Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con il termine grand-opéra si indica comunemente un genere operistico nato in Francia alla fine degli anni Venti e caratterizzato dalle vaste dimensioni, dalla grandiosità dell’allestimento, da soggetti tratti dalla storia medievale o moderna e imperniati spesso su conflitti politici o religiosi, dalla presenza di lunghi intermezzi danzati, dall’ampiezza e dal ruolo primario delle masse orchestrali e corali. I grands-opéras sono oggi quasi scomparsi dal repertorio; il giudizio critico corrente riconosce loro grandi qualità teatrali e drammatiche più che musicali, tranne che per il virtuosismo dell’orchestrazione.
Il teatro d’opera in Francia all’inizio dell’Ottocento
Nell’Ottocento il panorama musicale francese è molto diverso da quello italiano. Innanzitutto la centralità di Parigi si oppone ai molteplici centri musicali italiani; la capitale francese, nella quale sono attivi numerosi teatri e sale da concerto, funge infatti da calamita per compositori locali e stranieri, rivelando la sua vocazione cosmopolita. Anche i maggiori operisti italiani, da Rossini a Verdi, si lasciano tentare da un’avventura francese, anzi la ritengono indispensabile alla loro definitiva affermazione.
La Francia, al contrario di altri Paesi europei come l’Inghilterra e la Germania, ha sempre ostacolato la diffusione dell’opera italiana, favorendo la nascita di una propria tradizione nazionale di teatro d’opera con caratteristiche peculiari quali la centralità del testo letterario, e di conseguenza la preferenza per uno stile di canto declamato, la preferenza per soggetti mitologici o tratti dalla storia antica e il largo spazio accordato a divertissements danzati.
Inoltre in Francia l’organizzazione teatrale è sottoposta a rigide regole statali, e ogni teatro dispone di un privilegio che gli concede di apprestare un certo tipo di spettacolo. Al contrario di ciò che avviene in Italia, le sale teatrali sono aperte tutto l’anno, e propongono più volte la stessa opera, favorendo la creazione di un repertorio.
All’inizio dell’Ottocento i principali teatri parigini sono il Théâtre-Italien, l’Opéra e il Théâtre de l’Opéra-Comique. Nel primo vengono rappresentate opere italiane, il secondo è il tempio dell’opera francese, il terzo si dedica al genere omonimo che, nato nel Settecento, vive nella prima metà dell’Ottocento una nuova fioritura. L’opéra-comique (come il coevo Singspiel tedesco, e la zarzuela spagnola) si distingue formalmente dall’opera italiana per la presenza di dialoghi parlati al posto dei recitativi. La forma in voga nell’Ottocento privilegia spesso soggetti fantastici, di gusto romantico, come in La dame blanche (1825) di François-Adrien Boïeldieu, uno degli esempi più felici del genere.
L’Opéra, rinominata nel 1804 col nome di Académie impériale de Musique, assume varie denominazioni ufficiali nel corso del secolo, cambiando sede più volte. È l’unico teatro che abbia il privilegio di rappresentare opere interamente musicate in lingua francese, e per questo è il teatro per antonomasia, chiamato comunemente grand-opéra. Questo termine viene esteso alle opere che vi vengono allestite, mentre nel corso dell’Ottocento passa a indicare un tipo particolare di spettacolo.
Definizione del genere
Con il termine grand-opéra si indica comunemente un genere operistico nato in Francia alla fine degli anni Venti e caratterizzato dalle imponenti dimensioni (si compone in genere di cinque atti), dalla grandiosità dell’allestimento, da soggetti tratti dalla storia medievale o moderna e imperniati spesso su conflitti politici o religiosi, dalla presenza di lunghi intermezzi danzati, dall’ampiezza e dal ruolo primario affidato all’orchestra e al coro. Dal punto di vista formale – al contrario del genere coevo dell’opéra-comique – prevede l’uso dei recitativi come nell’opera italiana, ed è caratterizzato dalla tendenza a fondere i vari “pezzi” musicali (arie, duetti, recitativi, cori) in un tessuto continuo, secondo la tecnica dei tableaux.
