Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante il Cinquecento, nell’area mediterranea, si assiste allo scontro fra la Spagna, i suoi alleati e i Turchi ottomani. Le ragioni sono di carattere religioso, la lotta contro l’infedele, e politico-economico, la difesa e la garanzia della libertà dei commerci. In tale periodo il bacino mediterraneo è ancora un florido centro di scambi e di traffici; per assistere alla crisi e al rovesciamento delle basi economiche del suo primato bisognerà attendere la fine del XVI secolo.
Il Mediterraneo nel Cinquecento: la realtà politica
Se si osserva in una cartina geografica del tardo Cinquecento una tipica costa mediterranea come quella dell’Italia tirrenica, si è riportati prepotentemente alla realtà storica del tempo, nei suoi aspetti economici e politici. Infatti, come il succedersi di numerosi porti di piccole e grandi dimensioni evidenzia il ruolo svolto dallo scambio commerciale per via marittima nell’economia del periodo, così la linea ininterrotta di torri di costa ricorda la presenza e la realtà politica di un nemico proveniente dal mare, quello turco. Ma la cartografia, se da un lato può fornirci, con l’immediatezza propria della visualizzazione, le due coordinate fondamentali per comprendere la storia del Mediterraneo durante il XVI secolo, non può però mostrarci il loro intreccio e vicendevole condizionamento. Nel ripercorrere, infatti, le tappe che caratterizzano lo scontro nel mare Mediterraneo tra l’Impero ottomano e la Spagna imperiale di Carlo V prima, e di Filippo II poi, non bisogna dimenticare che alle evidenti motivazioni di carattere religioso (la lotta contro l’infedele) si sovrappone la necessità di difendere la libertà di navigazione commerciale fra i diversi Stati e la sicurezza dei porti.
L’espansionismo turco e i fenomeni di pirateria a esso connessi minacciano direttamente le coste dell’Italia meridionale e tutto il braccio di mare prospiciente l’Africa del nord. In varie occasioni, ad esempio, il grano siciliano, diretto verso la Spagna, è attaccato e depredato, allo stesso modo delle ricchezze provenienti dall’America lungo la rotta marina Barcellona-Genova.
I conflitti che vedono opposte la flotta cattolica e quella turca nel corso del XVI secolo sono numerosi. Prima di soffermarci sui tre principali, è opportuno ricordare come in un medesimo scenario abbiano convissuto realtà differenti e sfaccettate. Differenti, perché accanto alla battaglia di Lepanto, combattuta nel 1571 tra le flotte di Venezia, della Spagna, del pontefice, di Genova e dei Savoia da una parte, e quelle dei Turchi dall’altra, e alla diffusione su scala europea della sua epopea, si hanno le infinite scaramucce tra navi nemiche incontratesi per caso in alto mare e, insieme a ciò, anche i continui, improvvisi e fuggenti assalti corsari lungo le coste, destinati a divenire racconto quotidiano e popolare, “favole di saraceni” da narrare intorno al fuoco nelle lunghe serate invernali delle popolazioni marine. Sfaccettate, perché – dietro la percezione politica ed emotiva di un nemico “ovunque e comunque” – esiste una realtà diplomatica più fine, fatta di paci e accordi separati, dialoghi e trattative. Tali rapporti sembrano testimoniare l’elevato grado di autonomia ormai raggiunto dalla ragion di Stato, che in virtù di una concreta “ragion di commercio” si affranca dai doveri di obbedienza religiosa imperniati sullo spirito di crociata e di guerra santa.
Una prima fase del conflitto con i Turchi ha inizio nel 1535 e si protrae fino al 1539. Carlo V in persona prende parte alla spedizione spagnola del 1535 in nord Africa che si conclude con la conquista di Tunisi. Ma questa prima crociata mediterranea non riesce a stabilizzare i nuovi possedimenti territoriali perché, nel settembre del 1538, al largo della costa ionica della Grecia, nei pressi di Prevesa, la Lega Cattolica viene sconfitta dalla marina ottomana. La Repubblica di Venezia, che aveva fatto parte della coalizione, ottiene una pace separata con i Turchi; oltre a Cipro mantiene Corfù e Creta e si garantisce la conservazione di una posizione favorevole nel commercio mediterraneo. L’anno successivo Andrea Doria, che tentava di prendere la città di Algeri per estendere i possedimenti cattolici lungo la fascia di costa africana, è sconfitto ed è costretto a ritirarsi con il suo contingente navale.
