Il Medioevo tra etica e profitto
Nel 1444 cessano di vivere due personaggi centrali della civiltà toscana cittadina e mercantile dell’ultimo Medioevo: Bernardino degli Albizzeschi e Leonardo Bruni. L’uno, senese, appartenente all’ordine francescano, e anzi leader della sua ala più rigorista, l’Osservanza, e l’altro, aretino di nascita, emblematico rappresentante dell’Umanesimo fiorentino, avevano in contesti differenti sostenuto che la ricchezza è il ‘calore naturale’ delle città, il sangue che circola nel corpo civico e lo vivifica. Leonardo Bruni, su questa base, aveva concluso che l’arricchimento è il fine ultimo e più degno di ogni organizzazione familiare e che, così come l’arte medica deve produrre la salute, la famiglia deve produrre la ricchezza. Né Bernardino né Bruni, però, avevano fatto queste scoperte e teorizzato indipendentemente da una tradizione: entrambi, invece, ricavavano queste loro rappresentazioni della vita economica da secoli di riflessione prodotta, nelle città-Stato e nei regni italiani, da una corrente testuale che sarebbe inesatto definire laica o confessionale. Essa si collocava, infatti, all’interno di una crescita culturale complessiva che dell’economia e della vita dei mercati faceva uno snodo essenziale del modello sociale che la società cristiana medioevale, nel suo insieme, era venuta costruendo.
Una costante e formale attenzione alla vita dei mercati e alle logiche dello scambio, dunque un pensiero economico, è in effetti già ben percepibile nell’Italia comunale del Due e del Trecento soprattutto se si guarda a quanto scrivono in materia di denaro, profitti e circolazione delle merci gli esperti di diritto canonico e civile, e i teologi.
All’origine di quella riflessione, da considerare, più che una teoria astratta in senso moderno, una codificazione di comportamenti economici esistenti, ma ancora non ben definiti e non compiutamente intesi in quanto appartenenti all’ordine sociale presupposto come etico e razionale, sta certamente l’elaborazione normativa prodotta dalla Chiesa d’Occidente riguardo al rapporto che doveva intercorrere fra beni sacri, la cui gestione spettava al clero consacrato, e beni non sacri, la cui amministrazione era invece di competenza dei laici, ovvero dei non consacrati. A partire da questa differenza, tradizionale, ma concretizzata in termini più specificamente giuridici soprattutto nell’ambito del diritto canonico del 12° sec., era stata definita l’inalienabilità e cioè la non commerciabilità dei beni mobili e immobili delle istituzioni sacre, chiese o monasteri che fossero, e invece la possibile commercializzazione dei beni dei laici secondo una logica di determinazione dei prezzi che, ricavata in radice dal diritto romano, stabiliva la possibilità di vendere e comprare al prezzo ‘comunemente stimato’, ossia facendo riferimento a quanto secoli dopo sarebbe stato indicato come prezzo di mercato. Già durante questa prima fase, la radice ecclesiologica di quella che sarebbe poi diventata una razionalità economica predisponeva nettamente un’analisi dei contesti economici impostata a partire dal significato istituzionale, e cioè pubblico, delle transazioni e dei contratti. Non la forma del contratto lo rendeva, a questo punto, legittimo e legale, ma la qualità sociale e istituzionale di chi lo poneva in essere e dunque la sua utilità, alla luce di un più generale modello di organizzazione sociale.
Questo inizio del pensiero economico italiano è, dunque, da un lato fortemente determinato dall’egemonia ecclesiastica nell’ambito della produzione di scritture riguardanti, in particolare, l’amministrazione di patrimoni che, come quelli delle chiese, erano stati dichiarati di importanza pubblica – già fra 6° e 9° sec. – prima dalla legislazione dell’imperatore Giustiniano e poi da quella degli imperatori carolingi, e dall’altro concretamente orientato ad analizzare soprattutto il rapporto fra valore e prezzo delle cose, ma anche del denaro, dunque le logiche della compravendita e dello scambio creditizio. Ciò in conseguenza non soltanto della rapida espansione dei mercati fra 11° e 13° sec., ma anche del fatto che i mercati dell’Europa occidentale, a cui questa riflessione si riferisce, erano decisamente caratterizzati in senso binario dalla differenza qualitativa, politica e culturale, dei beni e del denaro che su di essi venivano commerciati.
L’accennata definizione di inalienabilità, ossia di eccezionalità commerciale, dei patrimoni ecclesiastici, l’enunciato giuridico di una loro gestibilità riservata ai consacrati, perfettamente chiara almeno dall’11° sec., la possibilità tuttavia, in alcune circostanze, di operare legittimamente relazioni di scambio fra beni delle chiese e beni dei laici, inducevano i giuristi, i teologi, ma anche gli amministratori e finanche la Santa Sede a ragionare e legiferare riguardo ai mercati e alle forme contrattuali che li articolavano, fermo restando che il nucleo più controverso e più fecondo di queste argomentazioni e delle conclusioni che ne scaturivano era e sarebbe rimasto a lungo il problema del prezzo ‘giusto’, e cioè adeguato, di cose e denaro, ma anche, soprattutto dalla seconda metà del Duecento, del lavoro.
In questa prima fase del pensiero economico italiano resterà marginale, o sarà comunque affrontata solo di riflesso, la questione dei modi di produzione e di consumo delle materie prime e dei prodotti, benché il tema della trasformazione e della commercializzazione dei beni economici venga toccato nell’ambito delle molteplici trattazioni concernenti lo scambio e la bilancia dei prezzi.
