e dalla insensibilità per le esigenze di bilancio e di buona amministrazione che si manifestarono apertamente solo con gli anni Sessanta (Vecchio, Trionfini 2008, p. 450).
Una delle riforme intraprese in quegli anni fu il cosiddetto piano Fanfani, dal nome del ministro del Lavoro Amintore Fanfani (1908-1999), che mirava a favorire la costruzione di case popolari al fine di accelerare la ricostruzione e di alleviare la crisi edilizia. Tale intervento permise la costruzione di circa 300.000 appartamenti e fece bruscamente calare gli indicatori della disoccupazione.
L’esecutivo si preoccupò anche della situazione di arretratezza del Meridione, e nel 1950 prima varò una riforma agraria – promossa dal ministro dell’Agricoltura Antonio Segni (1891-1972) –, poi istituì la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale, meglio nota come Cassa per il Mezzogiorno, con lo scopo di modernizzare le infrastrutture.
Nel 1951 vennero approvate le nuove norme sul rilevamento fiscale promosse dal ministro delle Finanze Ezio Vanoni (1903-1956), che intendevano combattere l’elevata evasione fiscale rendendo obbligatoria per tutti i contribuenti la dichiarazione annuale del reddito. Vanoni cercò di mettere ordine anche nel sistema economico, proponendo un piano che prevedeva di affrontare gli enormi problemi strutturali del Paese, come il ritardo del Sud, il dramma della disoccupazione e le arretratezze dei sistemi scolastico e sanitario. La morte prematura di Vanoni impedì la realizzazione del progetto. In seguito, nel 1956, venne creato il ministero delle Partecipazioni statali, che avrebbe dovuto coordinare le varie iniziative in campo economico, occupandosi soprattutto delle industrie di Stato, ENI e IRI su tutte.
L’idea di un intervento diretto in economia da parte dello Stato piaceva a tutti i partiti – sia di maggioranza sia di opposizione –, i quali puntavano a sostenere politiche economiche in grado di assecondare lo sviluppo in atto e di colmare i ritardi del Meridione. Nello stesso tempo consideravano le industrie statali uno strumento per combattere la disoccupazione e per favorire la formazione di nuove ‘clientele’: basti pensare che nel 1962 IRI ed ENI avevano alle proprie dipendenze più di 350.000 persone.
L’IRI era stata voluta da Benito Mussolini nel 1933 per assumere il controllo di un cospicuo gruppo di imprese operanti nei settori più diversi, con lo scopo di rilanciarle dopo la grave crisi economica internazionale del 1929.
Nel secondo dopoguerra le funzioni dell’IRI vennero rilanciate da Oscar Sinigaglia (1877-1953), un ingegnere romano di religione ebraica che nel 1938 era stato licenziato dalla presidenza dell’Ilva a causa delle leggi razziali.
In virtù delle sue doti imprenditoriali e del carattere innovativo dei suoi molteplici progetti industriali, nel 1945 Sinigaglia venne richiamato ai vertici della siderurgia italiana. Prendendo a modello le fabbriche degli Stati Uniti, dove larga attenzione era data alla logistica e alla gestione delle risorse umane, e potendo contare sui fondi del piano Marshall, egli impiantò a Cornigliano, nei pressi di Genova, un nuovo stabilimento basato su tecnologie d’avanguardia, da cui iniziarono a uscire centinaia di migliaia di lamiere sottili a banda larga, adatte alla produzione di beni di consumo. L’acciaio, infatti, entrava nei processi produttivi di quei beni che stavano trainando l’espansione economica, dalle automobili alle lavatrici e ai frigoriferi, sino agli impianti più complessi come i metanodotti.
Nel 1961 venne aperto a Taranto un nuovo grande stabilimento dell’Ilva, dove sarebbero stati prodotti i tubi per gli oleodotti, le lamiere piane di medio spessore impiegate per la costruzione di navi e, infine, i semilavorati per le industrie dell’indotto, ubicate in Puglia.
