Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il mercato musicale è la somma dinamica di varie componenti, che riguardano l’esecuzione dal vivo (non escluso lo studio), gli strumenti per fare e ascoltare musica, le composizioni destinate all’interpretazione (editoria) o registrate (discografia), e il commercio dei diritti relativi per utilizzazioni all’interno di vari media (radio, televisione, cinema, internet). L’equilibrio fra le diverse componenti è soggetto a continue rinegoziazioni, a causa delle trasformazioni sociali o tecnologiche. La fase più rappresentativa della configurazione novecentesca di questo mercato va dagli anni Venti agli anni Ottanta.
Un mercato di massa
Le premesse per la formazione di un mercato musicale ampio, articolato, di massa sono già quasi tutte presenti negli ultimi decenni dell’Ottocento: la produzione in serie di strumenti musicali (nel 1880 negli USA si fabbricano 45.000 pianoforti); l’editoria musicale (negli anni Ottanta e Novanta si vendono milioni di spartiti di una singola canzone, a Napoli come a New York); la diffusione di locali di intrattenimento come il café chantant (Eldorado, Parigi, 1854; Salone Margherita, Napoli, 1890) e il music-hall (decine a Londra già negli anni Cinquanta); la regolamentazione del diritto d’autore (convenzione di Berna, 1886) e la fondazione delle società degli autori ed editori (la francese Sacem nel 1851 e l’italiana Siae nel 1882, che sarebbero state seguite dalla tedesca Gema nel 1903, dalla statunitense Ascap e dalla britannica Prs, entrambe nel 1914); l’invenzione del fonografo e del grammofono, con la fondazione delle prime case discografiche (American Columbia, 1888; US Gramophone, 1893; Pathé, Francia, 1894; Gramophone Co., GB, 1898; Deutsche Grammophon, Germania, 1899).
Anche il cinema (muto fino al 1927) rientra in questo quadro, se è vero che le proiezioni sono molto spesso accompagnate da musica: pratica che avrebbe portato, negli anni Dieci, alla realizzazione di formulari e raccolte come la Sam Fox Moving Picture Music (1913) e la Kinobibliotek di Giuseppe Becce (1919), anticipatrici dello stile delle colonne sonore della Hollywood degli anni Trenta. Rispetto allo schema già delineato nell’ultima parte dell’Ottocento, le grandi innovazioni che contribuiscono a configurare l’industria e il mercato della musica secondo linee che permarranno per più di mezzo secolo sono quelle che si affacciano negli anni Venti: la radio, l’elettrificazione degli strumenti e dell’ascolto, il cinema sonoro. A queste si aggiungeranno dopo la seconda guerra mondiale la registrazione su nastro e la televisione, fino a una nuova forte discontinuità introdotta negli anni Ottanta-Novanta dalla digitalizzazione, dall’informatizzazione di massa, dalle reti. Anche per il mercato della musica il Novecento è un secolo breve, inaugurato dalle innovazioni seguite alla prima guerra mondiale, e chiuso dalla globalizzazione consolidatasi dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La sua storia, anche nelle premesse ottocentesche, è quella di una competizione crescente tra diversi rami dell’industria e tra diversi media: una competizione feroce, a volte più aspra di quanto alla luce del pur spietato neoliberismo del Duemila non si possa immaginare.
I dischi e la radio
Il primo confronto è quello che si svolge nei primi decenni del Novecento, e che vede il progresso dell’industria discografica a spese di quella degli strumenti musicali, in particolare dei pianoforti. Il grammofono penetra più rapidamente del pianoforte nelle case delle classi sociali in ascesa, e tende a sostituirlo al centro del salotto borghese, nonostante la pianola (o player piano) per qualche tempo cerchi di limitare i danni della tendenza ad abbandonare la pratica musicale e a farla surrogare dall’uso di musica registrata.
Quando, negli anni Venti, entra in scena la radio, il nuovo apparecchio confina definitivamente il pianoforte al consumo delle élite socio-culturali, e allo stesso tempo colpisce severamente il grammofono e la sua industria. Le cifre parlano di un colpo davvero tremendo: nel 1921 negli USA il valore totale delle vendite di dischi è di 106 milioni di dollari (secondo certi indicatori di correlazione, è una somma corrispondente al valore del mercato nei primi anni del Duemila, secondo altri a un decimo: comunque, una cifra rispettabile). Negli anni successivi il valore scende a 92, poi a 79, 68, 59 milioni, dimezzandosi nell’arco di cinque anni. Nel 1933 (dopo una breve inversione di tendenza, proprio nell’anno della Grande Crisi, il 1929) la cifra si è ridotta a 6 milioni, con un calo in 12 anni di oltre il 94 percento. A trarre beneficio dal successo della radio è l’editoria musicale, che nello stesso periodo riesce a incrementare in modo molto significativo le entrate dovute alle licenze per l’utilizzazione radiofonica del repertorio: la statunitense Ascap passa da 35.000 dollari nel 1923 a quasi 6 milioni nel 1937, con una tendenza molto marcata alla smaterializzazione del business, sostituendo le entrate per i diritti a quelle dovute al commercio degli spartiti. Alla fine degli anni Trenta esplode il conflitto tra industria musicale e industria della radio, che porta alla fondazione di una seconda società di raccolta di diritti negli USA, la Bmi, promossa dalle emittenti e meno esosa nella richiesta di royalties. L’ostracismo delle radio nei confronti del repertorio rappresentato dall’Ascap favorisce gli editori associati alla Bmi e la musica da questi pubblicata: generi fino ad allora marginali, come la musica country (allora ancora chiamata hillbilly), il blues, la musica latino-americana, vengono portati all’attenzione del pubblico nazionale, inducendo trasformazioni radicali nel gusto degli americani e facendo volgere al declino il repertorio dei “classici” di Tin Pan Alley (George Gershwin, Cole Porter, Rodgers, Berlin). La competizione fra settori della stessa industria proseguirà nel dopoguerra, e vedrà le radio e la Bmi coinvolte nel successo del rock‘n’roll, e l’Ascap alla testa dell’iniziativa giudiziaria che accusa i dj di favorire il nuovo genere a causa della corruzione (payola).