La scuola giuridica di Bologna, in quanto centro di studi dedito all’approfondimento e alla codificazione del diritto canonico e civile, inizierà quindi, sia per mezzo del codice di diritto canonico attribuito al monaco camaldolese Graziano (verso il 1140), sia per mezzo delle interpretazioni del diritto romano-cristiano promulgato nel 6° sec. dall’imperatore Giustiniano (il Corpus iuris civilis) e attribuite a celebrati giuristi come Irnerio (1050 ca.-1130 ca.), Azzone (1150 ca.-1225 ca.) e Accursio (1181 ca.-1263 ca.), a ragionare sul significato delle relazioni economiche e delle realtà dinamiche che, come il denaro o le merci, le concretizzavano di giorno in giorno. Già in questa fase, che può datarsi dal primo quarto del 12° alla metà del 13° sec., il dialogo fra diritto canonico e civile è fitto e ininterrotto, tanto che alcune definizioni economiche cruciali, come quella della variabilità del significato delle transazioni creditizie in rapporto alla qualità di chi ne era protagonista, possono essere considerate il prodotto complesso di un intreccio testuale fra il diritto canonico enunciato nel Decretum Gratiani e perfezionato dai suoi commentatori, a cominciare da Rufino di Bologna (12° sec.), e il diritto comune prodotto dalla scuola dei glossatori del diritto romano, da Irnerio in avanti.
È infatti in questo ambiente testuale e dottrinario che si comincia a stabilire che le variazioni del tasso d’interesse dipendono dal ruolo e dal contesto sociale, ossia dal significato pubblico delle transazioni, ma anche che le molte forme della relazione creditizia, ovvero le molteplici figure contrattuali che danno vita alle dinamiche del credito, ricavano il loro significato dal soggetto istituzionale o privato che le mette in pratica. Per questa ragione, sin dal 12° sec. il mutuo su base ipotecaria e il percepimento da parte del prestatore degli interessi costituiti dai frutti del bene ipotecato sono dichiarati validi e consentiti, dal diritto canonico, in tutti i casi in cui il contratto sia motivato da una situazione di bisogno dell’ente ecclesiastico che contrae il mutuo. Nello stesso tempo, il medesimo diritto canonico, soprattutto nella redazione delle Decretali di Gregorio IX, che nel 1239 incorporano molto materiale conciliare del secolo precedente, dichiara l’illegittimità dell’usura intesa come compravendita di denaro operata da privati unicamente al fine di aumentare e tesaurizzare quantità di ricchezza il cui significato pubblico non appare definibile.
Tuttavia, proprio in questa importantissima compilazione canonica, la differenza fra la vendita di un bene immobile e la sua cessione come pegno che garantisce un prestito i cui interessi sono costituiti dai frutti prodotti dal bene immobile stesso, è molto spesso dichiarata incerta. La soluzione al dubbio sulla natura usuraria del contratto proviene, dunque, di norma, come dichiarano molte lettere bollate di papa Innocenzo III già nei primissimi anni del Duecento, dal fatto che «è nota l’abitudine del compratore di prestare ad usura» (Decretales Gregorii IX, 1959, 527). In altre parole, dato che, per l’economia di questi secoli, la differenza formale fra la vendita di un bene (immobile) in cambio di un prezzo e la sua cessione a tempo determinato in cambio del pagamento di una rendita è molto sottile o addirittura inesistente (Grossi 1963), lo spartiacque fra legalità della compravendita e illegalità del prestito a interesse sta nella personalità del compratore/prestatore, ovvero nel fatto che la sua attività economica sia riconosciuta come effettivamente commerciale e cioè pubblicamente utile, oppure al contrario abitualmente orientata all’accumulazione privata e dunque pubblicamente inutile e dannosa.
L’elaborazione di questa cruciale differenza, già presente in radice nel Decretum Gratiani verso il 1140, era stata sviluppata, fra l’altro, prima di depositarsi nelle Decretali di Gregorio IX, nell’opera giuridica (la Summa magistri Rolandi) del canonista Rolando Bandinelli (1100 ca.-1181), senese, e papa dal 1159 con il nome di Alessandro III, e sarebbe poi stata ulteriormente analizzata nell’opera (l’Apparatus in quinque libros decretalium) di un altro importante canonista, Sinibaldo Fieschi (1195 ca.-1254), genovese, anch’egli eletto al soglio pontificio nel 1243 con il nome di Innocenzo IV. Proprio nell’Apparatus di Sinibaldo Fieschi, verso il 1240, si ritrova una definizione dell’usura di grande interesse:
L’usura è tanto generalmente proibita, dal momento che se fosse lecito riceverla, ne deriverebbe ogni tipo di male, soprattutto perché gli uomini non si dedicherebbero più alla coltivazione delle loro terre […] e si verificherebbe così una carestia tale da far morire di fame tutti i più poveri; visto che, se anche potessero avere terre da coltivare, non avrebbero però animali e attrezzi utili alla coltivazione della terra, poiché i poveri non li possiedono, e i ricchi sia per smania di guadagno che per garantire la sicurezza del proprio denaro, lo investirebbero piuttosto nell’usura che in imprese meno sicure e meno profittevoli, e anche se qualcuno volesse investire nella terra, in ogni modo i viveri sarebbero talmente cari che i poveri non avrebbero di che comprarli; e tutto ciò verrebbe a costituire un enorme pericolo per i fedeli […] Inoltre, è difficile che chi si trovi indebitato a lungo possa scampare a una condizione di povertà, condizione, questa, alquanto pericolosa, a meno non derivi da un desiderio specifico di essere poveri concesso da Dio come dono speciale […] E se poi fosse anche possibile rintracciare qualche caso in cui per un diritto naturale che la natura concesse all’uomo, l’usura non fosse peccato, essa sarebbe tuttavia proibita in conseguenza dei mali e dei pericoli che determina. Dicono comunque alcuni, e forse non a torto, che non è possibile scoprire alcuna situazione determinata da istinto naturale che sia capace di rendere legittima l’usura; altri dicono anche che l’usura è proibita perché è contraria all’affetto solidale (charitati) e alla compassione reciproca (pietati), in virtù delle quali si è tenuti a soccorrere il prossimo, piuttosto che per i danni che ne derivano. In effetti, per quanto certi pericoli per l’organizzazione sociale possano derivare talvolta da altre relazioni contrattuali, esse tuttavia non per questo sono vietate così unanimemente (Apparatus in quinque libros decretalium, XIX, 1570, f. 516r).
