Il Marx di Croce e quello di Gentile
Nell’ottobre del 1899 Benedetto Croce, replicando a un invito del professor Vittorio Racca, che lo esortava a «lasciar da banda l’ozioso lavoro d’interpretazione del Marx», annunciava la pubblicazione imminente di Materialismo storico ed economia marxistica (1900) con queste parole:
Ho raccolto in un volume […] tutti i miei scritti sul Marx e ve li ho composti – come in una bara. E credo di aver chiuso la parentesi marxista della mia vita (Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di P. Craveri, 2001, p. 174).
Che lo studio del pensiero di Karl Marx abbia impegnato solo un breve periodo della vita di Croce non si può dubitare; né occorre insistere sul carattere degli scritti che vi dedicò: non un’interpretazione sistematica, bensì saggi critici che illustravano le idee che si era venuto formando nei riguardi della concezione ‘marxistica’ della storia e dell’economia. Croce cominciò a studiare Marx per la suggestione suscitata in lui dalla lettura del saggio di Antonio Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti, nella primavera del 1895: suggestione intellettuale ma, come ricorderà vent’anni dopo nel Contributo alla critica di me stesso, anche politica (1937, p. 395). Inoltre, la ‘scoperta’ di Marx giungeva nel mezzo delle sue meditazioni sul significato della storia e sul carattere della storiografia (Agazzi 1962, pp. 59-73), quindi la sua attenzione s’incentrò sulla concezione materialistica della storia. Questo lo indusse ad approfondire innanzi tutto Das Kapital (1867-1894), giungendo rapidamente alla confutazione dei suoi concetti fondamentali; ma il tema principale della sua polemica con Labriola riguardava il nesso fra marxismo e socialismo, vale a dire la possibilità di dare al socialismo un fondamento storico-teorico.
Quella posizione, rimasta sostanzialmente immutata nell’itinerario filosofico successivo (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 265-305), venne inizialmente argomentata nella memoria Sulla forma scientifica del materialismo storico, letta all’Accademia pontaniana di Napoli il 3 maggio 1896.
Croce dichiarava di voler «soltanto sottoporre ai colleghi alcune poche osservazioni intorno» al materialismo storico «nella forma in cui si presenta in un libro recentissimo del prof. Antonio Labriola», Del materialismo storico: dilucidazione preliminare (1896), al quale attribuiva il merito di aver dimostrato l’impossibilità di una «filosofia della storia»:
Se è possibile ridurre concettualmente i vari elementi della realtà che appaiono nella storia, ed è quindi possibile fare una filosofia della morale e del diritto, della scienza e dell’arte, e insieme una filosofia delle loro relazioni, non è possibile elaborare concettualmente il complesso individuato di questi elementi, ossia il fatto concreto, che è il corso storico. Nel suo complesso, il movimento storico non si potrebbe ridurre se non a un solo concetto, che è quello di sviluppo, reso vuoto di tutto ciò che è contenuto proprio della storia (Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 19).
Il «movimento storico» non può essere oggetto di una filosofia poiché non è riconducibile a un soggetto: la sua unità può essere solo il risultato di una narrazione storiografica cui il materialismo storico può fornire «una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico» (p. 25). Ma quando Croce elenca i «nuovi dati» e le «nuove esperienze» di cui la storiografia potrebbe far tesoro mostra una lettura economicistica di Marx, più sua che di Labriola. Parafrasando il Manifest der kommunistischen Partei (1848) e la prefazione del 1859 a Zur Kritik der politischen Ökonomie Croce scrive:
Sono feconde scoperte, per intendere la vita e la storia, l’affermazione della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della genesi di esse dal sottosuolo economico, in modo che si può dire che di storia ce n’è una sola; il ritrovamento della forza reale dello Stato […] col considerarlo istituto di difesa della classe dominante; la stabilita dipendenza delle ideologie
dagli interessi di classe; la coincidenza dei grandi periodi storici coi grandi periodi economici; e le tante altre osservazioni, ond’è ricca la scuola del materialismo storico (p. 28).
La riduzione del materialismo storico a determinismo economico non era politicamente innocente. La raffigurazione della storia come un «processo senza soggetto» mirava a colpire il nesso fra materialismo storico e socialismo che era il fulcro dei saggi labriolani. Il rigetto della «filosofia della storia» mirava a negare la possibilità che si costituissero nuove soggettività egemoniche, riducendo il socialismo a opzione morale. Su questi temi Croce concluse la sua memoria prendendo le distanze da Labriola: «Spogliato il materialismo storico di ogni sopravvivenza di finalità […] esso non può dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro indirizzo pratico della vita» (p. 31).
Reciso filosoficamente ogni legame fra teoria e pratica, la riduzione del socialismo a scelta morale penetrava nel cuore di Das Kapital con il rifiuto di attribuire dignità teorica al concetto di plusvalore e, ricollegandosi alla Scuola austriaca, a cui andavano le sue predilezioni di neofita degli studi di economia, aggiungeva: «In pura economia si può parlare di sopravalore? Non vende il proletario la sua forza di lavoro proprio per quel che vale, data la sua situazione nella presente società?» (p. 33); per concludere:
Senza quel presupposto morale, come si spiegherebbe, nonché l’azione politica del Marx, il tono di violenta indignazione e di satira amara che si avverte in ogni pagina del Capitale? (p. 34).