Assai originale fu anche la vicenda dell’ENI, creata nel 1953 da Mattei, che nell’estate 1945 aveva ricevuto il compito di liquidare un’altra creazione del fascismo, l’AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli). Mattei si oppose però a questa liquidazione, che era vista con particolare favore dalle cosiddette sette sorelle – le maggiori compagnie petrolifere statunitensi e britanniche –, interessate a impiantare le loro reti di distribuzione in Italia. Invece di chiuderla, quindi, Mattei rilanciò l’AGIP, non solo aprendo nuovi distributori di benzina, ma anche inaugurando una catena di motel e le prime stazioni di servizio. In seguito, promosse una campagna di trivellazioni nella pianura padana, che portò al ritrovamento di giacimenti di metano e che nel giro di pochi anni fece dell’ENI una holding a capo di un variegato impero industriale, con ramificazioni anche nella produzione di gomma sintetica, di fertilizzanti e di bombole di gas da cucina.
Abile imprenditore, ma anche appassionato mecenate, Mattei seppe circondarsi di intellettuali e giornalisti come Gianni Brera, Giorgio Bocca e Mario Pirani, a cui affidò la redazione di un nuovo quotidiano, «Il Giorno», il cui primo numero comparve nelle edicole il 21 aprile 1956.
Abituato a muoversi con spregiudicatezza e con pochi scrupoli, egli strinse contratti con l’Iran, con l’Egitto e persino con l’Unione Sovietica, ma la sera del 27 ottobre 1962 il piccolo aereo su cui stava viaggiando si disintegrò nel cielo di Pavia. Nel 1997 la Procura di Pavia ha riaperto le indagini su questo incidente, e nel 2005 l’analisi di un suo perito, il professor Donato Firrao del Politecnico di Torino, ha dimostrato che sull’aereo si verificò una deflagrazione provocata da un ordigno.
Con l’uscita di scena di Mattei si chiuse definitivamente l’epoca di quegli imprenditori indipendenti che furono gli artefici della ricostruzione e i pionieri dello sviluppo economico.
Le conseguenze sociali
A parte i timidi interventi legislativi del governo De Gasperi – in quello che è passato alla storia con il nome di sussulto riformatore –, la crescita si verificò senza una programmazione politica forte e netta, e seguì piuttosto le logiche del mercato, piegandosi all’iniziativa dei grandi gruppi industriali. La notevole crescita dei beni di consumo privati ebbe come conseguenza una diffusa disattenzione ai beni pubblici: quindi la costruzione di scuole, ospedali e trasporti (fatta eccezione, come visto, per le reti autostradali) segnò il passo rispetto a quanto si faceva in altri Paesi europei, generando squilibri strutturali che paghiamo ancora oggi.
Un primo significativo fattore di squilibrio riguardò il costo del lavoro: le aziende riuscirono a mantenere a lungo competitivi i prezzi delle merci sfruttando la manodopera e ostacolando le attività sindacali.
Tra il 1951 e il 1963 tutti gli indicatori economici crebbero (la produzione del 95% e gli utili dell’86% ) e l’orario di lavoro medio giornaliero salì a 10 ore (ma a 12 in alcune zone o branche produttive); il potere d’acquisto dei salariati, invece, rimase pressoché fermo.
Ancora più impressionante risulta il numero dei lavoratori che furono coinvolti nella dura repressione con cui le forze di polizia, guidate dal ministro degli Interni Mario Scelba (1901-1991), contrastarono gli scioperi. Per aver partecipato a manifestazioni sindacali, tra il 1948 e il 1954 vennero uccisi 75 operai, 5104 furono feriti e circa 150.000 arrestati (di questi ultimi, 61.200 vennero condannati).
Si era in piena guerra fredda, e le pressioni degli Stati Uniti sul governo democristiano affinché limitasse l’iniziativa dei sindacati furono forti e insistite. Nel 1954 l’ambasciatrice statunitense in Italia, Clare Boothe Luce, incontrando il presidente della Fiat Vittorio Valletta gli disse che il suo governo avrebbe troncato i rapporti con l’azienda torinese se questa non fosse riuscita a ridurre il peso che tra gli operai aveva la CGIL. Il timore di incrinare i rapporti con gli Stati Uniti spinse allora i dirigenti della Fiat ad avviare ondate di licenziamenti e di trasferimenti interni dei sindacalisti più combattivi, che vennero mandati nei reparti dove il lavoro era più duro. Addirittura, l’azienda concesse alle forze dell’ordine di utilizzare gli elenchi dei dipendenti per avviare una schedatura di quelli sospettati di essere simpatizzanti comunisti: qualcosa di molto simile al maccartismo allora diffuso nelle istituzioni e nella società statunitensi a opera del senatore repubblicano Joseph McCarthy (1908-1957).