Il testo, riccamente sfumato, rappresenta il contratto di prestito a interesse nei termini precisi di una transazione fra privati da rigettare per quattro ragioni fondamentali: la sottrazione di denaro all’investimento commerciale o agricolo, il generale rialzo dei prezzi che ne deriva, la dissoluzione di relazioni sociali riassunte nella parola caritas, l’impoverimento collettivo. Già nell’impostazione del futuro Innocenzo IV, in altre parole, il problema del costo del denaro e delle speculazioni sulla sua compravendita è ricondotto a scelte di investimento da intendersi come riprovevoli se determinate da volontà di arricchimento individuali e cioè postulate come esterne alla dimensione politica, ecclesiologica e morale denotata dalla parola caritas. Significativamente, Sinibaldo Fieschi dubita della possibilità di negare la validità economica del prestito a interesse sulla base del diritto naturale, poiché questa opzione finirebbe per dichiarare illegale ogni tipo di investimento creditizio, e tende piuttosto a concludere che è lo specifico contratto di mutuo fra privati, nettamente contrapposto all’investimento commerciale, a determinare dinamiche di tipo inflattivo e disgregazione sociale.
Pochi anni dopo, del resto, un altro canonista fortemente interessato a chiarire i meccanismi creditizi essenziali al funzionamento di un’economia che, come quella delle città italiane del Duecento, prevedeva un continuo e sistematico ricorso alla dilazione di pagamento, Enrico da Susa, cardinale di Ostia, nella sua Summa super titulis Decretalium o Summa aurea – verso il 1260 – avrebbe stabilito una volta per tutte, codificandola, la possibilità di intendere come non usurari molti tipi di relazione creditizia. Se si fa attenzione a questa tipologia che sarebbe poi entrata nella tradizione giuridica europea tanto laica quanto ecclesiastica, senza volerla aprioristicamente definire come serie di eccezioni a una norma inequivocabile, si nota subito che essa pur ponendosi come catalogo di, appunto, ‘eccezioni’ al divieto di usura ribadito più volte dai Concili lateranensi del 1139, 1179 e 1215, scardina in realtà l’univocità di quel divieto astratto per riallacciarsi alla sostanza del diritto canonico impostato dal Decretum di Graziano e stabilire la legittimità delle dinamiche creditizie intese come utili alle istituzioni e alla collettività sociale cristiana, rappresentata a questo punto come meta-istituzione a sfondo confessionale.
Si comincia dunque a stabilire che il denaro vale più di se stesso, e dunque un prestito può essere compensato da un interesse, tutte le volte che tale denaro appartiene a un soggetto sociale che di norma lo investe in operazioni economiche il cui fine è l’utile istituzionale e collettivo: le chiese, le città, ma anche coloro che investono nel commercio abitualmente e non sono cioè usurai di professione, risultano a questo punto presupposti come soggetti economici il cui denaro, produttivo in quanto appartenente a protagonisti del ‘bene comune’ della collettività cristiana, è per ciò stesso fertile. L’alienazione di questo denaro, nella forma del credito, impone dunque la maturazione di un interesse, ovvero deve essere compensata da un prezzo equivalente, si dichiara ormai, al ‘danno’ patito da questi operatori economici quando si privano di una somma intesa come ‘capitale’ circolante, e di conseguenza utile alla collettività considerata sia come res publica in senso civilistico, sia come societas christianorum in senso teologico e canonistico.
Prima del 1270, insomma, il pensiero economico italiano, a sfondo giuridico-canonico, legge la circolazione del denaro e delle merci che si manifesta nei mercati locali, di certo non ancora intesi come sezioni di un mercato più astratto, nei termini di un sistema di relazioni commerciale e creditizio il cui significato e la cui legittimità dipendono, più che dalla forma dei contratti, del resto ancora in fase di definizione, dall’appartenenza dei soggetti economici ad ambiti istituzionali presumibilmente o certamente connessi alla logica del bonum commune, o, se lo si preferisca, alle dinamiche dell’organizzazione civica e statuale. L’antica differenza fra una inalienabilità dei sacri beni delle chiese, che predisponeva una molteplicità di figure contrattuali finalizzate ad amministrarli utilmente, e una commerciabilità dei beni dei laici tanto più intesa come produttiva quanto più connessa all’amministrazione degli enti sacri, si traduce a questo punto in una sempre più sistematica definizione di legalità degli affari praticati nell’ambito dello spazio pubblico, ormai chiaramente identificato come identico allo spazio giurisdizionale controllato dalle città, dalle chiese e dai regni, ossia da poteri pubblici il cui carisma è per definizione cristiano.
La relazione creditizia e quello che è rilevato come il suo tratto negativo, l’usura, diventano in questa fase la chiave di volta di un edificio economico basato sull’incrocio di fiducie tra soggetti in grado reciprocamente di riconoscersi come appartenenti alla respublica Christianorum.
Una sola infatti è la famiglia di tutti i cristiani, di modo che, qualunque sia stato il luogo dove uno ha fatto dono del suo ai fratelli in Cristo, dovunque poi vada egli ha da ricevere dai beni di Cristo il necessario alla vita (Agostino, De opere monachorum, 25.33; trad. it. in Sant’Agostino, I monaci e il lavoro, 1984, p. 119).
Il celebre assunto agostiniano a proposito dell’unicità della comunità politica dei cristiani come realtà implicante una rete di relazioni economiche tutta interna al corpo del Cristo inteso come somma dei beni possibili appare attualizzabile e specificabile nell’ambito della definizione di mercati la cui natura fiduciaria dipende principalmente dalla differenza individuabile fra credito e usura. Fra transazioni economiche cioè che, dal Duecento, mentre da un lato reintegrano per mezzo del pagamento di interessi la virtuale perdita di utili di patrimoni considerati di interesse pubblico qualora messi a rischio da operazioni di prestito, dall’altro risultano invece come forme di compravendita del denaro (l’usura) operate da soggetti irriconoscibili perché estranei al sistema relazionale cristiano e pubblico: sia in quanto ‘infedeli’, sia in quanto, ed è forse più importante, detentori di ricchezze interamente ‘private’, ovvero insignificanti dal punto di vista dell’amministrazione pubblica e istituzionale considerata, per analogia con quella delle chiese, come appartenente a un ordine economico superiore.
