Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il folk music revival è stato in Europa un fenomeno complesso che ha attraversato tutto il Novecento e si è presentato con forme, stili e finalità differenti a seconda di epoche e Paesi. Imprescindibile nella qualificazione delle esperienze è la loro coloritura ideologica e politica. Il ricorrente motivo della riscoperta, attraverso la musica, di identità nazionali o locali (come nelle isole britanniche fin dall’inizio del secolo), si è alternato a tentativi di controllare dall’alto le espressioni artistiche popolari (come nell’Italia fascista o nei Paesi dell’Est Europa successivamente alla seconda guerra mondiale) e, nella seconda metà del secolo, alla ricerca nel folklore musicale di motivi intrinseci di contestazione politica e sociale.
Il folk revival di inizio secolo
Per folk music revival si indica, in maniera generica, l’attenzione che i ceti urbani e colti dell’Europa del XX secolo hanno rivolto alle musiche di tradizione orale, prevalentemente delle fasce agro-pastorali, con lo scopo di tenere in vita alcuni repertori. Questo fenomeno si è manifestato a più riprese e con modalità e finalità differenti.
La definizione corrente è nata in ambiente anglofono. In Gran Bretagna si distinguono un primo e un secondo folk revival. Il primo è collocabile tra la fine dell’Ottocento e la prima parte del Novecento (è del 1907 la fondazione della Association for the Revival and Practice of Folk Music) e ha per protagonisti alcuni ricercatori, quali Cecil Sharp, Maud and Helen Karpeles e Percie Granger, dediti alla raccolta, alla trascrizione e alla pubblicazione di canti popolari destinati a essere rieseguiti e alla diffusione didattica delle danze tradizionali attraverso una rete di scuole.
Questo “primo folk revival” interessa soprattutto musicisti d’ambito colto e utilizza la didattica come strategia prevalente di diffusione. Ispirato in diversi altri paesi europei da intenti nazionalisti e da un concetto di popolo-nazione di derivazione ottocentesca, trova in Ungheria con Béla Bartók (1881-1945) e Zoltán Kodály (1882-1967) un’articolata realizzazione.
In Italia questa fase della riproposta del folklore vede all’opera studiosi e compositori come Alberto Favara e Leone Sinigaglia, nonché compilatori di canzonieri a uso scolastico (ricordiamo quello di Achille Schinelli nel 1932), animati dall’esigenza di dare una veste unitaria alle diversissime inflessioni del canto dialettale regionale.
Durante il ventennio fascista l’idealizzazione nazional-popolare delle espressioni tradizionali, unita alla promozione di attività dopolavoristiche controllate dall’alto, alimenta la nascita di eventi e gruppi folkloristici. A queste iniziative, che rientrano nell’operato del Ministero per la Cultura Popolare, si affiancano in diversi casi (come in Sardegna) interventi di limitazione delle feste di piazza spontanee.
Il fenomeno dei gruppi folkloristici, considerabile come una forma particolare di folk revival, sarà del resto comune a moltissime altre realtà europee anche dopo la seconda guerra mondiale. In particolare, molti paesi dell’Europa orientale adotteranno stili coreografici spettacolari improntati al virtuosismo, con acrobazie e ricercatezza nei costumi.
Stati Uniti ed Europa occidentale dal secondo dopoguerra agli anni Settanta
Negli Stati Uniti, già a partire dagli anni Venti, comincia una minuta opera di registrazione di musiche di contadini o di altre categorie di lavoratori (come i minatori) da parte di etichette discografiche, appassionati e ricercatori. Tra questi ricordiamo Charles e Ruth Crawford Seeger, John e Alan Lomax, con le loro autorevoli raccolte sonore e la scoperta di musicisti che avranno un grande influsso sul folk revival del dopoguerra, e Harry Smith, eclettica figura di artista e appassionato collezionista di dischi a 78 giri, che nel 1952 cura per la Folkways Recordings una corposa Anthology of American Folk Music, in cui compaiono musicisti blues, country e cajun.
Il lavoro dei Lomax e l’Anthology di Smith sono negli anni Cinquanta e Sessanta tra le fonti di ispirazione dei musicisti del folk revival americano, corrispondente per metodi, stili e ideologie al cosiddetto secondo folk revival britannico. Le reciproche influenze tra le due sponde dell’Atlantico sono numerose. Lo stesso Alan Lomax, nella sua stagione di ricerca in Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda negli anni Cinquanta, collabora con molti musicisti e folkloristi britannici. Tra questi l’irlandese Seamus Ennis, l’inglese Albert Lloyd e lo scozzese Ewan McColl. Insieme animano uno dei primi folkclub londinesi, il Ballads and Blues Club (1953, più tardi Singers Club).