Un discorso più ampio meriterebbe la questione delle ‘morti bianche’, ovvero degli incidenti mortali sul luogo di lavoro causati dalla mancanza di misure di sicurezza. Secondo l’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni), negli anni del boom i morti sul lavoro furono in media 4600 all’anno (cfr. G.C. Marino, Guerra fredda e conflitto sociale in Italia, 1947-1953, 1991, p. 44).
Un dato numerico elevato che trova conferma nelle testimonianze dei lavoratori, come quella di un ex operaio della Breda di Sesto San Giovanni – la cittadina alle porte di Milano nota come la Stalingrado d’Italia per l’alto numero di stabilimenti e di operai, ma anche perché i suoi elettori in larga maggioranza votavano per il Partito comunista –, che racconta:
Facevo il saldatore in fabbrica con ragazzi più o meno giovani che venivano da tutta Italia: dal Friuli sino alla Sicilia, alla Sardegna. In questo posto, Sesto, trovavi tutta l’Italia, è chiaro? […] Si lavorava dalle 8 sino alle 5, il sabato tutto il giorno e lavoravo anche alla domenica perché ero in manutenzione e gli impianti andavano. Quando son entrato nel laminatoi non sapevo neanche cos’era. Facevamo la ‘vergella’, la chiamavano: era un profilo molto piccolo, come una penna biro, un po’ più di uno spaghetto. Ma dovevi vedere quando passava su quei cilindri alla velocità di 50/60 chilometri all’ora, ma forte andava! E c’erano degli operai che lo prendevano con una pinza e poi lo infilavano in un cilindro. E se sbagliavano, saltavano le caviglie! Una volta quel ferro è partito e ha preso il gruista. L’ha passato da parte a parte. È morto sul colpo. […] Sapete dov’è il C.T.O., l’ospedale ortopedico? Beh, è nato quando è nata la Breda: allora ne succedevano tante ed è stato fatto un ospedale lì apposta (cit. in Attanasio, Villa 2010, pp. 5-7).
Dopo cinque-sei anni di relativa ‘pace sociale’, nuove proteste scoppiarono nel 1962, quando la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici, facente capo alla CGIL), nel corso delle trattative per il contratto dei metalmeccanici, chiese una riduzione dell’orario lavorativo da 44 a 40 ore settimanali, distribuite su cinque giorni invece che su sei. In luglio, a Torino gli operai di Fiat, Lancia e Michelin incrociarono le braccia, rivendicando aumenti di salario e il riconoscimento della terza settimana di ferie pagate. La loro mobilitazione durò un mese, durante il quale gli operai ricevettero il sostegno degli abitanti del quartiere di Borgo San Paolo. I lavoratori della Michelin occuparono la stazione ferroviaria di Porta Nuova, mentre per la prima volta dopo parecchi anni si astennero dal lavoro anche gli operai della Fiat Mirafiori: era l’alba di una nuova e tumultuosa epoca nella storia delle relazioni industriali in Italia.
Per quattro giorni, le forze dell’ordine e gli operai – armati con bastoni e bulloni – si fronteggiarono in piazza Statuto, mentre gli automezzi della polizia caricavano la folla. I dirigenti dei partiti di sinistra e alcuni giornalisti denunciarono la presenza nella folla di ‘agenti provocatori’, ma i processi contro i manifestanti arrestati dimostrarono invece che si era trattato proprio di operai, in maggioranza giovani e originari del Meridione: segno che la speranza di uno sviluppo armonioso dal punto di vista economico e sociale non si era avverata.