Una conseguenza fondamentale di questa impostazione, caratteristica del pensiero economico italiano nella sua prima fase canonistica e civilistica, sta nell’allargamento della dimensione e degli spazi riguardanti l’economia che poteva essere considerata pubblica, dunque istituzionale e, se non sacra, quasi sacra perché finalizzata alla realizzazione del ‘bene comune’ della società dei Cristiani, e alla determinazione di quella che secoli dopo si sarebbe chiamata pubblica felicità. Questa dilatazione dello spazio – e cioè dei criteri di legittimazione di quanto poteva ormai intendersi come logica degli scambi e della circolazione funzionale alla crescita economica dei soggetti civici – può essere collocata nel periodo che, dalla fase delle definizioni economiche caratterizzata dalle interpretazioni giuridiche del corpus decretalistico e giustinianeo (1180-1260) di autori come Azzone, Rufino di Bologna, Accursio, Pillio di Medicina (1150 ca.-dopo il 1207), Sinibaldo Fieschi, Enrico da Susa, raggiunge l’epoca dei grandi dibattiti sulla povertà del Cristo e delle codificazioni teologico-giuridiche concernenti il mercato come spazio pubblico (1260-1360) contrassegnata dai nomi, fra gli altri, di Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso d’Aquino, Alessandro Bonini di Alessandria, Bonagrazia da Bergamo (1265 ca.-1340), Agostino Trionfi (1243-1328), Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) e Giovanni d’Andrea (1270-1348).
È, in effetti, nell’ambito dei dibattiti economici sempre più intensi fra gli intellettuali dell’epoca, soprattutto quelli appartenenti ai tre ordini mendicanti, francescano, domenicano e agostiniano, che, fra Bologna, Roma, Parigi e Oxford, il mondo delle compagnie commerciali e dei grandi mercanti internazionali comincia a essere decisamente considerato al centro di una razionalità economica e finanziaria in grado di promuovere e far crescere il mondo occidentale cristiano. Il commercio come vita delle città e degli Stati, la produttività del denaro e i modi di circolazione della ricchezza sono, tra i molti temi economici affrontati in questo periodo da giuristi e teologi, quelli più complessi e di maggior futuro.
Per ben comprendere la logica di queste analisi è necessario, tuttavia, più che mai evitare di intenderle come le forme ‘arcaiche’ del pensiero economico europeo e impegnarsi invece a decifrarle alla luce delle categorie culturali dell’epoca, facendo soprattutto attenzione alle dinamiche concettuali, ecclesiologiche, politiche e sociali, da cui questi approfondimenti tematici dipendevano.
La prima e forse la più importante di queste dinamiche concettuali è quella che, dalla metà del Duecento, riguarda la nozione tanto economica quanto teologica e giuridica di insufficienza, declinabile, a seconda degli ambiti discorsivi e logici a cui veniva riferita, in termini di mancanza, insufficienza, penuria o povertà. Per comprendere l’incidenza della ‘povertà’ come esperienza, nozione economica e teologica, ma anche modo normativo di percepire l’organizzazione sociale, sul pensiero economico italiano del Due e del Trecento, bisogna prima di tutto aver chiaro che questa parola introduceva, dal punto di vista bassomedioevale, a una molteplicità di situazioni tanto sociali quanto economiche oggi designabili solo per mezzo di termini molto differenziati.
Era inteso come ‘povero’ il sacerdote consacrato, dal prete al vescovo, poiché per definizione i beni che amministrava non gli appartenevano individualmente ma erano intitolati all’istituzione ecclesiastica di cui il consacrato a sua volta faceva parte; erano ‘poveri’ il contadino o il cittadino impoveriti dalle carestie che caratterizzarono la realtà economica italiana a partire dal 1310; erano ‘poveri’ il signore di alto lignaggio o l’artigiano che si ritrovavano a vivere per circostanze diverse al di sotto dello standard ritenuto loro spettante; era ‘povero’ in senso quasi professionale e specializzato il mendicante, il senza fissa dimora e il senza famiglia, soprattutto se fisicamente impotente; ed era ‘povero’ in modo speciale, ossia volontariamente e professionalmente, il membro di un ordine, appunto, mendicante come quello francescano, domenicano o agostiniano.
Tutte queste situazioni, benché estremamente differenti fra loro, inducono, fra il 1250 e il 1380, una nuova attenzione teorica e pratica per la scarsità, sia essa dipendente da fattori esterni e accidentali, sia essa causata da un’abitudine di vita oppure da una scelta ascetica. Benché già il monachesimo altomedioevale avesse talvolta collegato l’astensione dalla ricchezza a ipotesi di organizzazione economica, come avviene nel caso della regola prebenedettina dell’anonimo Maestro (composta in area campana intorno al 520) che stabiliva, rispetto alla media di mercato, una riduzione dei prezzi dei beni monastici rivendibili all’esterno del monastero, è però evidente che sono soprattutto le nuove realtà commerciali caratteristiche dei secc. 12° e 13°, come pure il conseguente, crescente squilibrio dei redditi e degli stili di vita, a focalizzare l’attenzione di giuristi e teologi sulla mancanza e la scarsità, ovvero sull’ambiguità economica delle nozioni di ‘utile’, ‘necessario’ e ‘superfluo’. Indubbiamente, poi, la svolta ecclesiologica determinata nella prima metà del Duecento dalla nascita degli ordini mendicanti, e in particolare il rapido e strabiliante successo europeo del fenomeno, in origine tutto centro-italiano, costituito dal francescanesimo, accelerarono ulteriormente la messa a punto di riflessioni e di analisi riguardanti gli equilibri e gli squilibri economici. Dalla metà del Duecento in avanti si moltiplicheranno, dunque, sia gli scritti di argomento economico prodotti nell’ambiente dei frati mendicanti, sia le analisi del rapporto fra prezzi e valori condotte alla luce di una scelta di povertà che, del tutto logicamente, determinava un approfondimento dei funzionamenti sociali della ricchezza; in primo luogo per definire in modo sempre più chiaro e tecnico il significato di identità caratterizzate dalla rinuncia alla proprietà giuridica dei beni economici e, in secondo luogo, per stabilire sempre più nettamente la relazione che avrebbe dovuto esistere fra i laici che avevano il diritto e il dovere di possedere quei beni e i religiosi che avevano il diritto e il dovere di astenersene. Nell’Italia del Due e del Trecento si assiste dunque a una crescita di analisi economiche, soprattutto dedicate ai modi di circolazione di merci e denaro, nonché alla definizione del valore-prezzo di entrambi, stimolata, oltre che dalla crescita e poi dalla crisi di un’economia commerciale e finanziaria, da categorie culturali di radice ecclesiologica orientate a regolare le relazioni fra società ecclesiastica e laica alla luce di una tradizione giuridica che connetteva sistematicamente il concetto di ordine sociale alle modalità di uso, proprietà e possesso dei beni economici e del denaro inteso come segno del loro valore.