Vi è una seconda fase di scontri che inizia nel 1551, quando la Spagna perde l’importante base di Tripoli. Ciò produce, negli anni successivi, un incremento della pirateria barbaresca che può contare su un ulteriore avamposto per intercettare e attaccare le navi nemiche e trovare rifugio prontamente in zone sicure. Ragion per cui nel 1559, Filippo II decide di attaccare l’isola di Jerba, con l’intenzione di trasformarla in base navale per poter arginare più efficacemente la pirateria proveniente da Algeri e Tripoli. Nonostante l’ampio spiegamento di forze – più di 90 navi e 10.000 soldati – l’isola è occupata però solo nel marzo del 1560. Il cattivo tempo, la lunga sosta nell’isola di Malta e un’epidemia scoppiata tra i marinai, oltre a rallentare la navigazione, indeboliscono le forze spagnole tanto che l’isola, appena conquistata, è subito perduta. Negli anni successivi i Turchi estendono il loro predominio marino che culmina nel 1565 con l’assedio della strategica base navale di Malta.
La decisione di Filippo II di aprire un ulteriore fronte di lotta nel Mediterraneo è probabilmente incauta se riportata al contesto europeo; essa appare però determinata proprio da tale contesto. Infatti l’apertura in quegli anni di altri due fronti di guerra – quello nei Paesi Bassi con i suoi eretici e quello balcanico, per contrastare ancora una volta l’espansionismo turco via terra – esigeva un’elevata concentrazione di risorse, beni e vettovaglie nell’Europa del nord, la cui affluenza non poteva trovare ostacoli ed esigeva mari sicuri.
Sono questi i principali motivi che conducono, all’inizio degli anni Settanta, all’apertura di una terza e decisiva fase del conflitto fra l’Impero ottomano e le forze cattoliche. La necessità di risolvere definitivamente la “questione mediterranea” nel suo intreccio di motivazioni religiose ed economiche, di ortodossia della fede e libertà dei commerci, porta a un’accelerazione dello scontro che culmina con la battaglia di Lepanto del 1571. Il casus belli è fornito dal nuovo sultano ottomano Selim II che nel luglio del 1570 attacca i possedimenti veneziani di Cipro, attratto dalla posizione strategica dell’isola e dalle sue ricchezze (zucchero, sale, cotone). Nel settembre del medesimo anno cade Nicosia e, nell’agosto del 1571, la città di Famagosta fra il giubilo delle popolazioni locali vessate dalla dominazione veneziana e il massacro dei soldati e degli amministratori della Serenissima. Papa Pio V, facendo appello allo spirito di crociata contro l’ottomano infedele ormai prossimo alla vittoria, il 20 maggio 1571 promuove una Lega Santa che coinvolge la Spagna, le repubbliche di Venezia e di Genova e il Ducato di Savoia. I limiti della lega sono da individuarsi nella reciproca diffidenza degli alleati. Infatti, se la Francia sceglie di tenersi del tutto fuori dalla coalizione preferendo, alla riuscita della crociata, l’indebolimento dello storico nemico spagnolo, il papa e Filippo II, da parte loro, temono che i Veneziani si accordino con i Turchi per avere libertà commerciale in cambio di una posizione di non belligeranza. La flotta, al comando dell’ammiraglio spagnolo Giovanni d’Austria, inizia una lenta navigazione alla ricerca del nemico. I due schieramenti si incrociano a Lepanto, al largo di Patrasso, in Grecia. La battaglia è straordinaria per spiegamento di forze e violenza: 230 navi turche e 208 cristiane si affrontano prima a colpi di cannone e poi all’arrembaggio e circa 30.000 Turchi trovano la morte. L’evento viene celebrato in tutta l’Europa cattolica e la notizia dell’epocale vittoria contro l’infedele nemico islamico circola e si diffonde fra gli strati popolari attraverso un’efficace propaganda fatta di medaglie, opuscoli e rappresentazioni.