Nel celebre saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), che nel 1938 Croce pose in appendice alla ripubblicazione dei saggi labriolani nel 1938 (dal titolo La concezione materialistica della storia), egli rivendicò con giustificato orgoglio l’influenza dei suoi scritti sulla nascita dei due principali «revisionismi» di fine secolo, quelli di Eduard Bernstein e di Georges Sorel (pp. 295-96). Si riferiva soprattutto all’accoglienza che tanto l’uno, quanto l’altro, avevano riservato alla memoria presentata il 21 novembre del 1897 all’Accademia pontaniana con il titolo Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo; ma, prima di esaminare questo saggio, ci si deve soffermare su quello dedicato a Le teorie storiche del prof. Loria, anch’esso in origine una memoria presentata all’Accademia pontaniana, il 21 novembre del 1896. Le «volgarità» di Achille Loria, che avevano larghissima eco nella cultura del socialismo italiano, costituivano un facile bersaglio della lotta contro il positivismo in cui Croce veniva foggiando le sue meditazioni sulla storia. Inoltre, la memoria era stata preceduta dall’aspra denuncia del plagio di Loria delle teorie di Marx fatta da Friedrich Engels nella prefazione al terzo volume di Das Kapital e questo favorì la pubblicazione dell’anti-Loria sulla rivista di Sorel, «Le devenir social», attirando su Croce l’interesse della cultura socialista italiana ed europea. Per quanto riguarda, però, gli sviluppi della sua lettura di Marx, sono degni di nota i progressivi slittamenti semantici della riduzione del materialismo storico a canone empirico di ricerche storiche e l’approfondimento del concetto del plusvalore. Sul primo punto si può osservare come Croce non parli, qui, di nuovi «dati» ed «esperienze», bensì di «suggestioni» di cui lo storico dovrebbe tener conto (p. 40). Sul fondamento etico del concetto di plusvalore, invece, la sua argomentazione è più complessa e sfocia nella tesi del «paragone ellittico» che rimarrà il cardine della sua interpretazione di Marx. Egli sostiene che la teoria del valore-lavoro di Marx sarebbe la stessa degli economisti classici e che da essa non si può dedurre il plusvalore come concetto puramente economico. Il concetto di plusvalore scaturirebbe, invece, dal principio di eguaglianza, presupposto morale della critica dell’economia politica che svolgerebbe il compito di dare una veste scientifica alla percezione dello sfruttamento, il quale costituirebbe un dato psicologico del proletariato moderno, ormai così profondamente radicato da rappresentare una forza sociale in grado di assolvere una funzione storica. Ma dal punto di vista scientifico il concetto di plusvalore sarebbe solo il frutto della comparazione non dichiarata – un «paragone ellittico» – fra la società capitalistica qual è e una società comunista ipotetica o ideale in cui, abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, l’unico valore produttivo di beni sarebbe quello del lavoro e quindi la teoria del valore-lavoro potrebbe imporsi incondizionatamente (pp. 45-46).
Impostata così la questione dell’«economia marxistica», la negazione che essa sia una «filosofia della storia» non regge. Il finalismo comunista eticamente fondato guiderebbe un movimento storico reale che non potrebbe non credere all’inevitabile inveramento delle sue previsioni. Il determinismo della previsione è tuttavia temperato dal fatto che, contrariamente a quanto sosteneva Loria, per Marx il socialismo non sarebbe l’esito inevitabile dell’anarchia capitalistica, ma solo una possibilità dipendente dalla forza e dalla consapevolezza storica del proletariato (pp. 57-59).
All’invio della memoria loriana Labriola reagì con entusiasmo, associando Croce alla propria missione: «Noi mi pare che abbiamo qualcosa da fare, per diffondere il socialismo scientifico: e poi verranno quelli che siano atti a farne uso» (A. Labriola, Carteggio, 4° vol., 1896-1898, a cura di S. Miccolis, 2004, p. 264). Tuttavia, subito dopo gli rimproverò la «nota su la teoria del valore […] senza dubbio soggettivamente prematura e oggettivamente poco comprensibile», concludendo che «si era avventurato troppo ad affermare l’esistenza sia pure ipotetica dell’economia pura» (pp. 265-66). «L’economia non è che scienza storica», gli scrisse il 3 gennaio del 1897, anzi non è che «un’astrazione della storia» (p. 274) e di rincalzo, due giorni dopo:
Giudizi economici fuori dalla economia non esistono. Per fare una teoria dell’utile puro converrebbe supporre una somma di bisogni assoluti. Ora il processo umano consiste appunto nella variazione e moltiplicazione dei bisogni (p. 278).
Ma la confutazione più rigorosa Croce l’ebbe negli stessi giorni da Giovanni Gentile, con il quale aveva da poco allacciato un’amicizia destinata a evolvere rapidamente nel duraturo, operoso e ben noto sodalizio. Anche Gentile era stato indotto a occuparsi del marxismo dai saggi di Labriola e commentando la memoria loriana di Croce ripropose con forza il tema della filosofia di Marx. Dell’interpretazione di Croce non lo convincevano né la «limitazione» del materialismo storico a canone storiografico, né la «distinzione» fra socialismo e marxismo. Quindi insisteva sul carattere «distruttivo» della critica crociana di Marx e sulla sua distanza da Labriola per il quale, invece, la concezione materialistica della storia abbracciava tanto la storia passata quanto quella futura, sia quella «reale» sia quella «possibile». In altre parole, era una «filosofia della storia» perché conteneva una «previsione» del futuro a cui la forza interpretativa di «tutta» la storia passata conferiva il carattere della «necessità». Anticipati nel carteggio che si scambiarono fra gennaio e aprile del 1897 (B. Croce, G. Gentile, Carteggio 1896-1900, a cura di C. Cassani, C. Castellani, 2014, pp. 20-42), questi temi vennero sviluppati da Gentile nel suo primo scritto su Marx.
Se nel caso di Croce la scoperta di Marx era avvenuta, come abbiamo visto, nel mezzo delle sue meditazioni sulla storia, nel caso di Gentile s’inserì nelle riflessioni sulla storia della filosofia in cui egli era immerso fin dagli anni della formazione (Turi 1995, pp. 51-58). Il suo primo scritto di argomento marxista, Una critica del materialismo storico, dell’ottobre 1897, esordiva domandandosi:
Se occupa la nuova dottrina un posto nella storia della filosofia propriamente detta. E se ve l’occupa, in che relazione si trova co’ sistemi filosofici, cui successe o fra cui sorse (La filosofia di Marx, 1899, 1955, p. 18).
