Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il termine-ombrello “world music”, adottato alla fine degli anni Ottanta del Novecento, indica un’ampia gamma di musiche extra-occidentali in cui stilemi tradizionali si coniugano con elementi del pop e rock occidentale, ed è spesso impiegato per designare anche musiche pop occidentali “marginali” e stili di matrice folklorica. Benché l’interesse per le musiche “altre” non sia nuovo, l’adozione del termine segnala il tentativo, profondamente eurocentrico, di raggruppare in un’unica categoria concettuale e commerciale una gamma di musiche eterogenee accomunate dalla loro marginalità rispetto agli stili dominanti in Occidente, e solleva il problema del rapporto tra culture locali e globalizzazione.
World music (worldbeat, musique du monde, weltmusik)
Il termine significa letteralmente “musica mondiale” e comprende un ampio spettro di musiche non occidentali nate dalla fusione di stili tradizionali con elementi del pop e del rock occidentale, ma include non di rado anche musiche occidentali “marginali” e stili più propriamente folklorici. Esso compare nel 1987 per opera di alcune case discografiche britanniche attive nella promozione di artisti extra-occidentali la cui produzione è difficilmente collocabile nelle categorie di genere dell’industria musicale (si tratta soprattutto di musiche provenienti da Africa, America Latina ed Europa dell’Est).
La comparsa della world music sulla scena musicale è legata all’attivismo “terzomondista” che coinvolge in quegli anni nomi della scena pop internazionale come David Byrne, Peter Gabriel e Paul Simon (che nel 1986 realizza il celebre album Graceland con la collaborazione del gruppo sudafricano Ladysmith Black Mambazo, del cantante senegalese Youssou ‘N’ Dour e della formazione Tex-Mex dei Los Lobos), nonché al successo di eventi pop come Live Aid, Sun City e Amnesty International Human Rights Now! Tour, organizzati a sostegno di cause umanitarie legate ai Paesi in via di sviluppo e aperti alla partecipazione di artisti africani.
L’interesse da parte dell’Occidente per le musiche extra-occidentali o prodotte da sottoculture marginali non è nuovo. Fin dai suoi primi anni di vita, infatti, l’industria discografica va alla ricerca di musiche “altre” per rivenderle tanto nei Paesi d’origine che alle comunità etniche emigrate. A partire dal 1902, l’impresario e imprenditore discografico Fred Gaisberg (fondatore della Gramophone Company) visita città come Calcutta, Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Singapore e Bangkok per registrare esecuzioni di musicisti locali.
Tra i casi più rilevanti di utilizzo di musiche estranee alla tradizione europea, giova ricordarlo, c’è quello delle musiche dei nord-americani neri: stili come ragtime, blues, jazz, rhythm and blues e rap, inizialmente circolanti all’interno delle comunità afroamericane, sono cooptati nel corso del Novecento dal mercato mainstream bianco e globalizzati fino a diventarne elementi portanti. Il secolo appena concluso vede il succedersi di numerose mode basate su musiche provenienti da zone periferiche quali Argentina, Sud Africa e Trinidad, dove hanno origine rispettivamente forme come tango, kwela e calypso. Mentre però tali mode si focalizzano su un unico stile, la comparsa della nozione di world music fornisce per la prima volta un contenitore comprendente suoni eterogenei per caratteri stilistici, matrici culturali e funzioni sociali, e accomunati soltanto dalla loro posizione di marginalità rispetto agli stili musicali dominanti in Occidente.
Ciò spiega perché sotto il nome di world music si trovino spesso raggruppate musiche pop, folkloriche e persino classiche (come la musica classica indiana o quella di corte giavanese), e musiche tanto extra-occidentali che occidentali marginali (come il klezmer degli ebrei centro-europei, la musica celtica, il flamenco, il fado, il rebetiko). L’idea di differenza implicita nel concetto di world music, al tempo stesso, fa sì che questa categoria escluda musiche che in teoria ne dovrebbero far parte. È il caso dello ska e del reggae giamaicano, musiche del Terzo Mondo anglofono che sono oggi percepite, di più del blues e del rock, come parte integrante del linguaggio musicale pop occidentale. Paradossalmente, dunque, la world music non comprende tutte le musiche del mondo, ma soltanto quelle – e quegli artisti – che agli occhi del mercato occidentale mancano di un’identità forte di genere.