Alcune di queste caratteristiche non sono del tutto originali: la tendenza alla spettacolarità è presente anche in alcune opere precedenti come Fernand Cortez (1817, ma rielaborata nel 1824 e nel 1832) di Spontini, o nell’ultimo Rossini, ad esempio Semiramide (1823), e così anche l’inserzione di lunghi balletti ha da sempre contraddistinto l’opera francese.
La peculiarità del grand-opéra consiste invece nella fine della centralità del testo letterario, ridotto al ruolo di libretto, a favore delle altre componenti dello spettacolo, la scenografia, la recitazione e il virtuosismo vocale. Il gesto eclatante, l’effetto, sono parte integrante della poetica del grand-opéra, definito da Richard Wagner un “effetto senza causa”. Il grand-opéra è innanzitutto un grande spettacolo, che richiede grandi mezzi e vuole provocare grandi emozioni, sia pure in maniera non raffinata e si rivolge a quello che con termine moderno si può chiamare grande pubblico.
Molti studi sul grand-opéra hanno soffermato la loro attenzione sul significato sociale e politico del suo successo. In particolare si sottolinea come esso nasca dopo la rivoluzione del 1830, che sostituisce l’ultimo dei Borbone con la monarchia borghese di Luigi Filippo d’Orleans con il conseguente imborghesimento del pubblico dell’Opéra. In chiave politica è stato giudicato anche il nuovo ruolo preponderante del coro: da spettatore che tutt’al più partecipa emotivamente alle vicende dei protagonisti esso diventa attore e motore dell’azione. La novità del grand-opéra, e in particolare di quella di Giacomo Meyerbeer, sta nel presentare non più solo conflitti individuali ma sociali. Secondo le parole di Sieghart Döhring (1983) il grand-opéra meyerbeeriano è un “dramma d’idee”, nel quale i conflitti ideologici si incarnano sulla scena: essi non fanno da sfondo, ma “agiscono” attraverso i personaggi, che finiscono schiacciati da questioni più grandi di loro.
La novità di tale prospettiva non sfugge neppure ai contemporanei: lo scrittore Heinrich Heine contrappone Meyerbeer – “uomo del suo tempo” – al sorpassato Rossini: il fatto che il compositore italiano primeggi nelle melodie mentre quello tedesco nelle armonie è espressione di una musica “individuale”, da una parte, e di una “sociale” dall’altra.
Trame e contesti
Il primo grand-opéra è La muette de Portici di Daniel-François-Esprit Auber, andato in scena il 29 febbraio 1828. La protagonista Fenella, la muta del titolo, è sorella del ribelle Masaniello, capeggiatore della rivoluzione napoletana contro gli Spagnoli del 1647. Le vicende della rivolta si intrecciano con quelle personali, poiché Fenella è stata sedotta da Alphonse, figlio del viceré; essa lo accusa pubblicamente attirandosene l’odio e il desiderio di vendetta. Masaniello, adirato per l’ulteriore affronto dell’oppressore, spinge il popolo alla rivolta; ma ben presto il giovane, disgustato dalla violenza, finisce per attirarsi l’odio dei suoi compagni e viene avvelenato. Le forze spagnole riprendono possesso della città e Fenella, disperata, si getta nel Vesuvio in eruzione.
In questo intreccio ci sono tutti gli ingredienti del grand-opéra: grandi passioni, conflitti di classe (l’aristocrazia e il popolo), spettacolarità (l’eruzione del Vesuvio, la parte della protagonista affidata a un mimo e quindi a una recitazione volutamente sopra le righe, secondo i canoni del teatro popolare).
Ma soprattutto domina il coro, il popolo napoletano. Esso appare sin dalla prima scena: dapprima festante per le imminenti nozze di Alphonse, prende poi le difese di Fenella, quindi scatena la rivolta. Infine tradisce il suo capo Masaniello e si piega nuovamente agli Spagnoli. Auber rappresenta il popolo come una forza infida e minacciosa così come doveva apparire alla borghesia che affollava il teatro dell’Opéra.