Giova osservare che le sole fonti dirette richiamate da Gentile erano due scritti di Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, del 1888, e l’opuscolo Socialismo utopistico e socialismo scientifico tratto dall’Anti-Dühring (1878), a cui si aggiungevano il Manifest der kommunistischen Partei e la già citata prefazione a Zur Kritik der politischen Ökonomie nei brani tradotti da Labriola nel suo primo saggio. A ogni modo, Gentile non aveva dubbi che il materialismo storico, predeterminando il futuro delle società umane, fosse una filosofia della storia e, in quanto dottrina del «comunismo critico», fosse una filosofia della rivoluzione (La filosofia di Marx, cit., pp. 20-21). Quindi non solo materialismo storico e socialismo non erano separabili, ma la fallacia filosofica della dottrina travolgeva la legittimità storica del movimento di cui intendeva essere la coscienza. Il focus della sua critica riguardava la forma logica del determinismo marxista, l’affermazione, cioè, che «non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma è all’incontro il suo essere sociale che determina la sua coscienza» (p. 25): un determinismo che cancella la distinzione fra soggetto e oggetto, presupposto di qualunque teoria della conoscenza (pp. 37-38). Inoltre, se lo sviluppo dell’umanità è il risultato dell’antagonismo delle forme economiche che l’attraversano, cade la presunzione di scientificità del marxismo poiché viene meno l’ufficio della previsione (pp. 40-41). La contraddizione non può essere risolta con l’escamotage labriolano (avallato da Croce) della «previsione morfologica», poiché nelle scienze dello spirito la previsione è un’attività ideale a cui non può corrispondere alcuna configurazione empirica di società (pp. 42-43). Il materialismo storico si risolve quindi in un assurdo: l’assurdità di prevedere «un fatto», cioè l’avvento inevitabile della società socialista, mentre
il fatto non si prevede, perché non è oggetto di speculazione, ma di esperienza; e non appartiene perciò alla filosofia della storia, ma alla storia pura (diciamo storia o storiografia) la quale non si occupa, lo sanno tutti, se non del già accaduto (pp. 56-57; cfr. Turi 1995, pp. 60-64).
Letta la memoria di Gentile, Croce minimizzò le loro divergenze riducendole a una questione di lessico. Inoltre, annunciandogli l’imminente pubblicazione del Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897) di Labriola, ribadiva che l’autore intendeva «le aspettazioni del socialismo in modo tutt’altro che assoluto e filosofico» (B. Croce, G. Gentile, Carteggio 1896-1900, cit., pp. 62-63). Il libro di Labriola uscì immediatamente dopo la pubblicazione del saggio crociano Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (novembre 1897) che, come notò subito Gentile, appariva l’opera «di un critico inesorabile di tutta questa nuova speculazione dell’amico e come un gravissimo piombo ai suoi piedi» (p. 77). Il saggio sviluppava sistematicamente la lettura di Marx che Croce aveva completato velocemente (Nicolini 1962, pp. 163-64) e forniva la giustificazione teorica del suo atteggiamento nei confronti del socialismo.
Come abbiamo visto, Croce condivideva la tesi che il fondamento della concezione materialistica della storia fosse la critica dell’economia politica, ma riteneva che il suo valore euristico non andasse oltre la specificazione della struttura di classe delle società moderne e svolgeva il teorema del «paragone ellittico» sostenendo che la teoria del valore fosse un’escogitazione «extraeconomica» volta a dimostrare «la natura usurpatrice del profitto» (Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse, in Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 140):
Il Marx assunse, fuori del campo della pura teoria economica, una proposizione, che è la famigerata eguaglianza di valore e lavoro; ossia la proposizione, che ‘‘il valore dei beni prodotti da lavoro è uguale alla quantità di lavoro socialmente necessario per produrli’’. Solo in virtù di questa assunzione la ricerca sua propria prese cominciamento (p. 70).
La sua lettura si inseriva nel solco delle critiche mosse alla teoria del valore dal marginalismo, rinvigorite dal dibattito sulla trasformazione dei valori in prezzi suscitato dalla pubblicazione postuma del terzo volume (1894) di Das Kapital. Trait d’union fra Croce e i marginalisti era la fioritura delle filosofie neokantiane che tornavano a scindere logica e storia, colpendo l’unità di scienza ed esperienza su cui Marx aveva inteso esercitare la più innovativa investigazione (pp. 72-75). In tal modo il «paragone ellittico» veniva riformulato come confronto, valido solo per la ‘ragion pratica’, fra la società capitalistica quale effettivamente è e una società puramente economica in cui valore e lavoro si eguaglierebbero in quanto idealmente costituita solo da lavoratori. Di conseguenza, la critica dell’economia politica perdeva il valore di indagine genetica sulla formazione sociale capitalistica e di spiegazione scientifica del suo carattere contraddittorio, divenendo uno studio del «problema sociale del lavoro» di cui il paragone ellittico evidenziava «il modo particolare in cui questo problema viene risolto nella società capitalistica», vale a dire sfruttando il lavoro salariato. Ma, secondo Croce, questo aspetto, sebbene empiricamente vero, non era dimostrabile scientificamente poiché solo attraverso un «paragone ellittico» fra la società effettuale e una società idealtipica da lui escogitata «il Marx poté giungere a porre e definire l’origine sociale del profitto, ossia del sopravalore» (p. 79).