La frattura tra i principali sindacati impedì a lungo al movimento dei lavoratori di avere un peso sufficiente per aprire contrattazioni contrattuali con le aziende, e le condizioni di vita dentro le fabbriche migliorarono solo dopo il 1970, quando venne approvato lo Statuto dei lavoratori.
Un altro fattore di squilibrio della società italiana di allora può essere identificato nelle ondate migratorie, che in meno di vent’anni modificarono profondamente la struttura della popolazione, generando un rimescolamento senza precedenti. Centinaia di migliaia di persone lasciarono le campagne «per andare a stare in città», come cantava Adriano Celentano nella celebre canzone Il ragazzo della via Gluck (1966).
La partenza verso il ‘triangolo industriale’ o verso l’estero sembrava a molti l’unica via di fuga da realtà rimaste nella stessa situazione dell’immediato dopoguerra, come mise in evidenza l’inchiesta parlamentare sulla miseria. Promossa nel 1951 da un gruppo di deputati socialdemocratici – capeggiato da Ezio Vigorelli, Roberto Tremelloni e Giuseppe Saragat –, l’indagine andò avanti fino al 1953, con lo scopo di ‘fotografare’ lo stato reale del Paese, soprattutto nelle regioni e zone geografiche considerate più ‘a rischio’ per l’alto livello di povertà e disoccupazione: cioè la Campania, la Calabria, la Sardegna, il delta padano e le periferie delle grandi città.
Dai rilevamenti dell’indagine emerse che nel 1953 più di 12 milioni di italiani, pari a un quarto della popolazione, vivevano in condizioni di povertà; inoltre, 230.000 famiglie risiedevano in cantine, soffitte o magazzini, e altre 90.000 in baracche di lamiera. In questo quadro preoccupante, emergevano forti differenze di carattere geografico, dato che al Nord le famiglie disagiate erano il 5,8% del totale, al Centro il 15,6% e al Sud addirittura il 50,2%. Nel Mezzogiorno la gente spesso viveva ancora in case danneggiate dalla Seconda guerra mondiale, senza acqua potabile né luce elettrica.
Nel 1958-59, otto giornalisti del settimanale romano «L’Espresso» (Mario Agatoni, Nicola Caracciolo, Giuseppe Ciranna, Gianni Corbi, Manlio Del Bosco, Paolo Glorioso, Eugenio Scalfari e Livio Zanetti) svolsero un’inchiesta sullo stato di degrado esistente in cinque regioni meridionali (Campania, Calabria, Basilicata, Sicilia e Sardegna). L’inchiesta venne pubblicata in sei puntate nei mesi di aprile e maggio del 1959, con il titolo generale L’Africa in casa, e da essa emerse una situazione drammatica. Nella puntata dedicata alla Sicilia, per es., si diceva:
In quasi nessuna abitazione esiste il gabinetto. In alcune al posto del gabinetto c’è un foro sull’uscio di casa chiamato ‘buttatoio’ che comunica direttamente con un canale di scolo scavato ai margini della strada. […] Liuzza è una donna di 50 anni, analfabeta, non si è mai mossa di qui. Ha sposato il marito a 18 anni; hanno avuto dieci figli di cui quattro morti prestissimo. Oggi vivono tutti insieme nell’unica stanza di cui è costituita l’abitazione. Dormono in cinque nel letto matrimoniale, gli altri per terra nella paglia. Una cassa serve da tavolo, mancano stoviglie e posate.
Le conseguenze di tale realtà gravavano sulle spalle dei più giovani, colpiti da varie ‘piaghe sociali’: analfabetismo, disoccupazione, abbandono della scuola, lavoro minorile.
Impressionanti sono i dati relativi ai consumi alimentari. Secondo la citata inchiesta parlamentare, nel 1953 la grande maggioranza degli italiani viveva cibandosi essenzialmente di pasta, pane, patate e verdure crude. In particolare, il 38,2% delle famiglie (pari a 4,428 milioni di persone) non mangiava mai carne e il 27,5% (3,188 milioni) la mangiava solo una volta alla settimana, il 15,1% (1,750 milioni) non consumava mai lo zucchero e il 28,7% (3,327 milioni) non beveva mai neppure una gocia di vino; incrociando questi dati, risulta che 870.000 famiglie non consumavano mai né carne, né zucchero, né vino.