Tuttavia il mito della battaglia di Lepanto, sul quale a lungo indugia anche la storiografia successiva, sviluppa una fama non giustificata dalle reali conseguenze politiche e storiche della vittoria. Se è vero, infatti, che il successo darà un grande prestigio alle forze della Lega Santa e che i prigionieri turchi diverranno un efficace motore per le loro galere, è anche vero che l’anno successivo il sultano ha già ricostruito la flotta andata distrutta. Inoltre Venezia, per parte sua, con trattative segrete giunge a barattare l’isola di Cipro – ossia la terra che aveva originato tanta mobilitazione e contesa – con diritti commerciali a lei più favorevoli; e la Spagna, infine, nel 1574 perde la città di Tunisi che pure l’anno precedente era riuscita a riconquistare, sulla spinta della vittoria di Lepanto. Certo però è che, dopo la battaglia di Lepanto, la spinta offensiva turca per mare si attenua molto; il Mediterraneo cessa progressivamente di essere un campo di battaglia, ma la lotta contro gli Ottomani non si arresta continuando via terra, lungo il fronte ungherese.
Il Mediterraneo nel Cinquecento: la realtà economica
La storia del Mediterraneo durante il XVI secolo e, in modo particolare, la sua storia economica ha trovato nello storico Fernand Braudel uno straordinario e innovativo interprete. Raramente è possibile trovare una questione storiografica tanto legata al suo esegeta come in questo caso: dopo gli studi dello storico francese, basati su un’imponente ricerca d’archivio, il Mediterraneo del XVI secolo è divenuto il Mediterraneo di Braudel. Il suo merito principale è quello di proporre una lettura nuova delle vicende accadute in questo antico centro di traffici e civiltà.
La tesi classica sosteneva che alla conquista turca di Costantinopoli e alla scoperta dell’America corrispondeva un’automatica crisi e decadenza del mondo mediterraneo. Braudel, invece, ha dimostrato come, durante il Cinquecento, l’economia mediterranea abbia evidenziato sostanziali segni di tenuta e una sorprendente capacità di adeguamento a una situazione in profonda mutazione. Per tutto il Cinquecento, fra alterne fortune, i paesi mediterranei reggono la concorrenza economica e commerciale di quelli oceanici. Nonostante l’esplosione dell’economia atlantica, riguadagnano presto le posizioni perdute e, dopo la metà del XVI secolo, il Mediterraneo è tutt’altro che un mondo in crisi. Al punto che Braudel arriva a parlare, per il periodo tra il 1550 e il 1570, di una “rivincita mediterranea”. Ad esempio, pur con la presenza della pressione turca e quella dei paesi atlantici, le spezie continuano ad affluire verso Venezia che argina la concorrenza della nuova via delle Indie facente capo a Lisbona. Così come le città di Genova, Firenze e Milano continuano a rappresentare il centro propulsore della vita mediterranea. Alla seta lombarda, infatti, si aggiunge quella prodotta dalla Calabria, e Genova, negli anni Sessanta, allo scoppio della rivolta nei Paesi Bassi diviene una delle città più ricche d’Europa perché l’argento americano – per evitare la pirateria anglo-olandese e seguire la più sicura rotta mediterranea da Barcellona – inizia a confluirvi massicciamente. Anche dal punto di vista dell’evoluzione tecnologica la diffusione su grande scala dello scafo a fasciame sovrapposto, rendendo più resistenti e sicure le barche, permette di affrontare con minori rischi la navigazione invernale. Un porto come Ragusa (la Dubrovnik dei nostri giorni), sulla costa adriatica, diviene un importante centro di commercio e un emporio a livello europeo. I suoi grandi velieri da carico trasportano per il Mediterraneo sale, balle di lana, legno, grano e pelli di bufalo, facendo la fortuna dei diversi proprietari sparsi nelle più importanti città d’Europa.
Ma, sul finire del Cinquecento, la situazione appena descritta inizia a mostrare i primi segni di cedimento che diverranno, nel volgere di un ventennio, crisi irreversibile.