L’estensione dello stesso paradigma alla teoria della trasformazione dei valori in prezzi fu approfondito nell’articolo Una obiezione alla legge marxista della caduta del saggio di profitto, pubblicato due anni dopo (maggio 1899). In esso Croce si proponeva di fornire una dimostrazione argomentata della fallacia della teoria marxiana del valore affrontando il tema più dibattuto dalla letteratura marxista: la teoria delle crisi. Basandosi sul terzo volume di Das Kapital, Croce sostenne che Marx aveva formulato la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto osservando gli «effetti economici dei progressi tecnici» in un’economia fondata sulla
premessa del valore-lavoro, la distinzione tra capitale costante e capitale variabile, la considerazione del profitto come nascente dal sopravalore, e del saggio medio di profitto come nascente dall’agguagliamento dei vari saggi di sopravalore per opera della concorrenza (Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, in Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 151-52).
La caduta tendenziale del saggio di profitto scaturiva, quindi, dal «progresso tecnico» poiché in un’economia capitalistica concorrenziale l’imprenditore, per difendere il suo saggio di profitto, non poteva fare a meno di investire in capitale costante; ma questo riduceva progressivamente la disponibilità di capitale da investire nell’acquisto di forza-lavoro, provocando una riduzione continua del capitale complessivo (valore-lavoro accumulato) e quindi la stagnazione economica e al limite l’implosione del capitalismo. Naturalmente, aggiungeva Croce, Marx non era giunto a conclusioni così paradossali poiché la distinzione fra capitale costante e capitale variabile metteva in evidenza come l’aumento del primo facesse crescere la disoccupazione e questo accresceva il valore del capitale variabile, dal momento che con una quota decrescente di esso si poteva acquistare la stessa o una maggiore quantità di forza-lavoro pagandola di meno. Ma obiettava che, se questa è la dinamica effettiva dello sviluppo capitalistico, vuol dire che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è falsa, poiché l’aumento progressivo del capitale costante non deprime, ma anzi accresce la massa del plusvalore e quindi fa aumentare anche il saggio di profitto complessivo. Secondo Croce, la spiegazione dello «strano errore» stava nel fatto che Marx aveva «sempre abusato del metodo comparativo». La falsità della legge della caduta del saggio di profitto dimostrava che in questo caso il termine di paragone consisteva nell’ipostatizzazione di una società capitalistica «meno progredita» di quella industriale.
Appare evidente la singolarità della lettura crociana di Das Kapital. La memoria sulla caduta del saggio di profitto prescinde dalla trattazione che Marx ne aveva fatto nel primo volume e si concentra solo sul terzo. Così facendo Croce compie più di un errore: innanzitutto ignora che
la legge è l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella del plusvalore relativo che determina l’espansione molecolare del sistema di fabbrica e cioè lo sviluppo stesso del modo di produzione capitalistico
quindi «non può essere studiata solamente sull’esposizione data dal III volume» poiché «questa trattazione è l’aspetto contraddittorio della trattazione esposta nel I volume, da cui non può essere staccata» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 1975, p. 1283). Ma se si tengono insieme il primo e il terzo volume di Das Kapital, appare chiaramente che, individuata nel plusvalore relativo la molla del progresso tecnico, la contraddizione evidenziata da Marx è che
mentre da un lato il progresso tecnico permette una dilatazione del plusvalore, dall’altro determina, per il cambiamento che introduce nella composizione del capitale, la caduta tendenziale del saggio di profitto (p. 1278).
Quindi, quella che Croce presenta come una sua obiezione è, in realtà, la formulazione della legge che Marx aveva dato nel primo volume mettendo in luce il carattere intimamente contraddittorio del modo di produzione capitalistico (p. 1279). In altre parole, plusvalore relativo e saggio di profitto attengono a due momenti distinti dell’accumulazione capitalistica, il momento della produzione e quello della circolazione, poiché la merce-lavoro non può produrre valore se non viene comprata e i due momenti riguardano aspetti diversi dell’antagonismo fra lavoro salariato e capitale: quello dell’estrazione del plusvalore e quello della sua realizzazione, entrambi (diversamente) contraddittori poiché dipendono dai rapporti di forza fra i gruppi sociali di cui si compone una società divisa in classi. Perché Croce ignora o travisa categorie come quelle di lavoro astratto e plusvalore relativo? Conviene ricordare che i suoi saggi avevano preso il via dalla confutazione della «forma scientifica del materialismo storico» e dalla contestazione della «dilucidazione» che Labriola ne aveva fatto. Dinanzi agli sviluppi presenti nel Discorrendo, Croce ne ‘sollecitava’ il dettato per ascrivere anche il suo ‘maestro’ ai sostenitori del carattere idealtipico della teoria del valore (Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 72). La ‘sollecitazione’ era quanto mai rivelatrice poiché, nell’esposizione di Labriola, il carattere ‘tipico’ della teoria del valore stava a indicare la corrispondenza fra gli sviluppi dell’economia classica e la società capitalistica formatasi nello stesso periodo. Essa quindi costituiva «la premessa tipica» senza la quale non avrebbero potuto essere elaborate né la teoria del plusvalore come spiegazione della genesi del modo di produzione capitalistico, né il nesso fra produzione e circolazione come forma della sua riproduzione. In altre parole, era la categoria fondamentale della storicizzazione della società capitalistica e del processo logico-storico che ne costituiva l’episteme (A. Labriola, Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, 1973, pp. 674-75). Ma il «logico-storico» era appunto la «forma scientifica del materialismo storico» che Croce intendeva confutare.
