Il figlio di Zeus: Alessandro e l'impero universale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alessandro punta ormai al cuore dell’Impero. Sconfitto ancora Dario III in battaglia, a Gaugamela, si impossessa delle capitali Babilonia, Susa, Persepoli. Ormai ambisce al titolo di re del nuovo organismo imperiale, ma per ottenerlo deve lanciarsi in una stupefacente corsa di conquista lungo i territori più interni e lontani, fino ai confini orientali dell’Indo. Rientrato infine a Babilonia, inizia a organizzare la struttura dell’immenso territorio conquistato, con un innovativo progetto di commistione etnica tra Macedoni e Persiani. Non fa in tempo: la morte lo coglie, all’improvviso, all’età di 33 anni.
Alla fine dell’inverno Alessandro riprende la marcia dall’Egitto, risalendo la Palestina e puntando verso la Mesopotamia. Guadato l’Eufrate a Tapsaco, si avvia alla nuova decisiva battaglia con Dario. Il Gran Re, nonostante il disastro di Isso, ha infatti ancora risorse per opporsi agli invasori e per reclutare dalle regioni dell’impero sotto il suo controllo un esercito ancor più numeroso del precedente – un milione di uomini secondo le fonti. Qualche dubbio deve tuttavia attraversarlo, alimentato dalla coscienza della debolezza profonda del suo regno, al di là della residua forza militare.
Prima che si giunga alla battaglia, Dario avrebbe proposto ad Alessandro di tenere le terre a occidente dell’Eufrate, che di fatto il macedone ha già occupato, e stringere un accordo di pace, sigillato dal matrimonio con una delle sue figlie. A Parmenione, che suggerisce di accettare la proposta, Alessandro avrebbe risposto: “Anche io accetterei, se fossi Parmenione. Ma sono Alessandro”. L’aneddoto, a prescindere dalla sua veridicità, mostra non solo l’insicurezza di Dario, ma anche una prima discordia sugli obiettivi della spedizione nello stato maggiore macedone. Parmenione, vecchio generale già al servizio di Filippo, ritiene evidentemente la conquista ampiamente soddisfacente e sembra riluttante a rischiare di rimettere tutto in discussione in uno scontro dall’esito incerto. Alessandro, invece, punta ormai alla conquista dell’impero. La vittoria completa sui Persiani è forse una sua ambizione, molto più di quanto lo sia per buona parte del suo entourage, che può trarre vantaggi enormi già dai territori conquistati senza dover affrontare nuovi pericoli.
L’intento di Alessandro naturalmente prevale: rifiutata l’offerta di pace, lo scontro si svolge presso il villaggio di Gaugamela (331 a.C.), vicino ad Arbela, sulle sponde del Tigri, in una ampia pianura, in pieno giorno, senza possibili alibi per i Persiani nel caso di sconfitta, secondo gli auspici del sovrano macedone (“io non rubo la vittoria”). La battaglia è durissima, con gravi difficoltà iniziali per i Greci, ma infine si risolve a loro favore, ancora una volta grazie all’apporto decisivo della cavalleria e del leale Parmenione che la comanda. Di nuovo, Dario III sfugge alla cattura, ma Alessandro ha inferto un colpo fatale al re persiano.
In tempi brevi sono prese le capitali dell’impero: Babilonia, che accoglie Alessandro trionfalmente, Susa, Persepoli, sede del palazzo di Dario, Pasargade, la città di Ciro il Grande, dove Alessandro onora la tomba del capostipite degli Achemenidi, in segno di continuità con la dinastia regnante e con l’intento di portare alla sua causa i nobili persiani. Se nelle altre città Alessandro mostra il consueto rispetto per i vinti, di ritorno a Persepoli, nella primavera del 330 a.C., ordina di bruciare il palazzo reale, giustificando il gesto come vendetta per il sacco ateniese ordinato da Serse – anche se alcune versioni dell’episodio parlano della meno probabile conseguenza, estemporanea e quasi casuale, di una grande bevuta collettiva del re con i suoi compagni. La motivazione addotta rappresenta l’ultima concessione al carattere panellenico dell’impresa: la vendetta contro il barbaro è ormai consumata. La guerra non termina qui: ma da ora in avanti Alessandro l’avrebbe combattuta non più come rivendicazione del mondo greco contro il nemico comune, ma come conquista di un potere personale.
Dario III è fuggito a Ecbatana con il seguito di dignitari e nobili persiani ancora a lui fedeli, tra i quali Satibarzane, satrapo dell’Aria, Barsaente, dell’Aracosia e Besso, della Battriana, oltre al chiliarca Nabarzane. Trascorso l’inverno in Persia, Alessandro muove contro il rivale. Le città imperiali appena conquistate hanno reso, a lui e alle sue truppe, tesori sconfinati: il problema delle risorse per la guerra è definitivamente alle spalle. Privo dei mezzi per affrontare un’ulteriore battaglia, Dario deve, invece, abbandonare anche Ecbatana, dirigendosi verso le regioni più interne, la Media e poi la Battriana.