In particolare, la specificazione da parte della normativa pontificia dello stato di povertà volontario francescano, successiva al 1230, come di uno stato caratterizzato dal divieto di proprietà giuridica dei beni economici, compatibile però con un diritto di usare o possedere transitoriamente quei beni, ma in nessun caso il denaro, mette vistosamente in moto, dal 1250 circa, una fittissima riflessione e un’abbondante trattatistica, al cui centro sta la questione della separabilità dell’uso dalla proprietà e dal possesso dei beni economici mobili o immobili (Lambertini 1990; Tabarroni 1990; Todeschini 2004). Di questa riflessione, spesso impostata in termini polemici e politici, fanno parte tanto argomentazioni il cui obiettivo è di indicare in termini probabilistici la distanza di ‘necessario’ da ‘superfluo’, ossia di economicamente utile da economicamente improduttivo, quanto serrate interpretazioni delle logiche dello scambio e della contrattualistica creditizia.
Un primo passo in questa direzione è senz’altro riconoscibile nella questione de superfluo verosimilmente attribuita a Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale dell’ordine francescano dal 1257 (Lio 1966). Questo testo, che prelude a più ampie analisi francescane e domenicane dedicate alla nozione di necessità, bisogno indispensabile o superfluo, dunque al problema del rapporto fra condizione sociale e mancanza, affronta il tema in una chiave già nettamente dialettica, relativizzando il concetto di ‘superfluo’ in rapporto al ruolo sociale e alle situazioni storiche. Se si fa attenzione al fatto che dalla seconda metà del Duecento, le città italiane iniziano a dotarsi di dispositivi di legge il cui obiettivo è la regolazione dei ‘lussi’ e cioè della spesa considerata più o meno accettabile e razionale secondo le appartenenze sociali (Disciplinare il lusso, 2003), ci si può ben rendere conto che l’approccio ‘mendicante’ a questa problematica coincide con una generale tendenza dell’organizzazione economica dell’epoca a verificare il significato civico ovvero macroeconomico di scelte di consumo individuali.
Analogamente alle definizioni delle prime leggi suntuarie, il de superfluo di Bonaventura indica come razionale o irrazionale ed economicamente utile o inutile la scelta economica di spesa a seconda dell’appartenenza cetuale di coloro che fanno questa scelta. Il superfluo, dunque, si definisce a partire dal bisogno reale dei soggetti, a sua volta riscontrato in relazione al ruolo socioprofessionale dei medesimi. Nell’ambito dei criteri che segnalano un bisogno reale, una necessità razionalmente e utilmente appagabile da una spesa, compaiono quindi fattori relativi all’identità sociale e al prestigio comunemente riconosciuto come tipico di determinati ruoli e di determinati ceti. La porpora, osserva Bonaventura significativamente, è da intendersi come bene economico superfluo per chi non ha ruoli di comando e non è in possesso di un carisma come, per es., quello cardinalizio o sovrano, mentre, al contrario, in questi casi la sua natura di bene economico indispensabile e dunque non superfluo sarà determinata dall’oggettiva appartenenza di ceto o di professione e, in ultima analisi, dall’accordo sociale (communis consensus) a proposito dell’eminenza sociale di questi ruoli.
Centocinquant’anni dopo un altro insigne e dotto francescano, Bernardino da Siena, riprenderà tale ragionamento ampliandone la portata, sino a dichiarare che taluni lussi femminili di monili, vesti e ornamenti sono da considerarsi inutili, viziosi e superflui per la maggior parte delle donne, ma non per quelle che appartengono ai ceti dirigenti, poiché in questo caso quei ‘lussi’, indicando lo status, fungono da segnali di riconoscimento di una condizione sociale e politica, e sono dunque utili alla crescita di quello che oggi si potrebbe chiamare ‘capitale reputazionale’ della collettività civica.
Nell’ultimo trentennio del Duecento, la corrente di riflessioni economiche impostate in origine da canonisti e civilisti fra 12° e 13° sec., è messa sempre più a fuoco, in Italia, dall’attenzione degli autori e delle Scuole per l’organizzazione delle città. La problematica del ‘superfluo’ e del ‘necessario’ assume sempre più, alla luce del fenomeno della povertà occasionale o volontaria, tutto lo spessore di una riflessione sulle situazioni di mercato nell’ambito delle quali è necessario definire con la migliore approssimazione possibile il prezzo corretto di un oggetto o di una prestazione lavorativa. Nello stesso tempo, questioni economiche di pubblica rilevanza, come quelle relative alla compravendita delle rendite di un bene immobile o all’emissione da parte dei poteri cittadini di titoli di prestito pubblico ripagabili con gli interessi, forniscono ai teologi e ai giuristi una vasta gamma di temi finanziari su cui riflettere, ma, ancor più di questo, su cui deliberare nella prospettiva di una codificazione di pratiche economico-politiche ancora indeterminate e di incerta legalità.
A partire dalla seconda metà del Duecento, la migliore conoscenza, nell’ambiente accademico formato dagli Studia teologici e giuridici di Oxford, Parigi e Bologna, degli scritti di Aristotele che, come la Politica e l’Etica nicomachea, contenevano osservazioni e giudizi economici produce un rinnovato interesse per l’analisi delle pratiche contrattuali e per il significato della produttività del denaro ovvero delle logiche della sua circolazione, nonché per la rilevanza civica di chi, come i mercatores, era il principale protagonista laico di queste dinamiche della ricchezza. Tuttavia, non va dimenticato, la lettura dei passaggi aristotelici dedicati al credito, al denaro e al funzionamento economico della città avviene sia per il tramite di traduzioni latine dell’originale greco che, inevitabilmente, ne modificano il senso, attualizzandolo, sia attraverso il filtro di criteri interpretativi che intendevano il testo aristotelico alla luce degli elaborati economici che la teologia, il diritto romano e il diritto canonico erano venuti producendo nei secoli precedenti.