Nei quindici anni tra il 1955 e il 1970 si verificarono circa 25 milioni di cambi di residenza in altre regioni: il 70% delle persone che si trasferivano lasciava borghi e piccoli comuni rurali per andare a vivere in una grande città, vicino alle fabbriche.
Nel Nord, si svuotarono vaste zone di montagna e aree di pianura ‘depresse’ (come il Polesine), ma il fenomeno assunse aspetti ancora più radicali al Sud, dove i giovani partirono in massa, avendo come mete principali Milano e Torino e viaggiando sui cosiddetti Treni del Sole (i convogli a lunga percorrenza che univano le città del Sud a quelle del Nord). Qui trovarono un diffuso atteggiamento di ostilità e disprezzo, se non di vero e proprio razzismo, che si manifestava per prima cosa negli annunci immobiliari, in cui si specificava: «qui non si affitta a meridionali».
La differenza culturale e di mentalità era così grande che molti bambini giunti al Nord dopo aver frequentato la scuola nel Sud – dove spesso non parlavano l’italiano, ma solo il dialetto stretto del paese d’origine – venivano retrocessi di una o due classi perché non riuscivano a comunicare con insegnanti e compagni, che da parte loro si sforzavano ben poco per integrarli.
Il flusso improvviso di arrivi trasformò le città del Nord: Milano salì dai 1.275.000 abitanti del 1951 ai 1.680.00 del 1967, ma il cambiamento più rilevante fu quello subito da Torino, che passò da 719.000 a 1.125.00 abitanti, diventando la terza più grande ‘città meridionale’ della penisola. Anche Roma crebbe notevolmente, passando da 1.650.000 a 2.190.000 abitanti, ma attirò soprattutto i nuovi funzionari dell’amministrazione pubblica.
Tra il 1951 e il 1970 tutti i comuni oltre i 500.000 abitanti conobbero un incremento demografico, espandendosi a scapito della campagna coltivata. La crescita delle città medio-grandi venne favorita da vari fattori, come la trasformazione in uffici di molti edifici dei centri storici o l’aumento della mobilità (facilitata, questa, dall’ammodernamento delle vie di comunicazione, ma soprattutto dalla diffusione della motorizzazione privata).
In molti centri urbani le rotaie delle linee tramviarie dismesse furono sradicate per fare spazio alle auto, senza che le amministrazioni locali si preoccupassero minimamente del mantenimento di un buon sistema di servizi pubblici, né tanto meno della qualità dell’aria: tema, peraltro, diventato di allarmante attualità solo in anni recenti.
In mancanza di una seria politica di sviluppo del Meridione, molte persone emigrarono all’estero, come già avevano fatto in passato i loro nonni: nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, 7,5 milioni di italiani tentarono la fortuna nelle Americhe, in Australia o in altri Paesi europei (in particolare in Germania, Svizzera e Belgio).
La Campania vide partire 936.000 persone, la Puglia 856.000, la Calabria 750.000, mentre al Nord va segnalato il caso particolare del Veneto, con 856.000 emigranti.
Sul fenomeno esistono innumerevoli testimonianze, foto, videointerviste e inchieste giornalistiche, ma il documento più efficace è rappresentato da alcuni film (per es., Pane e cioccolata, 1973, di Franco Brusati, con Nino Manfredi), che mostrano i sogni e le difficoltà di questi immigrati irregolari, i quali, non conoscendo le lingue straniere, non avevano contatti con la popolazione locale e venivano sfruttati in lavori umili e degradanti.
Alto è il numero degli italiani che rimasero coinvolti in incidenti sul lavoro e persino in vere e proprie sciagure di massa, come quella avvenuta in una miniera di carbone presso Marcinelle in Belgio, dove l’8 agosto 1956 un’esplosione provocò la morte di 237 minatori: 139 di loro erano italiani che lavoravano nelle gallerie senza alcuna protezione.