Il bersaglio di Croce era la tesi engelsiana – premessa fondamentale dei saggi di Labriola – che l’economia fosse «essenzialmente una scienza storica» (Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 81). Questo atteggiamento scaturiva dal fatto che, sebbene avesse abbandonato l’originaria «riduzione» della storiografia «sotto la categoria generale dell’arte», Croce non muoveva certo verso una concezione della storia come «scienza». L’impatto principale della ‘scoperta’ di Marx era stato quello di destare in lui l’interesse per lo studio dell’economia e nel contesto culturale europeo di fine secolo, così come in filosofia si orientava verso il neokantismo, in economia trovò il suo approdo nel marginalismo (p. 87; cfr. Macchioro 2001, pp. 514-16). La critica radicale del logico-storico sviluppata da Gentile nel suo primo scritto su Marx ebbe su di lui un’influenza decisiva. Infatti Croce, per chiarire le ragioni per cui prendeva in considerazione il materialismo storico solo come canone empirico della ricerca storica, si appoggiò alle argomentazioni gentiliane, secondo cui Marx, teorizzando che «tutti i fatti si svolgono per negazioni e negazioni di negazioni», aveva trasferito la dialettica hegeliana della negazione dal processo logico al divenire empirico costruendo così «una metafisica del contingente» (Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 91-95). Tornando quindi sulla categoria del valore-lavoro, osservò che, essendo valida solo per la società borghese capitalistica, non poteva essere utilizzata per definire il «fatto economico» in sé.
Croce approfondì questi concetti nello scritto su Marxismo ed economia pura (in Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 162-75) immediatamente successivo alla memoria sulla caduta del saggio di profitto, e nella lettera a Vilfredo Pareto del 15 maggio 1900 (pp. 221-32). La scienza, egli ricorda, è fatta di idealtipi che non hanno riscontro nella molteplicità dei fenomeni storici. Ma se le categorie scientifiche sono astrazioni pure, l’unica scienza è la filosofia, il cui compito è di categorizzare le azioni umane, le volizioni e i comportamenti che si esplicano secondo uno stesso tipo di razionalità. Se mossi dall’interesse, l’unica categoria che potesse ricomprenderli era la categoria dell’utile: una categoria «vuota» che caratterizza tutte le formazioni sociali e i modi di produzione avvicendatisi nella storia.
In tal modo la radicalizzazione del trascendentalismo generava una divaricazione logica fra scienza ed esperienza che dimostrava la fallacia dei tentativi di fondare programmi sociali su presupposti scientifici.
Questo valeva sia per il socialismo, sia per il liberalismo nella versione attuale di Maffeo Pantaleoni e Pareto. Tanto l’idea di organizzazione degli attori individuali e collettivi della vita economica, quanto quella di affidare la redistribuzione delle risorse e l’allocazione degli investimenti al «libero mercato» erano storicamente plausibili, secondo le circostanze. «Ma gli ideali non si dimostrano, e le empiriche congetture e le persuasioni pratiche non sono scienza» (p. 102). «Di fronte all’avvenire della società, di fronte alle vie da seguire, è il caso di ripetere con Faust: Chi può dire io credo? Chi può dire io non credo?» (p. 108). Risolta l’economia nella categoria dell’utile, Croce abbandonava l’idea che il fondamento della critica marxista del capitalismo fosse di carattere etico. Semmai, scriveva a Pareto, l’«economico» è la «condizione» dell’«etico» in un quadro di reciproca «indifferenza» (p. 230). Perciò rinviando a Das Elend der Philosophie (1847), faceva proprio il «detto del Marx: che la morale condanna il già condannato dalla storia» (p. 111). Quindi dichiarava che i
progressi del socialismo sono tali che il pensatore si deve domandare: se l’esperienza che abbiamo del passato giustifichi il supporre che un movimento sociale, di tanta estensione e intensità, possa assorbirsi o disperdersi, senza fare larga prova di sé nel campo dei fatti (p. 104).
La moralità del socialismo stava dunque nell’aver dimostrato «che l’operaio si educa con la lotta politica» e Croce citava l’esempio della socialdemocrazia tedesca. Il socialismo, quindi, aveva piena legittimazione storica nella misura in cui contribuiva a far crescere una coscienza più affinata della «realtà effettuale». Il «titolo d’onore» di Marx, scriveva Croce, stava nell’essere il «Machiavelli del proletariato» (p. 118).
Il saggio di Gentile su La filosofia della prassi fu scritto fra luglio e agosto del 1899 in risposta al Discorrendo. Se nel saggio In memoria del Manifesto dei comunisti Labriola aveva definito il materialismo storico «l’ultima filosofia della storia», nel Discorrendo ne chiariva il carattere di «filosofia della praxis»:
Se mai si dovesse formulare, non sarebbe fuori luogo il dire, che la filosofia implicita al materialismo storico è la tendenza al monismo […] e aggiungo tendenza critico-formale […]. Esso parte dalla praxis, cioè dallo sviluppo della operosità, e come è la teoria dell’uomo che lavora, così considera la scienza stessa come un lavoro. Porta in fine a compimento il senso implicito alle scienze empiriche; che noi, cioè, con l’esperimento ci riavviciniamo al fare delle cose, e raggiungiamo la persuasione, che le cose stesse sono un fare, ossia un prodursi (A. Labriola, Scritti filosofici e politici, cit., pp. 719-20).
Essendosi formato alla scuola di Bertrando Spaventa e di Johann Friedrich Herbart, Labriola discorreva di filosofia anzitutto in chiave di teoria della conoscenza. Ma la praxis, come cardine della concezione materialistica della storia, non poteva essere una categoria gnoseologica senza essere nel contempo un concetto strategico e il superamento del dualismo tra teoria e pratica (pensiero ed essere), a cui approdava, mirava a giustificare storicamente il socialismo come soggettivazione politica del «lavoro».