In questa fase, l’insieme di tipologie contrattuali riassunto e semplificato dalla parola usura viene riconsiderato in una prospettiva più specificamente contrattuale. Il problema della produttività del denaro viene quindi rimesso in gioco nella prospettiva di nuove realtà finanziarie, a cominciare da quella costituita dal debito pubblico che le città italiane a più alto sviluppo economico stavano istituzionalizzando nella forma del cosiddetto Monte comune. La questione stessa del profitto di chi investiva il proprio denaro nel commercio o in attività imprenditoriali e manifatturiere è ora trattata nell’ambito di una più complessiva riflessione sulla produttività del denaro; l’analisi del rapporto fra superfluo, ovvero eccedente, e necessario, ovvero mancante, è anche da questo punto di vista il punto di partenza di argomentazioni miranti a chiarire sia il significato civico ed etico del guadagno derivante dalla competenza finanziaria o imprenditoriale, sia la realtà stessa della circolazione di valori monetari. Da un lato, Tommaso d’Aquino, domenicano, e la sua scuola, da Egidio di Lessines in avanti, dall’altro la scuola francescana rappresentata da Matteo d’Acquasparta, Pietro di Trabibus (1250 ca.-1298 ca.), Alessandro Bonini, Astesano da Asti (13° sec.-1330 ca.), Francesco da Empoli (1320 ca.-1370) e Guglielmo Centueri (1340 ca.-1402) corrispondono fra Due e Trecento a differenti linee di sviluppo della concettualizzazione economica, anche se forse non così incompatibili come talvolta si è ritenuto.
Tommaso e i suoi seguaci, raffinando lo sguardo sulle transazioni creditizie ruotanti intorno al contratto di mutuo e di vendita ‘a termine’, vengono sviluppando una codificazione dell’attività commerciale e della produttività degli investimenti connessa direttamente al riconoscimento del ruolo pubblicamente produttivo degli operatori economici, i mercatores. Allo stesso tempo la possibilità del denaro di fruttare altro denaro è rimandata tanto al significato del ‘lavoro’ svolto dall’operatore economico (profitto commerciale = stipendium laboris), quanto al fatto che si commerci (nell’ambito di transazioni creditizie) il denaro come oggetto fisico (metallo coniato) oppure il diritto (ius) che si possiede a buon titolo su di esso in quanto oggetto economico e politico insieme. Questa definizione complessa della produttività del denaro, in definitiva connessa all’attività di chi lo fa circolare e al fatto che tale attività sia riconosciuta come pubblicamente legittima, stabilisce, in un clima di autorevolezza qual è quello della scuola teologica di cui Tommaso è massimo rappresentante, che il denaro è oggetto politico per eccellenza, che la sua funzionalità alla costruzione della felicità sociale dipende dal diritto che si esercita legalmente su di esso e, infine, che l’aberrazione usuraria coincide con un’arbitraria, irragionevole e illegale volontà individuale di commerciare un oggetto, il denaro, in questo caso privo di significato pubblico.
In una prospettiva diversa, la scuola francescana di radice bonaventuriana, da Matteo d’Acquasparta a Francesco da Empoli, sino alla sintesi codificatrice operata da Bernardino da Siena nel primo Quattrocento, veniva elaborando fra Due e Trecento una rappresentazione e un’analisi del denaro, dei mercati e degli operatori economici più attenta alla specificità economica dei movimenti di denaro e merci. In un’ottica nettamente volontarista e sostanzialista, fortemente condizionata dal massimo risultato duecentesco nel campo dell’analisi economica – il De contractibus del francescano Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298), originario della Linguadoca, discepolo di Bonaventura e professore di teologia nello Studio minoritico di Santa Croce a Firenze dal 1287 al 1289 –, questa corrente decisiva del pensiero economico bassomedioevale italiano affronta il rapporto fra denaro e profitto mettendo l’accento sul momento della circolazione e sottolineando, pertanto, le caratteristiche del denaro intrinsecamente funzionali alla riproduzione della ricchezza come strumento di definizione del valore.
La tendenza ‘filosofica’ di antica origine aristotelica a distinguere fra oggetti naturalmente produttivi e riproduttivi (pecus) e oggetti innaturali che, come la moneta metallica (pecunia), sarebbero risultati per loro natura sterili e improduttivi, viene dunque a cadere nell’analisi economica francescana, a partire innanzi tutto da una definizione della perfezione evangelica fondata sulla possibilità di distinguere fra uso, possesso e proprietà dei beni economici. Poiché questa premessa teologico-ascetica sulla quale si fondava la ragione stessa di essere dell’ordine dei minori affermava la possibilità e anzi il dovere di usare le realtà economiche senza appropriarsene, ne veniva di conseguenza che il denaro, inteso come segno del valore e non come oggetto appropriabile e tesaurizzabile, poteva moltiplicare il valore delle cose utili così da renderle maggiormente e più largamente fruibili.
Il nucleo di questa concettualizzazione, presente già nella Apologia pauperum di Bonaventura, ma soprattutto sviluppato in chiave economica dal suo discepolo Olivi, poi da Alessandro Bonini e Astesano, e infine da Bernardino da Siena, conduceva a individuare nel denaro, inteso non come moneta concretamente metallica ma come segno del valore, una potenzialità riproduttiva che la capacità economica di chi lo maneggiava poteva far emergere attivandola. La circolazione continua di denaro e merci diventava dunque la chiave di legittimazione dei mercati in quanto riflesso economico delle comunità civiche, ma nello stesso tempo era in questa circolazione che il denaro si rivelava dotato di una virtuale capacità di riprodursi, resa evidente dai momenti nei quali la vita economica delle città e dei regni si manifestava come vita creditizia e bancaria in seguito all’istituzionalizzarsi del debito pubblico, in città a forte sviluppo come Genova, Venezia e Firenze.