In questo periodo presessantottesco la cultura popolare è vissuta come espressione non più del popolo-nazione, bensì delle classi dei lavoratori. Ideali di egualitarismo e pacifismo si sposano con la ricerca di autenticità di valori in un passato percepito come estraneo alle imposizioni del consumismo. In USA musicisti della tradizione (Woodie Guthrie, Muddy Waters, la Carter Family) e nuove formazioni sono affiancati da interpreti e cantautori fortemente politicizzati come Pete Seeger, Joan Baez (1941-) e Bob Dylan (1941-). L’articolatissimo movimento vede nell’annuale Newport Folk Festival, inaugurato nel 1959, un luogo di incontro e dibattito. Proprio a Newport nel 1965 si consuma una rottura tra gli appassionati del folk e Bob Dylan, che, usando la chitarra elettrica, ha contraddetto i dettami estetico-ideologici del movimento, all’insegna del sound acustico.
Gli ideali di purezza acustica sono alla base anche delle esperienze di riproposta nell’Europa occidentale, dove i musicisti folk dei differenti Paesi devono fare i conti con le variegatissime tradizioni. In Francia è significativa per esempio la riscoperta delle lingue minoritarie come l’occitano in Provenza e il còrso, mentre in Bretagna, con Alan Cochevelou (Stivell) e suo padre Georges, si avvia il grande movimento di riscoperta dell’identità celtica, conseguentemente a quanto avviene in Irlanda e Scozia. Risale al 1953 il primo concerto di Alan Stivell bambino, con l’arpa bretone ricostruita dal padre.
Numerosi sono gli elementi comuni nel folk revival europeo: innanzitutto alcune procedure compositive, il recupero degli strumenti tradizionali (come i vari strumenti policalami, i cordofoni, dall’arpa celtica alla ghironda occitana, alla chitarra battente italiana, agli scandinavi kantele e nyckelarpa, compresi i differenti tamburi a cornice), la riproposta, con diversi gradi di rielaborazione, di canti nelle lingue o dialetti locali, la riscoperta delle danze contadine, l’assimilazione delle procedure improvvisative della ripetizione variata, delle scale modali pretonali, dei pattern ritmici mutuati dalle danze tradizionali.
Come negli Stati Uniti, anche in Europa occidentale si pone ben presto il problema del rapporto con i generi coevi della popular music , da cui prevalentemente è mutuato il metodo di lavoro, insieme con l’invenzione di gruppo. Soprattutto negli anni Settanta alle correnti filologiche si affiancano esperienze più aperte alla contaminazione (folk rock, folk jazz, folk blues).
Hanno un ruolo determinante nella diffusione del folk revival, oltre i già citati folk club, i festival, le etichette discografiche e le riviste specializzate, che fioriscono in diversi Paesi.
Il folk revival italiano
Nell’esperienza italiana, pur nella sua peculiarità, è possibile rintracciare gran parte degli elementi sopra citati. Studiosi, operatori e musicisti sono influenzati dalla lettura delle Osservazioni sul folklore di Antonio Gramsci, pubblicate nel 1950, in cui alla cultura delle classi subalterne sono attribuite concezioni del mondo autonome e antagoniste rispetto alla cultura dominante. L’idea di un folklore di per sé “contestativo” permea fortemente il folk revival italiano, che inizialmente condivide con la canzone sociale e politica i luoghi di elaborazione e proposta.
Una prima esperienza è quella di Cantacronache (Torino 1957), un nutrito gruppo di intellettuali (Michele Straniero, Sergio Liberovici, Fausto Amodei, Italo Calvino, Margot Galante-Garrone) che unisce alla ricerca e al recupero di canti sociali e di protesta della tradizione contadina e operaia la creazione di nuove canzoni politicamente impegnate. A Milano lo storico Gianni Bosio avvia una vasta opera di raccolta, pubblicazione e riproposta di canti rurali e politici. Il suo nome è legato alla collana dei Dischi del Sole, all’Istituto Ernesto De Martino (1964), importante centro di documentazione, e al Nuovo Canzoniere Italiano, poliedrico gruppo di riproposta con cui collaborano autorevoli artisti e intellettuali e che elabora diversi spettacoli quali Pietà l’è morta. La Resistenza nelle Canzoni (Padova 1964, a cura di Roberto Leydi, Filippo Crivelli e Roberto Pirelli), Bella Ciao. Un programma di canzoni popolari italiane (Spoleto, 1964, a cura di Leydi e Crivelli con testi di Franco Fortini), Ci ragiono e canto. Rappresentazione popolare in due tempi (Torino, 1966, a cura di Cesare Bermani e Franco Coggiola, con la regia di Dario Fo). In questo periodo emergono anche musicisti che provengono dagli ambienti popolari, come Giovanna Daffini, Matteo Salvatore e Rosa Balistreri, e cantautori politicizzati come Gualtiero Bertelli, Ivan Della Mea e Paolo Pietrangeli.