Mentre Croce non raccolse il tema della filosofia della praxis, isolando quello della «tendenza al monismo» (Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 99), Gentile, invece, lo mise al centro della sua interpretazione della filosofia di Marx. Prima di criticarla, però, dichiarava di volerla ricostruire e pur non conoscendo nulla di quel che Marx ed Engels avevano scritto fino al 1845, si concentrò sulle glosse a Feuerbach (che Engels aveva pubblicato in appendice al suo Ludwig Feuerbach) considerandole un documento inoppugnabile del fatto che la concezione materialistica della storia era «sorta coi caratteri di una teoria filosofica, coordinata intrinsecamente a un nuovo speciale sistema di vera e propria filosofia» (La filosofia di Marx, cit., p. 62). Nella nota preliminare al suo opuscolo Engels aveva avvertito che si trattava di «appunti per un lavoro ulteriore, buttati giù in fretta, non destinati in alcun modo alla pubblicazione» e contenenti solo «il germe geniale della nuova concezione del mondo» (F. Engels, Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, 1950, p. 9); ma Gentile, incrociando le poche informazioni da lui fornite su Die deutsche Ideologie (com’è noto, l’opera fu pubblicata solo nel 1932), si sentì autorizzato ad affermare che nelle Thesen über Feuerbach (aprile 1845) Marx aveva compendiato la sua filosofia. Inoltre inserì le Thesen nel suo saggio traducendole «alla meglio» e commise un errore provvidenziale che tornava utile non solo alla sua interpretazione della filosofia della prassi, ma anche all’elaborazione della propria filosofia. Tradusse, cioè, «umwälzende Praxis» come «prassi che si rovescia» anziché come «praxis che rovescia», ovvero prassi rivoluzionaria (R. Mondolfo, Il materialismo storico di Federico Engels, 1952, pp. 401-03). Egli presentò la filosofia della praxis come una nuova teoria della conoscenza che unificava soggetto e oggetto riconoscendo, sulla scia di Giambattista Vico e di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, la «produttività del conoscere», ma aggiungeva che, diversamente dall’idealismo, «cambia in Marx il principio dell’operare, e, invece delle modificazioni della mente, sono radici della storia i bisogni dell’individuo, come essere sociale» (La filosofia di Marx, cit., p. 74). La praxis, quindi, non era altro che il concetto dell’«attività sensibile» e Gentile, combinando la prima e la terza Tesi, giungeva alle seguenti conclusioni:
L’attività della prassi, l’unica attività originaria è [...] l’energia produttiva dell’oggetto […]. Ora se questa prassi è conoscere e fare, gli oggetti di essa sono teorici e pratici, sono conoscenze e fatti; quindi anche circostanze, educazione, ambiente. Ma col conoscere, col progredire, col modificarsi dell’oggetto, cresce, progredisce, si modifica parallelamente anche il soggetto pel fatto stesso del crescere, progredire e modificarsi dell’oggetto. Quindi l’effetto reagisce sulla causa, e il loro rapporto si rovescia, l’effetto facendosi causa della causa, che diviene effetto pur rimanendo causa; e ha luogo insomma una sintesi della causa con l’effetto. La prassi, che aveva come principio il soggetto e termine l’oggetto, si rovescia, tornando dall’oggetto (principio) al soggetto (termine). E però Marx notava che il coincidere del variare delle circostanze e dell’attività umana può essere concepito soltanto come prassi che si rovescia (nur als umwälzende Praxis) (p. 85).
La filosofia della praxis, dunque, non era altro che il processo logico dell’Io fichtiano (tesi-antitesi-sintesi) storicizzato da Hegel (nella triade essere-non essere-divenire) e corretto da Marx «in un’applicazione alla materia di ciò che Hegel aveva esattamente scoperto per rispetto allo spirito» (p. 86). E poiché la dialettica di Marx era la stessa dialettica di Hegel, il divenire per antitesi e la divisione della società in classi postulavano necessariamente un procedere per sintesi successive e il trapassare di forma in forma secondo lo schema di una classica filosofia della storia. Ma non era sic et simpliciter un ‘ritorno a Hegel’, poiché, secondo Gentile, il fondamento della dialettica di Marx (della teoria della storia come storia delle lotte di classe) era il trascendentalismo kant-fichtiano che ripristinava il dualismo fra soggetto e oggetto (pp. 102-06). Il problema non poteva essere risolto con il concetto di «tendenza critico-formale al monismo» poiché «formale», obietta Gentile, implica un’«intuizione monistica a priori», mentre «il contenuto del mondo, dell’essere, non s’attinge se non per l’esperienza. Quindi apriorismo della forma ed empirismo del contenuto» (p. 143). La soluzione si doveva cercare nel modo in cui Spaventa aveva interpretato «lo schietto pensiero hegeliano intorno alla relazione della filosofia con l’esperienza» (p. 146).
Il primo saggio di Gentile su Marx era stato concepito mentre concludeva la stesura del Rosmini e Gioberti, la sua tesi di laurea pubblicata all’inizio del 1898, mentre il secondo fu scritto due anni dopo, avendo atteso in quel periodo all’approfondimento del pensiero di Spaventa, mediato dal magistero di Donato Jaja; inoltre era stato concepito contemporaneamente alla raccolta degli Scritti filosofici (1900) di Spaventa, ai quali Gentile prepose una monografia che ne interpretava il pensiero. Nella dissertazione di laurea le linee del suo programma scientifico erano già tracciate e non si può dire che fossero fedeli al pensiero di Spaventa: il neoidealismo gentiliano si fondava sulla combinazione dello schematismo kantiano con il principio hegeliano dell’unità di filosofia e storia della filosofia, mentre sul piano storiografico la formula spaventiana della «circolazione del pensiero europeo» veniva piegata alla rivalutazione del pensiero italiano secondo il principio di «nazionalità» della filosofia (La filosofia di Marx, cit., pp. XIV e X-XI; cfr. Vacca 1967). Ma nell’economia di questo saggio ci limiteremo a richiamare l’attenzione sul parallelismo fra Spaventa e Marx contenuto nell’introduzione agli Scritti filosofici di Spaventa e sulla lunga citazione dei suoi Principii di filosofia (1867) inserita nel saggio sulla filosofia della prassi. In quella introduzione Gentile affermava che Spaventa, approfondendo «un concetto solamente accennato» nella Phänomenologie des Geistes (1807) di Hegel, aveva scoperto «nella conoscenza un sapere che non è più semplice sapere; ma, in quanto sapere, è agire, operare». In altre parole, aveva superato l’opposizione fra soggetto e oggetto attraverso il riconoscimento del valore gnoseologico del «processo pratico» come mediazione imprescindibile dei due termini. Quindi aggiungeva:
Questo concetto […] fu pure una delle vedute più profonde di uno degli epigoni tedeschi più celebrati del filosofo di Stoccarda, ignoto certamente, per questo rispetto, allo Spaventa; dico Carlo Marx (G. Gentile, Discorso sulla vita e sulle opere di B. Spaventa, in B. Spaventa, Scritti filosofici, cit., pp. CVII-CIX).