Non per caso, dunque, da Alessandro Bonini, a Genova, a Francesco da Empoli e Lorenzo de’ Ridolfi a Firenze, sino a Bernardino da Siena ormai in una prospettiva centro-settentrionale italiana, la questione del debito pubblico e dell’istituzione dei cosiddetti Monti comuni viene affrontata nel quadro di ragionamenti sui mercati del credito e sul significato economico-politico del denaro, radicati, al di là dell’ideale religioso che pure aveva mosso la percezione economica degli ordini minori, in una concettualizzazione degli scambi che li raffigura e li analizza in quanto momenti della cessione della proprietà e dell’uso di beni la cui natura di possessi temporanei circolanti viene così di continuo sottolineata.
In questo contesto discorsivo, che va dai dibattiti sulla compravendita delle rendite alle discussioni sulla commercializzazione dei titoli di credito pubblico emessi dalle città per garantire il pagamento periodico di interessi ai cittadini che abbiano ‘prestato’ (più o meno volontariamente) denaro allo ‘Stato’, la questione della produttività o della redditività del denaro viene affrontata in una chiave non più naturalistica, ma piuttosto politico-istituzionale. Stabilito, stando a Tommaso e in una logica differente a Olivi, che l’eventuale produttività dei capitali dipende dall’attività di chi opera in economia e dunque dal suo ‘lavoro’, si afferma nel Trecento una nozione di fruttuosità del denaro tutta legata al ruolo civico e cioè alla reputazione istituzionale di chi lo fa circolare. Ne verrà, in Alessandro Bonini, come in Francesco da Empoli e poi in Lorenzo de’ Ridolfi, che, ove questa circolazione assuma la forma di transazioni creditizie attivate da enti pubblici (chiese, soggetti statali, sovrani), il denaro in esse coinvolto è codificabile come produttivo di altro denaro in ragione sia dell’utilità presupposta come pubblica di queste transazioni, sia della facoltà intesa come assoluta di questi enti di cedere a pagamento il diritto di riscuotere rendite loro spettanti, per compensare prestiti ricevuti.
La nozione di produttività intrinseca del ‘capitale’ detenuto da chi sia solito investirlo fruttuosamente, enunciata già da Olivi intorno al 1294, ma anche la nozione tomista di profitto commerciale come retribuzione legittima dei professionisti del mercato, producono di fatto nel Trecento una riflessione economica nettamente mirata a leggere nel denaro e nelle operazioni finanziarie che lo attivano un oggetto fertile in senso politicamente funzionale: a patto cioè che chi lo investe o lo traffica o lo guadagna sia riconoscibile come soggetto pubblico o interno a processi economici riconducibili a un soggetto pubblico. La dichiarazione da parte del minorita Francesco da Empoli, alla metà del Trecento, della legittimità dell’emissione di titoli di credito fruttanti un interesse da parte del comune di Firenze sarà dunque fondata sull’analogia individuabile fra questo periodico pagamento di interessi da parte di un ente pubblico, e la vendita da parte delle chiese dei propri redditi periodici. Poiché, ragiona Francesco da Empoli, seguito in questo da Lorenzo de’ Ridolfi, Bernardino da Siena e Angelo da Chivasso, una chiesa, ossia un ente pubblico e sacro, ha il diritto di cedere a pagamento una propria rendita per un periodo determinato anche molto lungo, così una città ovvero un ente pubblico statale ha il diritto di cedere i frutti delle proprie entrate a chi li ‘compri’ dando una somma di denaro alla città. Il fatto che tanto nell’un caso come nell’altro la transazione possa, com’è ovvio, essere interpretabile sia come una compravendita sia come un prestito a interesse dal tasso variabile, fa la legittimità/razionalità del contratto, ma, in questa logica, questa proficua ambiguità, in grado in se stessa di rendere produttivo e fruttifero il denaro, discende direttamente dalla natura pubblica dei soggetti protagonisti del contratto.
Proprio questa connessione fra natura istituzionale del contratto e produttività del denaro, così caratteristica del pensiero economico due-trecentesco, fa sì che, per la riflessione in questione, il carattere fruttifero del denaro dei privati si riveli soprattutto nel momento in cui il loro operare economico li pone in contatto con i poteri pubblici, o appare direttamente funzionale alla gestione della cosa pubblica (come nel caso della cessione ai privati di redditi fiscali a garanzia di un prestito da essi fatto alla città). Mercato e denaro in questa luce, nitidamente relazionale, vengono ad acquistare il senso di spazi e strumenti governativi.
La riflessione economica italiana, nata in un contesto che sintetizzava diritto canonico e diritto romano in una prospettiva nettamente teologico-morale e dunque esplicitamente governativa e regolatrice, si venne sviluppando fra Due e Quattrocento secondo una logica, più che di scuole o di autori nel senso moderno del termine, come flusso dialettico e discorsivo nell’ambito del quale si venivano progressivamente mettendo a fuoco, ben al di là degli schieramenti, alcuni concetti di base successivamente assimilati dalla ‘scienza economica’. Si ricorderanno come fondamentali quello di circolazione del denaro e delle merci in quanto sinonimo di produttività degli organismi sociali intesi a loro volta come specchio delle strutture dei mercati, quello di moneta intesa a un tempo come capitale eventualmente produttivo e come moneta-segno coniato dei poteri sovrani, quello di economia istituzionale in grado di includere nel proprio circuito le scelte di investimento private o familiari variabilmente ritenute funzionali al dispiegarsi dell’economia ‘pubblica’.
Questa elaborazione corale, alla quale avevano partecipato tanto i giuristi quanto i teologi, entrava però sempre più in contatto, approssimandosi il Quattrocento, da un lato con le definizioni economiche e le razionalizzazioni determinate dalla pratica dei mercatores più acculturati, o dall’esperienza dei funzionari e degli amministratori attivi nelle Corti che stavano al centro dei mercati (da Benedetto Cotrugli e Leon Battista Alberti, a Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini); d’altra parte però, questo sistema di discorsi economici, proprio per il fatto di essere formalizzato in contesti linguistici differenti e di aver luogo in un ambito solo approssimativamente nazionale in senso odierno, partecipava vivacemente di un universo di riflessioni ampiamente europeo. Il pensiero economico italiano nacque e si sviluppò dunque nel clima definito dal fitto dialogo in grado di connettere economisti e uomini di affari di Firenze, Venezia, Genova, Parigi, Oxford, Montpellier, Barcellona, e di molti altri centri di cultura e di scambi. La penetrazione di queste elaborazioni italiane nel futuro universo del pensiero economico europeo si spiegherà considerando quanto esse, nella loro specificità, siano state sin dall’inizio prodotte dialetticamente all’incrocio fra esperienze economiche e intellettuali diverse.