L’economia mediterranea che per un secolo, pur sulla difensiva, resiste ed è in grado di svilupparsi in coincidenza di particolari congiunture favorevoli, deve lasciare il passo alla nuova e agguerrita economia dei paesi nordici. Nel lungo periodo, infatti, non appena l’economia atlantica raggiunge una sua organizzazione e stabilità interne, si palesano gli effetti del divario tra il mondo mediterraneo e una zona economica del nord in trasformazione. I fattori di questa crisi sono diversi. Se tra il 1530 e il 1550 i paesi mediterranei avevano ben resistito a una prima invasione del commercio dei paesi atlantici, dopo la riscossa degli anni Sessanta e Settanta, una seconda ondata di velieri nordici conquista definitivamente il bacino mediterraneo. Al commercio portoghese si aggiunge quello degli Olandesi, ma i “carrettieri del mare” mostrano una efficacia e una spregiudicatezza senza uguali. Con imbarcazioni meglio armate, equipaggi più efficienti e la pratica della pirateria e della contraffazione dei prodotti, si impadroniscono progressivamente delle rotte interne di navigazione. Sono ormai gli Olandesi che portano dalla Spagna fino al nuovo porto di Livorno le balle di lana che raggiungeranno, in seguito, Venezia. Ma il colpo determinante all’economia mediterranea si ha quando gli Olandesi si sostituiscono ai Portoghesi nel dominio dell’oceano Indiano. Conquistano quindi il monopolio del commercio del pepe e delle spezie, sostituendosi, così, ai Veneziani e ai Turchi nel Mediterraneo.
L’Italia, Paese a economia mediterranea per eccellenza, sul finire del Cinquecento mostra significativi indicatori di crisi: non sono solo i Veneziani a segnare il passo, ma anche le altre città italiane che vengono escluse dallo scambio dei nuovi prodotti a lunga distanza, come lo zucchero brasiliano e antillano, il tabacco, il tè e il caffè. A rendere la situazione ancora più grave, tra il 1590 e il 1593 si profila una crisi agraria.
Essa evidenzia un millenario punto debole dell’economia mediterranea, cui, non corrisponde –in questo caso e come sempre è avvenuto nei momenti di crisi del sistema –un’efficace capacità di reazione. Tranne Venezia, cui è sufficiente la produzione del retroterra per soddisfare il proprio fabbisogno annuale, tutte le grandi capitali mediterranee dipendono dai grani di Puglia, di Sicilia, d’Egitto e dell’Africa del Nord. A metà del secolo una prima avvisaglia di crisi è arginata rivolgendosi al grano dei paesi del mar Nero, controllati dagli Ottomani, e a quelli delle regioni baltiche, gestiti dai mercanti dei Paesi Bassi.
Ma questo sforzo, dettato dalla necessità di rifornire di pane e sfamare le grandi città-capitali, favorisce l’entrata dei velieri nordici nel Mediterraneo. Negli anni Novanta, il ripetersi di cattivi raccolti e la contrazione delle esportazioni siciliane segnano il punto di partenza di un’inversione dei rapporti economici tra Europa del Nord e mondo mediterraneo. Alcune cifre, nella loro crudezza, testimoniano la crisi raggiunta dalle economie dei Paesi del Mediterraneo: a Livorno arrivano in quegli anni 150.000 quintali di grani baltici; a Genova, se nel 1590 il tonnellaggio totale delle navi da carico nordiche era stato di 7.000 quintali, nel 1592 raggiunge l’enorme cifra di 200.000 quintali. Una vera e propria invasione che porta con sé il suo inevitabile carico di dipendenza. Prima della crisi lo scambio con i paesi nordici si limita a prodotti di lusso, come il pepe e la seta in cambio di metalli e legnami; ora la necessità di grano rende svantaggiosa una secolare tendenza economica favorevole ai paesi mediterranei.
Termina così quello che Braudel definisce “il lungo Cinquecento”. Il Mediterraneo esce dalla grande storia e cessa di essere un fronte determinante della politica mondiale: il centro dei commerci e della politica si sposta dal mare interno all’oceano Atlantico.