Sulla spinta dei dirigenti democristiani di origine meridionale, dalla metà degli anni Sessanta il governo intervenne stanziando notevoli cifre per cercare di rilanciare l’agricoltura e per costruire nel Sud nuove infrastrutture (strade, linee elettriche e acquedotti). Si cercò anche di attirare le industrie in alcune aree urbane (come Salerno, Bari e Taranto), concedendo sgravi finanziari e contributi a fondo perduto attraverso la Cassa per il Mezzogiorno. Si trattò di uno sforzo enorme, ma con il passare degli anni le finalità politiche della DC – che con questi stanziamenti intendeva controllare i suoi tradizionali bacini elettorali e i suoi diversi interessi clientelari – minarono l’azione della Cassa, che venne prorogata sino al 1984, diventando un ‘carrozzone mangiasoldi’.
Il mutamento dei costumi
Gli anni del miracolo economico rappresentarono il periodo chiave di uno straordinario processo di trasformazione che toccò ogni aspetto della vita quotidiana: la cultura, la famiglia, i divertimenti, i consumi, perfino il linguaggio e le abitudini sessuali.
Un primo elemento che contribuì a cambiare la quotidianità fu rappresentato dallo sviluppo dei mezzi di trasporto, in particolare di quelli privati, che consentirono spostamenti più veloci. Sino agli anni Cinquanta, i viaggi extraurbani avvenivano sui mezzi pubblici (torpedoni, corriere e treni), assai lenti e sovraffollati, mentre in città ci si muoveva soprattutto in bicicletta.
Nei centri urbani, alle biciclette si affiancarono gli scooter, che riscossero un grande successo, tanto che le strade si riempirono di Vespe prodotte dalla Piaggio di Pontedera e di Lambrette prodotte dalla Innocenti di Milano. Nel 1956 venne realizzata la milionesima Vespa, mentre nel frattempo ai due marchi si erano aggiunte decine di altre case produttrici di moto (Vené 1990).
Il primato delle ‘due ruote’ non durò a lungo, poiché a partire dalla metà degli anni Cinquanta venne minacciato dalla diffusione delle automobili, che permettevano di viaggiare più comodamente e consentivano alle famiglie di raggiungere mete sempre più lontane, durante la gita ‘fuori porta’ della domenica o durante il periodo della villeggiatura. Gli anni Sessanta segnarono infatti l’inizio delle vacanze di massa, in genere trascorse nelle località di mare.
Con la contrazione della settimana lavorativa aumentò il tempo libero, che si poteva impiegare per lo svago: anche questa fu, per i tempi, una vera e propria rivoluzione, perché la grande maggioranza degli italiani poté spostarsi liberamente, affrancandosi dai limiti che il tempo e lo spazio avevano imposto a tutte le generazioni precedenti.
Un’altra protagonista fondamentale di questa fase fu la televisione, che diffuse i miti del consumismo capitalista, mettendo in moto un processo di rapida unificazione culturale.
Le trasmissioni della RAI (Radio Audizioni Italiane) iniziarono il 3 gennaio 1954 con un unico canale, in bianco e nero; il secondo sarebbe nato solo nel 1961. Poiché nella fase iniziale il costo degli apparecchi televisivi era molto elevato, in una sorta di rito collettivo le persone si recavano nei bar, nei circoli parrocchiali o di partito e addirittura nei cinema per seguire i programmi trasmessi dal nuovo mezzo di comunicazione, che stava ormai soppiantando la radio. Straordinario fu il successo della trasmissione televisiva a quiz Lascia o raddoppia? (1955-59), presentata da un giovane Mike Bongiorno (1924-2009) e divenuta un vero fenomeno sociale e di costume.
Altrettanto grande fu il favore con cui venne accolta la messa in onda a partire dal 1957, e per ben vent’anni, di uno spazio televisivo tutto dedicato alla pubblicità, Carosello. La struttura della trasmissione era molto rigida, fortemente controllata dalla SACIS (Società Italiana Commerciale Iniziative Spettacolo, l’azienda mandataria della RAI per il controllo e l’edizione della pubblicità), e prevedeva la messa in onda di brevi scenette, vere e proprie storie, sotto forma di filmati o cartoni animati, che non dovevano avere rapporti diretti con il prodotto da reclamizzare. Quest’ultimo poteva essere nominato solo nel finale e per non più di un certo numero di volte. La trasmissione costituì una particolarità tutta italiana per impostazione e per rigidità del meccanismo, ma segnò in ogni caso il costume del nostro Paese, creando alcuni modi di dire e personaggi entrati a far parte della cultura nazionale (Calimero per il detersivo Ava, l’omino Bialetti e altri ancora).