Ne La juive di Fromental Halévy (1835), è l’intolleranza religiosa a muovere gli eventi: Eléazar e la figlia Rachel sono fatti oggetto di persecuzione in quanto ebrei, e quando Rachel accusa il principe Leopoldo di essere stato il suo amante sotto una falsa identità, tutt’e tre vengono imprigionati: Leopoldo viene esiliato ed Eléazar e Rachel condotti al supplizio.
Nel grand-opéra forse più famoso, Les huguenots (1836), di Giacomo Meyerbeer il soggetto è il conflitto tra cattolici e protestanti, che culmina nella strage della notte di san Bartolomeo, il 23 agosto 1572. Su di esso Meyerbeer innesta la storia d’amore tra Valentine, cattolica, e Raoul, protestante; ma il protagonista principale è in realtà Marcel, vecchio servo di Raoul che rappresenta la forza della vera fede opposta al fanatismo. Raoul, Marcel e Valentine muoiono insieme trucidati dai cattolici, in un atto d’accusa contro l’intolleranza.
Esordi ed evoluzione: Giacomo Meyerbeer
Se La muta di Portici è considerato il primo grand-opéra, il secondo è il Guillaume Tell, ultima opera di Rossini, rappresentata all’Opéra il 3 agosto 1829. Al suo debutto Guillaume Tell fa sensazione, mostrando la capacità di Rossini di aderire ai dettami del gusto francese, e deludendo il pubblico affezionato al suo stile precedente. È una delle prime opere ad aderire al gusto romantico, per il soggetto, la lotta di liberazione degli Svizzeri dall’oppressore austriaco, e per il sentimento della natura.
Ma l’opera che veramente apre la strada al filone del grand-opéra è Robert le diable di Giacomo Meyerbeer, che vede la luce il 21 novembre 1831.
Concepito inizialmente come opéra-comique, durante l’elaborazione si trasforma in un dramma a fosche tinte, nel quale il Bene e il Male si contendono la vita di un uomo, Robert, appunto, figlio del demonio Bertram e di una principessa siciliana. In Robert le diable, rispetto agli altri grand-opéra di Meyerbeer, prevale l’elemento fantastico, ma alla base della vicenda sta sempre un conflitto “ideologico”, seppure generico. L’opera presenta inoltre un divertissement danzato, inserito abilmente nell’intreccio e che costituisce un momento importante nell’evoluzione del balletto: per ottenere i suoi scopi Bertram non esita a evocare gli spiriti di alcune monache morte, sepolte in un chiostro consacrato a santa Rosalia, la patrona di Palermo, città nella quale si svolge la vicenda. Il tema dell’evocazione, macabro e solenne, annunciato dai tromboni, è lo stesso che introduce l’opera, e provoca più di un brivido al pubblico parigino.
Il successo di Robert le diable è trionfale; il numero delle repliche cresce vertiginosamente e la sua fama si estende al mondo artistico e letterario: Degas prende a soggetto dei suoi dipinti la scena più famosa, l’evocazione, George Sand gli dedica alcune pagine delle sue Lettres d’un voyageur, e infine Balzac lo indica come opera esemplare nel suo racconto Gambara (1837), una delle due “études philosophiques” dedicate alla musica. Gambara ha per protagonista l’omonimo compositore pazzo, al quale viene somministrata come medicina proprio la prima esecuzione di Robert all’Opéra.
Honoré de Balzac
Gambara parla di un’opera teatrale
Gambara
“Non avete capito nulla, caro conte, di questo immenso dramma musicale” disse Gambara mettendosi negligentemente davanti al piano di Andrea; poi ne fece risuonare i tasti, ne ascoltò il suono, si sedette, e per qualche momento sembrò pensare e raccogliere le idee.
“E prima di tutto sappiate – riprese – che un orecchio attento come il mio ha riconosciuto il lavoro dell’incastonatore di cui parlate. Sì, questa musica è scelta con amore, ma tra i tesori di una immaginazione ricca e feconda, nella quale la scienza ha stipato delle idee per trarne l’essenza musicale. Voglio spiegarvi questo lavoro”. Si alzò per prendere le candele, e, prima di tornare a sedersi, bevve un bicchiere colmo di Girò, vino sardo che contiene tanto fuoco quanto ne accendono dei Tocai invecchiati.