A monte di quel parallelismo si colloca la lunga citazione dai Principii di filosofia inserita nel saggio su La filosofia della prassi, in cui Spaventa, facendo il punto sul rapporto fra pensiero ed esperienza, scienza e filosofia, aveva sottolineato «la novità del concetto, così essenziale alla filosofia moderna, della infinita potenza del conoscere» (cfr. G. Gentile, La filosofia di Marx, cit., pp. 146-47).
L’importanza della contemporaneità della introduzione agli scritti di Spaventa e della Filosofia di Marx è stata autorevolmente argomentata (Garin 1991, pp. 47-48; Turi 1995, pp. 75-81). Proviamo dunque a trarne le conseguenze. Secondo Gentile la relazione imprescindibile fra pensiero ed esperienza può essere fondata solo sul riconoscimento del carattere trascendentale delle categorie, ma questo esclude che il principio del conoscere, il ‘fare’ di una filosofia della praxis, sia l’attività sensibile. Non ponendosi Marx il problema di elaborare «il sensibile» come categoria trascendentale, il tentativo di una concezione materialistica della storia si risolse in un fallimento:
La radice della contraddizione, che spunta per ogni verso nel materialismo di Marx, è nell’assoluto difetto di ogni critica relativa al concetto della prassi applicata alla realtà sensibile, alla materia, che presso di lui si equivalgono. Marx non pare si sia curato minimamente di vedere in che modo la prassi si potesse accoppiare alla materia, in quanto unica realtà; mentre tutta la storia antecedente della filosofia doveva ammonirlo dell’inconciliabilità dei due principii: di quella forma (= prassi) con quel contenuto (= materia) (La filosofia di Marx, cit., p. 163).
«Un eclettismo di elementi contraddittori» – conclude Gentile – «è il carattere generale di questa filosofia di Marx; della quale», aggiunge alludendo alla crisi del marxismo,
non han forse gran torto oggi alcuni tra i suoi discepoli di non sapere che farsi. Molte idee feconde vi sono a fondamento, che separatamente prese son degne di meditazione: ma isolate non appartengono, come s’è provato, a Marx, né quindi possono giustificare quella parola “marxismo”, che si vuole sinonimo di filosofia schiettamente realistica (p. 165).
In una pagina assai nota del Discorrendo Labriola aveva ritenuto utile precisare che volgendosi al socialismo, dopo aver fatto lungamente i conti con «ciò che occorre per filosofare», non aveva «chiesto a Marx l’abicì del sapere», ma solo ciò che il marxismo «effettivamente contiene» (Scritti filosofici e politici, cit., p. 727). Mi pare evidente che le domande rivolte da Croce e Gentile a Marx erano di tutt’altro genere e scaturivano da un atteggiamento etico-civile poco conciliante o del tutto ostile al socialismo. Unendo i due saggi nel volume su La filosofia di Marx, Gentile dichiarava d’essersi voluto occupare solo della «metafisica materialistica» ‘architettata’ da Marx nel 1845-46 «pel proposito […], dopo aver concepito la sua dottrina rivoluzionaria, di pigliare una posizione in filosofia»: «una superfetazione del suo pensiero […] in cui Marx non insistette» poiché riposava su «una falsa analogia» fra «la sua concezione economica della storia» e il «materialismo» (La filosofia di Marx, cit., pp. 6-8). In tal modo Gentile, che aveva preso a occuparsi di Marx per controbattere la riduzione crociana del materialismo storico a canone empirico di ricerca storica, finiva per salvaguardarla, poiché prevedeva la possibilità di utilizzarne «separatamente» alcune «idee feconde» e quindi presentava la propria ricerca come complementare a quella di Croce. Questi, dal canto suo, raccogliendo i suoi saggi in Materialismo storico ed economia marxistica non si fece scrupolo di rappresentare le loro ricerche come il frutto di una divisione del lavoro concordata, accogliendo la periodizzazione del pensiero di Marx e l’interpretazione datene da Gentile.
Diverse sono invece le differenze fra la lettura crociana di Marx e quella di Gentile: il primo ne trasse valide suggestioni per elaborare la categoria dell’utile (in seguito del vitale), completando così il quadrangolo della filosofia dei distinti, e il secondo per arricchire la genealogia spaventiana dell’idealismo attuale (Garin 1991, pp. 34-37). Sul merito delle due ‘operazioni’, vale quindi la pena citare il lungo brano di Labriola ch’era stato la fonte della loro conoscenza del marxismo e la vera testa di turco di entrambi. Il 2 gennaio del 1904, un mese prima di morire, durante una breve tregua dagli assalti del cancro alla laringe, scriveva a Croce commentando l’edizione dei Principii di etica di Spaventa curata da Gentile:
La sua personale manifestazione filosofica si riduce invero a questo: bisogna tornare a Hegel! Ma torni pure, s’accomodi […]. Se avesse mente acuta […] avrebbe capito che io volevo col mio esempio personale richiamarlo ad intendere le ragioni obiettive che avevano alienato le menti degli uomini da 50 anni in qua dal seguire le filosofie del genere dell’hegeliana […]. Del resto per parlare più allegramente, non potresti tu per il primo far contento il Gentile convertendoti alla filosofia di Hegel? […]. La conversione tua sarebbe più interessante e meritoria. Perché [scriveva a commento dell’Estetica] sei l’antidivenire, l’antistoria, l’antievoluzione, l’antiempirico, l’antigenesi, l’antisecolodecimonono … per eccellenza. Il tuo filosofare […] consta di semplici giudizi analitici. Di fronte a questi giudizii purissimi (e sfido che non siano puri, dal momento che non sono sintetici) stanno le disgregate e infinite cose della natura e del mondo sociale […]. Nella filosofia del diritto non c’è la lotta di classe, la quale c’è però nella vita; nell’economia non c’è il sopravalore, il quale però c’è nella società […]. Ti sei mai reso conto della portata e delle conseguenze di questo modo di ragionare? La conseguenza più semplice è questa: non c’è scienza di nulla che sia empiricamente dato – c’è solo scienza dei concetti puri e questi sono enunciabili tutti in giudizi analitici. Altro che dialettica (hegeliana o marxista!) – altro che giudizi sintetici a priori […]: questa è filosofia wolfiana bella e buona (A. Labriola, Carteggio, 5° vol., 1899-1904, a cura di S. Miccolis, 2006, pp. 340-42).