Intanto l’attività di conoscenza del mondo musicale agro-pastorale è portata avanti grazie all’opera capillare di ricerca di studiosi tra cui spiccano le figure di Diego Carpitella e Roberto Leydi. A Leydi e Carpitella si deve uno storico concerto, Sentite brava gente, al Teatro Lirico di Milano nel 1967, con la partecipazione di cantori e musicisti della tradizione, esperienza precorritrice di una prassi consolidatasi nei decenni successivi.
La ricerca e la pubblicazione (citiamo la collana dell’Albatros) di musiche tradizionali favoriscono negli anni Settanta la nascita di numerose esperienze di riproposta di repertori locali. Le più note sono quelle della Nuova Compagnia di Canto Popolare, nata a Napoli per opera di Roberto De Simone che pone mano a una ricostruzione in chiave anche storica della tradizione musicale rurale campana, e del Canzoniere del Lazio, nato dalla collaborazione di giovani musicisti romani (Piero Brega, Francesco Giannattasio, Sara Modigliani e Carlo Siliotto) con l’anglista Alessandro Portelli dell’Istituto Ernesto De Martino, fondatore successivamente del Circolo Gianni Bosio. Il fiorire di gruppi che rappresentano varie realtà locali trova una collocazione discografica nella Collana Folk della Fonit Cetra, diretta da Giancarlo Governi, che sul finire degli anni Settanta arriva a circa 100 titoli. Ispirati agli ideali sessantottini di pace e autodeterminazione dei popoli sono a Milano il Gruppo Folk Internazionale di Moni Ovadia e a Roma il Canzoniere Internazionale di Leocarlo Settimelli. Un’esperienza di intreccio di cultura contadina e operaia è invece il Gruppo Operario degli Zezi di Pomigliano d’Arco.
A Roma è importante ricordare l’esperienza del Folkstudio (1960-1988), un locale su modello dei folk club anglo-americani fondato da Harold Bradley e Giancarlo Cesaroni, punto di incontro a livello internazionale di jazzisti, cantautori esordienti, musicisti folk e di avanguardia (ha anche una sua etichetta discografica), e la nascita alla fine degli anni Settanta delle scuole popolari di musica, come quella di Testaccio in cui trova spazio la didattica del jazz e delle musiche tradizionali. Citiamo i corsi di canto di Giovanna Marini, musicista e studiosa attiva fin dagli anni Sessanta nello scenario della canzone di riproposta e politica. Il folk revival italiano degli anni Settanta è accompagnato da ferventi dibattiti. Alla citata contrapposizione tra tendenze filologiche e più liberamente creative si uniscono discussioni a sfondo più prettamente politico. Va ricordata la posizione di Diego Carpitella, che, a differenza dei tanti che cercano nella cultura popolare le manifestazioni esplicite di protesta sociale e politica, sostiene come la maggiore carica “contestativa” del folklore musicale non sia iscritta nei testi verbali, ma nelle modalità profonde di trattamento del suono e di espressività del corpo.
Gli anni Ottanta, con il cosiddetto “riflusso” dei movimenti giovanili sembra segnare la fine della stagione del folk revival. In realtà alcuni musicisti e operatori hanno continuato costantemente la loro attività. È il caso di vocalisti come Peppe Barra, Caterina Bueno e la citata Giovanna Marini, mentre alcuni strumenti tradizionali come l’organetto, le launeddas e la zampogna hanno visto consolidarsi i loro spazi d’uso anche grazie ad appuntamenti quali l’annuale festival della zampogna di Scapoli in Molise.
Alcuni profondi mutamenti, la cui portata non è ancora facile valutare, hanno condotto sul finire del secolo a una forte ripresa delle esperienze musicali locali. Un esempio è la rinascita nel Salento della tradizione della pizzica (danza popolare accompagnata dal tamburello, che trae origine dal fenomeno del tarantismo), cui si è affiancata, in diverse altre aree, la ripresa di consuetudini musicali che, negli anni Sessanta-Settanta, sembrano in via di esaurimento. La caratteristica di questo revival di fine secolo pare essere la riappropriazione e talvolta la ricostruzione o invenzione della cultura del passato da parte delle stesse comunità locali, rappresentate ormai da giovani generazioni protagoniste di una forte soggettività culturale. Un caso particolarmente significativo è quello della Sardegna, da sempre serbatoio di una delle culture regionali più ricche del Paese e oggi testimonianza di un’intensa fioritura di attività musicali legate alla tradizione.