“Vedete – disse Gambara –, questa musica non è fatta né per i miscredenti né per coloro che non amano. Se non avete provato mai gli assalti improvvisi di uno spirito malvagio che vi confonde il bersaglio nel momento in cui avete preso la mira, che suscita belle speranze e ad esse procura poi esiti infelici, insomma, in poche parole, se non avete visto mai la coda del diavolo che irrequieto guizza per il mondo, l’opera Roberto sarà per voi ciò che l’Apocalisse è per coloro che credono che tutto finisca con loro. Se, infelice e perseguitato, avete incontrato il genio del male, quello scimmione sempre pronto a distruggere l’opera di Dio, se lo immaginate non amare, ma violare una donna quasi divina e procurarsi con questo amore le gioie della paternità fino al punto di preferire un figlio dannato in eterno con lui piuttosto che felice in eterno con Dio; se infine immaginate l’anima della madre scendere sulla testa del figlio per strapparlo alle orribili seduzioni paterne, non avrete ancora che una pallida idea di quell’immenso poema cui manca ben poco per competere col Don Giovanni di Mozart. Don Giovanni è superiore per la sua perfezione, d’accordo; Roberto il diavolo rappresenta delle idee, Don Giovanni eccita le sensazioni. Don Giovanni inoltre è la sola opera musicale in cui armonia e melodia siano in perfetto equilibrio; il segreto della sua superiorità su Roberto è solo in questo, che Roberto è più ridondante. Ma a cosa serve questo raffronto se ciascuna di queste due opere splende della propria peculiare bellezza? A me, che gemo sotto i colpi reiterati del diavolo, Roberto ha parlato con più vigore che non a voi, e io l’ho trovato ad un tempo ampio e conciso. Grazie a voi, sono davvero entrato nel bel paese dei sogni dove i sensi si dilatano, dove l’universo si distende ed assume proporzioni gigantesche in rapporto all’uomo”. Ci fu un attimo di silenzio. “Ancora fremo - disse l’infelice artista - al ricordo delle quattro battute di timpano che m’hanno afferrato le viscere, quelle che aprono il breve e brusco preludio in cui il solo del trombone, i flauti, gli oboe e il clarino inondano l’anima di un colore fantastico. Quell’andante in do minore fa presagire il tema dell’invocazione delle anime nell’abbazia, e dilata la scena con l’annuncio di una lotta tutta spirituale. Avevo i brividi!”.
Honoré de Balzac, Gambara, prefazione di G. Pampaloni, Firenze, Passigli Editori, 1984
L’opera finisce per diventare un fenomeno di costume: in Inghilterra una nuova varietà di rose viene battezzata col suo nome. Con Robert la fama di Meyerbeer viene consegnata ai posteri e da quel momento ogni sua opera (ne scrive soltanto altre cinque) viene attesa con ansia messianica, anche grazie all’abile battage pubblicitario. A Robert seguono Les huguenots (1836), e poi, a una certa distanza, Le prophète (1849) e L’Africaine rappresentata postuma nel 1865. Nelle due ultime opere si accentua l’interesse per lo sfarzo scenografico: la scena dell’incoronazione di Jean, il profeta, accompagnata dalla marcia nella prima opera è, assieme a quella del naufragio – con protagonista Vasco de Gama – della seconda, un topos del genere.
Il ruolo di Eugène Scribe
Volutamente esagerando, Louis Veron, il vulcanico direttore dell’Opéra, si attribuisce nelle sue memorie la paternità del grand-opéra; molti critici maligni sottolineano invece l’importanza degli scenografi, senza i quali non avrebbe mai avuto un tale successo.