Sostenuta dalla pubblicità – che considerava le donne le potenziali maggiori consumatrici di nuovi prodotti – e aiutata dall’espansione dell’industria degli elettrodomestici – che potevano rendere più leggeri e veloci i lavori casalinghi –, la popolazione femminile vide aumentare il tempo libero a sua disposizione e contemporaneamente iniziò a emanciparsi dal controllo di padri e mariti.
Nonostante le prime aperture, la discriminazione tra i due sessi proseguì anche negli anni del miracolo economico, durante i quali numerose professioni restarono precluse per legge alle donne, per es. i posti da segretario comunale e da giudice. Solo nel 1968 la Corte costituzionale dichiarò incostituzionali le norme che prevedevano un diverso trattamento per le mogli e per i mariti in caso di adulterio.
Contemporaneamente, però, la scolarità femminile aumentò, sia in termini assoluti sia in rapporto a quella maschile; nelle scuole medie inferiori, per es., le ragazze salirono dal 42% del totale nel 1960 al 47,5% nel 1975 (percentuale che nei decenni successivi rimarrà pressoché invariata). Negli anni Sessanta le studentesse cominciarono a costituire la maggioranza nei licei-ginnasi classici e in quelli artistici; mentre crebbero rapidamente le presenze femminili anche negli istituti tecnici, frequentati sino a quel momento esclusivamente da maschi. Nel 1965 le ragazze costituivano ormai il 27,7% degli iscritti alle università, anche se la loro presenza era essenzialmente circoscritta a quelle facoltà che offrivano uno sbocco nell’insegnamento.
I giovani italiani, influenzati dai loro coetanei inglesi e statunitensi, accentuarono i comportamenti trasgressivi nell’abbigliamento, nei gusti musicali e nelle scelte di vita. Contemporaneamente crebbe il loro coinvolgimento civile e politico, che a lungo andare, durante la fase di crisi che seguì il miracolo economico, divenne la valvola di sfogo di un sentimento di delusione a lungo covato.
L’incuria ambientale
Un’ultima riflessione sulle conseguenze del rapido sviluppo economico riguarda il paesaggio – vanto nazionale e attrazione turistica per gli stranieri sin dai tempi del grand tour –, che venne letteralmente attaccato da un’incontrollata speculazione edilizia.
A partire dall’inizio degli anni Cinquanta si mise infatti in moto un fenomeno che purtroppo persiste anche ai giorni nostri e che nel corso degli anni ha provocato mutamenti disastrosi nel paesaggio urbano e rurale: migliaia di ettari di terreno agricolo e di boschi vennero occupati da colate di cemento, mentre antichi centri storici furono trasformati irreversibilmente, e numerosi sobborghi crebbero in maniera caotica attorno a stabilimenti industriali.
Si potrebbe scrivere un lungo elenco di laghi e fiumi inquinati dagli scarichi, mentre centinaia di chilometri di costa furono rovinati da speculatori arricchitisi costruendo stabilimenti balneari e alberghi sino a pochi metri dal mare. Alla base di tale scempio vi fu la scelta dei governi degli anni Cinquanta e Sessanta, retti dalla DC, di lasciare libera iniziativa ai privati nel settore dell’edilizia.
Ignorando la legge urbanistica del 17 agosto 1942 nr. 1150, che dava disposizione ai comuni di rispettare i piani regolatori, in questi ultimi vennero introdotte continue variazioni che ne mutarono profondamente la natura, consentendo alle imprese edilizie di costruire un numero sempre crescente di palazzi, eretti con materiali scadenti e sgraziati dal punto di vista architettonico. La mancanza di regole certe favorì la ‘corsa al mattone’, e il numero delle nuove case salì dalle 73.000 del 1950 alle 273.000 del 1957, sino ad arrivare al picco di 450.00 nel 1964.