A maggior ragione, dunque, il Quattrocento vedrà la sistematizzazione in Italia di un pensiero economico europeo, successivamente rielaborato in chiavi diverse dalle differenti scuole economiche nazionali. Il tratto caratteristicamente sintetico di questa fase appare subito, già a considerare i caratteri principali assunti dalla riflessione economica che, dal 1420 circa alla fine del secolo, mette in contatto, in Italia, gli argomenti e le concettualizzazioni degli esponenti intellettuali di ambienti quanto mai diversi, come, per es., i francescani Bernardino da Siena, Angelo da Chivasso e Francesco di Piazza (1410 ca.-1460 ca.), gli ‘umanisti’ Leon Battista Alberti e Leonardo Bruni, che esperivano la dimensione economica in veste sia di uomini di affari che di funzionari pubblici, gli uomini di corte, d’affari e di potere come Poggio Bracciolini e Marsilio Ficino (1433-1499), e i mercatores professionisti come il dalmata ovvero veneziano Benedetto Cotrugli.
Si potrà schematizzare l’aspetto più rilevante di questa produzione nei termini di un’attenzione molto specifica per i mercati come situazioni sociali in grado di definire con precisione le logiche dello scambio, inteso ormai, nella sua sostanza, come elemento primario della relazione civica e come indicatore dell’appartenenza di gruppo. Questa caratteristica di base prende forma, nel trattato sui contratti di Bernardino, nei Libri della famiglia dell’Alberti, nel De avaritia di Bracciolini, nel trattato sulla mercatura e il mercante perfetto di Cotrugli, nell’ampia riflessione di Francesco di Piazza sulle tecniche di restituzione dei guadagni illegali, nella Summa giuridica ed economica di Angelo da Chivasso, grazie a una dettagliata casistica riguardante, al di là della liceità dei contratti e della loro utilità-produttività per le famiglie e per gli Stati, il significato stesso del mercato in quanto luogo deputato all’accrescimento della ricchezza privata e pubblica.
È in questa prospettiva che le acquisizioni precedenti della trattatistica e delle politiche economiche vengono rilette per determinare il rapporto esistente fra i movimenti del denaro e delle merci, ovvero gli scambi, da un lato, e, dall’altro, i significati politici dell’arricchimento, ovvero i diversi gradi di legittimità pubblica riconoscibili a coloro che partecipano ai mercati. Al di là dell’attenzione diversificata che gli autori riservano ai temi affrontati (per Bracciolini, l’‘avarizia’, ossia la volontà di arricchire, per Bernardino le figure contrattuali e cioè la loro utilità pubblica, per Alberti i modi dell’investimento, per Francesco di Piazza la ‘restituzione’, ossia le forme di circolazione della ricchezza indotte dalle molteplici forme dell’indennizzo), appare comune e costante la messa a fuoco dello spazio di mercato come realtà civica primaria all’interno della quale agiscono, in termini di maggiore o minore legittimazione, attori economici differenti, in nessun caso riconducibili a un astratto homo oeconomicus.
Il problema, già sedimentato nella riflessione economica dei due secoli precedenti, della relazione obbligata fra diritto al profitto e reputazione pubblica diventa ora più importante che mai, proprio perché declinato, oltre che in chiave etica, in termini specificamente economici. La partecipazione al gruppo o ai gruppi di coloro che controllano i movimenti dei mercati facendo al tempo stesso parte delle élites sociopolitiche è riconosciuto come un dato incontrovertibile di appartenenza civica, in se stesso fondante la legittimità di impresa e di profitto. Il nesso fra l’‘onore’, ossia la collocazione politica, e la ricchezza risulta dunque centrale, come, fra gli altri, dichiara Bruni nella sua prefazione al volgarizzamento degli Economica attribuiti ad Aristotele. La distanza fra economia istituzionale ed economia di breve respiro, intesa come familiare nell’accezione ristretta del termine, si accresce: la volontà di guadagno, intesa come spinta imprenditoriale mirata alla prosperità individuale e di gruppo, è sempre più considerata, tanto in Bracciolini quanto in Bernardino da Siena, come pubblicamente positiva se riscontrata in una crescita della ricchezza collettiva della città o dello Stato, ritenuti soggetti collettivi cristiani.
È in questa prospettiva che, in effetti, prendono forma le politiche di destabilizzazione dell’imprenditorialità commerciale e creditizia ebraica interpretata a questo punto, del tutto ideologicamente, come rappresentativa dell’iniziativa economica non-pubblica. Il ‘capitale reputazionale’ dei gruppi commerciali e bancari comincia a essere dichiarato esplicitamente come entità la cui perdita danneggia non solo gli interessi di chi sventatamente se ne priva, ma anche e soprattutto la rete complessiva del mercato di cui chi smarrisce la propria credibilità faceva parte: ‘restituire’ ossia indennizzare, dichiarano Francesco di Piazza e Angelo da Chivasso, ha senso etico soltanto se non mette a rischio la reputazione di chi restituisce il maltolto o di chi riceve la restituzione, se cioè non mette in pericolo l’intero sistema di relazioni economiche e sociali che dipendono da quella reputazione, intesa dunque come strumento primario di investimento e prosperità di gruppo.
Il denaro si rivela infine, alla luce del pensiero economico italiano di fine Quattrocento, un congegno più astratto e virtuale che concreto e metallico: il sistema di crediti e debiti che esso tratteggia e cifra fa ormai tutt’uno con un sistema di equilibri politico-sociali inteso come presumibilmente etico, e dunque da rafforzare incrementando e accelerando la circolazione del denaro e le possibilità di investimento dei ricchi e dei meno ricchi. È in questa logica che, dal 1462, i Monti di Pietà cominciano a essere fondati, su iniziativa francescana, in tutta Italia.
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