Il ruolo dell’artefice comunque spetta in eguale misura a un musicista e a un librettista, Giacomo Meyerbeer ed Eugène Scribe. Il librettista in Francia ricopre un ruolo molto diverso dal suo omologo italiano. In Italia il librettista è subordinato al volere del musicista, ed entrambi sono, almeno fino a un certo periodo, sottoposti al volere dell’impresario mentre in Francia si riconosce a entrambi lo statuto di “autore”. L’epistolario tra Meyerbeer e Scribe testimonia di un rapporto tra pari e nonostante talvolta Meyerbeer, non soddisfatto del lavoro di Scribe, si serva anche di un altro librettista, non lo tratta mai col disprezzo dimostrato, ad esempio, da Verdi verso i suoi librettisti. Tuttavia, Scribe rappresenta una novità nella storia dell’opera francese: non è più un letterato innanzitutto, ma un uomo di teatro, pronto anche a calpestare la qualità dei versi per ottenere una buona scena; questo fatto non gli viene perdonato dai letterati nella Francia classicista, mentre il pubblico accorre a vedere i suoi drammi, in prosa e in musica. Le caratteristiche dei testi di Scribe, che scrive sia opéra-comique sia grand-opéra sono facilmente individuabili e possono sembrare banali: la prima scena serve a presentare la situazione iniziale che viene bruscamente cambiata a causa di un malinteso, di un evento precedente o di una rivelazione. Tutte le scene successive mirano al ristabilimento dello status quo, o, più spesso, portano alla catastrofe finale.
Su questo meccanismo ben oliato Scribe costruisce i libretti di un centinaio di opere, tra le quali tutti i grands-opéras di Meyerbeer e le già citate La dame blanche, La muta di Portici, La juive e i Vespri siciliani.
La fortuna del grand-opéra in Italia
A causa dell’enorme successo del grand-opéra, per la prima volta l’Italia perde il monopolio della lirica, e viene sancito l’ingresso sui palcoscenici italiani di opere straniere. Negli anni Quaranta, la prima di Robert le diable al Teatro La Pergola di Firenze, è accompagnato da numerose polemiche: si creano due partiti, pro e contra Meyerbeer, animati rispettivamente dal musicologo Abramo Basevi, critico della “Gazzetta musicale di Firenze” da Giuseppe Rovani, scrittore ed editorialista culturale, tra gli altri, della “Gazzetta musicale di Milano”.
La storia della recezione del grand-opéra in Italia si coniuga con la sprovincializzazione del nostro Paese, che si apre sempre più alla musica sinfonica e cameristica, e con la storia della critica musicale che nasce proprio in questi anni. Il culmine della sua diffusione si colloca tra il 1860 e il 1870, anni cruciali per la storia nazionale; successivamente il numero delle rappresentazioni diminuisce, ma al contrario si amplia il raggio di diffusione, toccando anche i teatri più provinciali, che si attrezzano per produzioni così impegnative.
Il grand-opéra non manca di esercitare un duplice influsso sulla produzione dei compositori italiani: da una parte li spinge a cimentarsi col nuovo genere nelle suo luogo natale, come nel caso di Verdi che scriverà per l’Opéra I vespri siciliani (1855) e il Don Carlos (1867), dall’altra favorisce la nascita di una versione nostrana, la cosiddetta “opera-ballo”, di cui sono esempio il Ruy Blas (1869) del poco noto Filippo Marchetti, l’Aida (1871) dello stesso Verdi, e La Gioconda (1876) di Amilcare Ponchielli.
La scomparsa dal repertorio
I grands-opéras sono oggi quasi scomparsi dal repertorio, a causa forse della macchinosità dell’allestimento, o della lunghezza, che pare eccessiva a un pubblico moderno. Il giudizio critico corrente riconosce le grandi qualità teatrali e drammatiche più che puramente musicali (tranne che per il virtuosismo dell’orchestrazione, apprezzato universalmente). La volontà di stupire e i mezzi disponibili nel Teatro dell’Opéra, dotato di un’orchestra stabile, spingono ad adoperare strumenti non usuali come l’organo, o come la viola d’amore adoperata nella romanza di Raoul nel primo atto di Les huguenots.
Inoltre l’epoca del grand-opéra coincide con l’evoluzione tecnica di alcuni strumenti, come la tromba, alla quale vengono applicati i pistoni che permettono di eseguire tutta la scala cromatica. Nel finale della Juive Jacques Halévy sfrutta la nuova tromba a tre pistoni (1830), mentre Meyerbeer è uno dei primi a utilizzare il clarinetto basso.