L’INA-Casa, che era stata voluta da Fanfani per sostenere il suo piano di costruzione di case popolari per le classi meno abbienti, venne sostituita nel 1963 dalla GESCAL (GEStione CAse per i Lavoratori), un ente che finì presto sotto indagine da parte dei magistrati, i quali scoprirono un giro di fondi pubblici sottratti e di mazzette. In alcune zone il malcostume politico si incrociò con gli interessi della malavita, generando ‘comitati di affari’; che, per es., a Palermo, tra il 1959 e il 1963, fecero ottenere più di 4000 concessioni edilizie a sole quattro imprese controllate dalle cosche mafiose (Vecchio, Trionfini 2008, p. 367). Nel 1969, a Roma un’abitazione su sei era abusiva e più di 400.000 persone vivevano in abitazioni che secondo il catasto comunale non esistevano.
Il 9 ottobre 1963, una frana staccatasi dal monte Toc si riversò nel lago artificiale creato dalla diga sul fiume Vajont, provocando la tracimazione delle acque; di conseguenza, un’onda gigantesca investì e distrusse cinque paesi delle province di Udine e Belluno, uccidendo circa 2000 persone. All’inizio, molti politici e commentatori parlarono di una tragedia naturale e difesero la diga, costruita nel 1956, che con i suoi 261 m d’altezza rappresentava una delle maggiori fonti di orgoglio per l’ingegneria civile nazionale. Solo i dati usciti da un’inchiesta portata avanti negli anni che precedettero la tragedia da una giornalista de «L’unità», Tina Merlin, consentirono di individuare nei dirigenti dell’industria elettrica i veri responsabili dell’incidente: costoro, per interessi privati, avevano consentito un dissennato sfruttamento delle risorse naturali e la costruzione della diga in una zona a rischio sismico, nonostante i pareri contrari di alcuni esperti scientifici.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, lo scempio edilizio, l’impunità concessa ai corrotti, i mancati investimenti da parte dello Stato nelle infrastrutture e nei servizi pubblici si unirono all’assenza di manutenzione del territorio. Di conseguenza, la mancata cura delle terre di collina e di montagna rimaste spopolate e il disinteresse per i corsi d’acqua trasformati in discariche di liquami vari, in caso di abbondanti precipitazioni, finirono per provocare catastrofi naturali con esiti tragici.
Il 4 novembre 1966 la città di Firenze venne devastata da una grave alluvione, con il fiume Arno che allagò il centro storico provocando 34 vittime. Le acque e il fango raggiunsero e danneggiarono il Battistero e gli Uffizi, sommergendo migliaia di manoscritti e volumi conservati negli scantinati della Biblioteca nazionale. Nei giorni successivi, migliaia di giovani arrivarono nel capoluogo toscano da ogni parte del mondo per contribuire a mettere in salvo le opere d’arte e i libri: chiamati ben presto gli ‘angeli del fango’, queste persone diedero vita a un volontariato che da allora è cresciuto, diventando un fenomeno di massa. La loro mobilitazione costituì anche l’inizio di un’attenzione verso i temi dell’ecologia che dalla fine degli anni Sessanta si è trasformata in una vera e propria battaglia civile in difesa dell’ambiente e contro il crescente inquinamento e la speculazione edilizia. Sull’onda emotiva dei fatti di Firenze, nel 1966 nacque la sezione italiana del WWF (World Wildlife Fund).
Tra il diffondersi delle prime forme di protesta giovanile e la crescita di un rinnovato senso civico, nella fase conclusiva del miracolo economico si manifestarono dunque diversi segnali di un nuovo mutamento dell’ethos collettivo, che sarebbe poi venuto alla luce nel 1968. Lo scontro tra generazioni sui vestiti e sulla musica, sugli stili di vita e sulla lunghezza delle gonne per le ragazze celava uno scontro ben più radicale sui modi di concepire la vita e la politica.
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Si veda inoltre:
Ch. Attanasio, A. Villa, Le dismissioni nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni, 2010, e-book consultabile all’indirizzo www.fondazioneisec.it/include/spaw/uploads/files/opuscolodismissioni.pdf.