Dai dischi in vinile alla musica su Internet
Gli anni Cinquanta sono segnati anche dalla competizione fra discografici per imporre una scelta tra i nuovi formati resi disponibili dalla tecnica di incisione su microsolco e dall’impiego della vinilite. La RCA favorisce il 45 giri, orientandosi a un mercato dominato dai successi singoli, mentre la Columbia spinge verso il 33 giri, puntando sulle antologie e sui recital. La “guerra delle velocità” in una prima fase vede la convivenza dei due formati, con una rapida affermazione del 45 giri nel processo di sostituzione del 78 giri (che scompare entro la fine degli anni Cinquanta).
Negli anni Sessanta, però, il mercato tende a orientarsi sempre di più verso l’album, e il sorpasso anche in termini numerici (non solo per fatturato) avviene nel 1968. Le cause dell’avvicendamento sono molteplici: tecnologiche (la diffusione di massa della stereofonia, dopo l’esordio come prodotto di élite nel 1958); ideologiche (il pubblico giovanile si orienta verso la complessità discorsiva dell’album e verso l’individualità degli autori/interpreti); musicali (la crescente articolazione compositiva del rock non trova spazio sul 45 giri); industriali. Fino a tutti gli anni Cinquanta l’editoria musicale ha avuto ancora un ruolo di traino, sottomettendo alle proprie esigenze un’industria discografica molto legata ai singoli mercati nazionali. Normalmente, un brano viene offerto dall’editore a diverse case discografiche, che competono per la versione (cover) di maggiore successo. Ma dopo il successo internazionale del rock‘n’roll e la nascita del mercato giovanile, l’industria discografica intuisce i vantaggi derivanti dal controllo della versione originale, potenzialmente commerciabile in tutto il mondo. Alla fine degli anni Cinquanta i discografici iniziano a incoraggiare apertamente i propri cantanti a scrivere le canzoni che interpretano: il modello del recital dello chansonnier trasferito su 33 giri, di cui è stato pioniere in Francia Georges Brassens, si estende ai protagonisti della bossa nova, ai cantautori italiani, ai folksinger americani, come Bob Dylan, e soprattutto ai gruppi inglesi, primi fra tutti i Beatles. L’industria discografica prende il sopravvento, e per la prima volta l’industria editoriale viene relegata al ruolo della negoziazione dei diritti, le cui fortune sono determinate interamente dalle politiche dei discografici.
A partire dagli anni Settanta, il mercato musicale appare sotto il controllo di un numero sempre più ristretto di multinazionali discografiche, che condizionano anche la musica dal vivo (ad esempio, influendo in modo molto marcato sulle stesse programmazioni delle istituzioni della musica colta). Non a caso, il luogo di intrattenimento che più profondamente segna il costume negli anni Settanta e Ottanta è la discoteca. Ma lo schema è destinato a trasformarsi radicalmente dopo l’inizio dell’informatizzazione di massa (1984) e la contestuale introduzione del nuovo formato digitale del CD. La crescente facilità con cui il pubblico può appropriarsi delle registrazioni copiandole su supporti sempre più sofisticati tende a marginalizzare il ruolo dell’industria discografica e a riportare al centro – per la prima volta dopo gli anni Venti – l’industria che produce apparecchiature elettroniche: dopo l’acquisto della Cbs da parte della Sony (1988) l’industria discografica tende sempre di più a configurarsi come titolare di diritti immateriali (quelli sulle registrazioni), mentre la vendita di beni materiali riguarda le multinazionali dell’elettronica e dell’informatica.
Nell’arco dell’ultimo ventennio del secolo, l’industria discografica passa dal ruolo di leader dell’innovazione nei media a quello di modesto fornitore di contenuti per i settori trainanti dell’elettronica di consumo, della pubblicità, dell’intrattenimento radiofonico e televisivo. Viceversa, si espande (sotto una nuova forma monopolistica e multinazionale, che vede in prima fila la statunitense Clear Channel) il business della musica dal vivo.