Musiche locali e cultura globale
Negli anni Novanta del Novecento i suoni della world music hanno ottenuto una notevole popolarità in Occidente. Fornendo una suggestiva metafora per interpretare le trasformazioni culturali in atto alle soglie del terzo millennio – spesso descritte attraverso concetti come sincretismo, ibridità, creolizzazione e métissage – tale successo ha avviato all’interno dei circoli accademici una riflessione sul rapporto tra musiche locali e cultura globale. Nell’impossibilità di fissare i molteplici significati e contenuti assunti dalla world music, gli studiosi hanno evidenziato come la percezione di una musica mondiale sia sostanzialmente legata ai consumi culturali dei grandi centri urbani occidentali. Secondo Steven Feld, il termine è “giunto a riferirsi a qualsiasi musica commercialmente disponibile di origine e circolazione non occidentale, e a musiche prodotte all’interno del mondo occidentale da minoranze etniche subordinate; musiche del mondo da vendersi intorno al mondo”.
Gli studiosi hanno formulato un giudizio generalmente positivo sulla world music, sottolineando come la sua comparsa abbia messo in crisi le tesi dell’“imperialismo culturale” che ipotizzano un modello di circolazione culturale unidirezionale (dal centro verso le periferie) e un rapporto deterministico tra locale e globale. Queste tesi vedono nella cultura di massa occidentale un prodotto imposto a forza al resto del mondo, e individuano nella produzione culturale locale un terreno vergine depredato dal capitalismo o un semplice riflesso dei rapporti di forza economici. Il carattere costituzionalmente meticcio della world music, invece, mette in evidenza la resistenza delle culture locali al presunto potere onnicorruttivo della cultura occidentale (non di rado assimilata tout-court a quella USA) e la difficoltà di identificare una “cultura globale” dotata di caratteri omogenei. L’ascesa della world music sottolinea dunque le traiettorie complesse con cui tecnologie, simboli e linguaggi della cultura occidentale circolano attraverso il pianeta, segnalando le modalità inaspettate con cui essi sono ricodificati dalle società postcoloniali e retroagiscono sulle culture dei Paesi economicamente dominanti.
Consenso e limiti
Pur senza scalfire il predominio commerciale del pop angloamericano, nell’ultimo decennio la world music ha goduto in Occidente di una posizione di crescente visibilità e prestigio occupando nuove aree di gusto e di mercato. La world music annovera oggi classifiche discografiche, periodici specializzati, rassegne e premi internazionali (ad esempio Grammy e BBC Awards), nonché dischi che hanno raggiunto livelli di vendite vicini o addirittura superiori a quelle delle popstar globali: è il caso dell’album di musica cubana Buena Vista Social Club (1997), che ha venduto oltre 5 milioni di copie. Cantanti “world” come Miriam Makeba, Youssou ‘N’ Dour e Caetano Veloso e stili come il pop-raï algerino e il bhangra angloindiano sono ormai noti in tutto il mondo, mentre le città europee e nord-americane ospitano oggi numerosissimi musicisti migranti che operano all’interno delle comunità immigrate ed elaborano nuove fusioni musicali.
Tali segnali indicano come la world music sia ormai penetrata in maniera considerevole nei consumi dell’Occidente e abbia in una certa misura contribuito a mettere in discussione il canone musicale occidentale, sia colto che popular. Oggi varie università anglofone offrono corsi sulla world music, il prestigioso editore Garland pubblica una Encyclopaedia of World Music (1998) e importanti festival internazionali di musica colta ospitano regolarmente artisti extra-occidentali.
In tutto ciò la world music è emersa come termine-ombrello efficace a dare visibilità alle musiche “altre”, ma al tempo stesso profondamente eurocentrico e contraddittorio proprio perché convoglia musiche caratterizzate da stili, mezzi, pubblici, ideologie e fini eterogenei, che mutano radicalmente di significato in contesti culturali differenti. Ciò spiega l’ostilità di molti musicisti extra-europei nei confronti del termine e dà origine a un fenomeno di “distorsione prospettica” nella world music, che talora esibisce come esemplare della cultura di un certo Paese il lavoro di artisti emigrati o quasi sconosciuti in patria. Il mercato della world music, in effetti, appare tuttora dominato da un’ideologia che tende a rappresentare il Terzo Mondo in termini di autenticità, premodernità ed esotismo e a collocare le musiche prodotte nelle periferie in una sorta di nicchia astorica, come nota John Hutnyk in Critique of Exotica: Music, Politics and the Culture Industry (2000). Analisi approfondite delle musiche post-coloniali, in realtà, indicano esattamente il contrario, mostrando la crescente problematicità di opposizioni come locale/globale, la natura mobile del concetto di tradizione e il rapporto dinamico che lega la cosiddetta cultura globale a musiche che sarebbe più corretto definire “localizzate”.