Labriola era rimasto deluso dal primo saggio di Croce su Marx poiché dimostrava che non era riuscito a cambiarne «l’orientamento mentale», cioè a mutare il suo abito di «erudito» e a fargli «volgere gli studi» a «quello che ora occorrerebbe all’Italia per migliorare la sua cultura» (A. Labriola, Carteggio, 4° vol., 1896-1898, a cura di S. Miccolis, 2006, pp. 10-11). All’origine della sua scelta socialista c’era l’esigenza, lungamente meditata, di un ricambio delle classi dirigenti italiane e l’intuizione dell’importanza dei partiti moderni (il partito socialista, scriveva nel Discorrendo, era il primo esempio di un partito dedito a «preparare l’educazione democratica del popolo minuto»). Inoltre aveva una lucida percezione della crisi del «blocco storico» risorgimentale sia per ragioni internazionali – espansione dell’imperialismo e globalizzazione dell’economia mondiale –, sia per motivi interni – sviluppo industriale, crescita e organizzazione del proletariato, acutizzazione dei dualismi territoriali e settoriali. Con i saggi sul marxismo aveva inteso dare consapevolezza al movimento operaio della sua funzione storica e innovare le basi culturali delle élites socialiste; ma poneva anche un problema più generale: l’esigenza di mutare lo statuto dei ceti intellettuali al fine di costruire nuove connessioni fra lavoro e sapere. Il problema travagliava tutto il socialismo europeo, incapace nel suo complesso di venirne a capo (Paggi 1974, pp. 7-134). Le ultime pagine del Discorrendo contenevano un abbozzo della crisi dell’Italia liberale a cui Labriola avrebbe dedicato le sue ultime energie (Scritti filosofici e politici, cit., pp. 774-76) e per chiarire quale fosse «l’orientamento mentale» ch’egli aveva sperato di suscitare nel giovane Croce conviene volgere lo sguardo al suo quarto saggio. Dimostrando in modo inoppugnabile che la sua visione del materialismo storico non aveva nulla a che spartire con la «filosofia della storia», Labriola indicava alla ricerca storica nuovi criteri sfidandola alla comprensione del «presente»: «Quale è il mezzo pratico per misurare la nostra cultura storica? Eccolo, è semplicissimo: la nostra capacità ad intendere il presente» (p. 822).
Quindi, dopo aver argomentato la necessità di partire dalla storia mondiale adoperando paradigmi del tutto estranei al determinismo economico (Oriente e Occidente, centro e periferia, città e campagna) attinti da una molteplicità di discipline (linguistica, ‘psicologia dei popoli’, storia economica, storia delle religioni ecc.), tracciava un abbozzo dell’Italia liberale, interrotto, com’è noto, per l’aggravarsi della malattia. Le domande che rivolgeva all’intelligenza italiana erano stringenti:
L’Italia, uscendo da secoli di effettiva decadenza e passando poi per la tensione cospiratoria e per l’ardore delle rivolte, non ha portato nel nuovo assetto una proporzionata esperienza di politica moderna; tant’è che fino ad ora la letteratura politica da noi presso che non esiste […]. Quante garanzie di stato moderno offre ora l’Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace concorrente nella gara internazionale? […]. La vecchia nazione italiana, componendosi a Stato moderno s’è trovata adattabile e di quanto s’è trovata difettiva di fronte alle condizioni della politica mondiale in genere? (p. 885).
Riandando alle origini dell’attualismo, Eugenio Garin (1991) ha parlato di «presa di coscienza di una crisi radicale della filosofia moderna» e della «richiesta d’un nuovo cominciamento» (p. 73). Lo stesso discorso si potrebbe fare per Croce, dipendente filosoficamente da Gentile non solo nella lettura di Marx. Ma non era diverso il groviglio di problemi da cui aveva preso le mosse Labriola, il quale però proponeva un’altra via, che Croce e Gentile non vollero e forse non potevano percorrere.
E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, Torino 1962.
F. Nicolini, Croce, Torino 1962.
G. Vacca, Politica e filosofia in Bertrando Spaventa, Bari 1967.
L. Paggi, Intellettuali, teoria e partito nel marxismo della Seconda Internazionale. Aspetti e problemi, introduzione a M. Adler, Il socialismo e gli intellettuali, a cura di L. Paggi, Bari 1974, pp. 9-134.
E. Garin, introduzione a G. Gentile, Opere filosofiche, Milano 1991, pp. 9-79.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995.
A. Macchioro, Lineamenti per una storia epistemologica dell’economia politica italiana, 1900-1950, in Marginalismo e socialismo nell’Italia liberale 1870-1925, a cura di M.L.E. Guidi, L. Michelini, Milano 2001, pp. 511-95.