Alessandro, giunto a Ecbatana, congeda gran parte dei soldati alleati, compresi i cavalieri tessali, con ricche elargizioni, lascia Parmenione a presidiare la città con un consistente numero di soldati, affida il tesoro al compagno Arpalo e si lancia sulle tracce del fuggitivo. Prima che l’esercito di Alessandro possa raggiungerlo, tuttavia, nel luglio del 330 a.C., Dario viene tradito e colpito a morte da Besso, che, potendo vantare legami di parentela con gli Achemenidi, si proclama suo successore con il nome di Artaserse. Con la morte di Dario Alessandro non ritiene chiusa la partita, al contrario sfrutta l’occasione per attuare un abile ribaltamento dei ruoli, presentandosi come il legittimo successore di Dario, chiamato a punire l’infedele Besso e a vendicare il Gran Re e l’intera dinastia regale. Si tratta di un nuovo salto di qualità: Alessandro si pone come autentico difensore delle ragioni degli Achemenidi, in modo che sembri quasi un suo obbligo naturale la conquista e la riunificazione dei territori imperiali violati dall’usurpatore.
Anche il mondo greco conosce il nuovo indirizzo del sovrano. Inviando una dedica di guerra al santuario di Atena a Lindo nel 330 a.C., Alessandro si definisce “vincitore di Dario e signore d’Asia”: il legame con la grecità, il congresso di Corinto e la Lega ellenica vengono oscurati a fronte della centralità del sovrano, ormai proiettato su uno scenario più vasto. I Greci si trovano così estromessi dalle campagne future e Alessandro dichiara di non muoversi più in loro nome. Del resto, piegata nel 331 a.C. l’ultima opposizione ai Macedoni, guidata da Sparta, con la sconfitta del re Agide III, battuto e ucciso a Megalopoli da Antipatro, ai Greci non resta che seguire i voleri di Alessandro. Il quale mostra una crescente attenzione per il mondo della nobiltà persiana che va via via schierandosi al suo fianco e il cui appoggio è decisivo per un accesso stabile al potere. Più Alessandro porta avanti la sua guerra, più il ruolo della Grecia è destinato a diventare marginale.
La resistenza dei Persiani ancora ostili al Macedone si concentra intorno a Besso e al suo territorio, la Battriana. Mentre Alessandro marcia contro di lui, il satrapo dell’Areia Satibarzane si ribella, costringendo il re macedone a tornare verso sud. Domata la rivolta, riprende il cammino, attraverso una strada impervia tra Drangiana e Aracosia; il satrapo di queste regioni, Barsaente, rifugiatosi al di là dell’Indo, è consegnato ad Alessandro dalle popolazioni locali e giustiziato come complice dell’assassinio di Dario.
Dopo aver svernato nel Paropamiso, Alessandro attraversa nella primavera del 329 a.C. l’Hindu Kush inseguendo l’usurpatore, che si è rifugiato a nord del fiume Oxo. Imprigionato da Spitamene, principe della Sogdiana, Besso è consegnato a Tolemeo, processato e messo a morte. Il re macedone è adesso senza rivali al titolo di nuovo Gran Re, successore di Dario, che ha adeguatamente vendicato. Resta da piegare la resistenza di alcune satrapie nord-orientali, che si rivoltano contro l’invasore e ne subiscono la dura reazione. La Battriana e la Sogdiana sono oggetto di una serrata campagna di conquista, gli Sciti, che provano a ribellarsi, subiscono un trattamento feroce, che li riconduce in breve ad atteggiamenti più pacifici. Alessandro giunge fino a Ciropoli, all’estremità nord delle terre dell’impero: poco oltre fonda Alessandria Eschate (“ultima”) sul fiume Issarte, città che segna il nuovo confine settentrionale. Anche Spitamene tenta una ribellione, che occuperà l’esercito per tutto il 328 a.C. e si concluderà infine, non senza pesanti perdite per l’esercito macedone, con la vittoria e la morte del ribelle.
Alessandro decide allora di stringere legami più stretti con la nobiltà locale, per sigillare la pacificazione dell’area. Prende così in sposa la bellissima Rossane, figlia di Ossiarte, un nobile battriano, e convince a seguire il suo esempio altri ufficiali macedoni, tra i quali l’amato amico Efestione. Seleziona inoltre 30 mila giovani persiani che fa educare al modo macedone per inserirli nei ranghi dell’esercito, a fianco degli elementi greco-macedoni quando non al loro posto. Un indirizzo che provoca la reazione di quanti, nella spedizione, rimangono attaccati alle proprie radici elleniche e concepiscono la conquista come affermazione della cultura greca nel regno orientale.
Gli anni dal 330 al 327 a.C. permettono dunque ad Alessandro di imporsi nei territori più complicati da sottomettere, dove centri di potere locale e ambizioni di esponenti della nobiltà creano non poche fatiche al sovrano. Ma sono anche gli anni nei quali si verificano con frequenza crescente forme di insofferenza, nel campo macedone, alla nuova forma di regalità che Alessandro va incarnando. L’identificazione sempre più forte con la sovranità orientale, i cui rituali entrano nella vita di corte a sostituire le modalità tradizionali della cultura politica greca, urta gravemente la sensibilità di una larga parte dell’entourage del macedone. Il primo caso si ha già nel 330 a.C., quando Filota, un potente hetairos del re, comandante del battaglione reale di cavalleria, nonché figlio di Parmenione, viene arrestato, torturato, condannato e ucciso, ufficialmente per non aver avvisato Alessandro di una congiura ai suoi danni, probabilmente per aver criticato l’introduzione di cerimoniali orientali a corte. Segue a breve l’uccisione a Ecbatana dello stesso Parmenione, di cui Alessandro teme la reazione. A Maracanda (Samarcanda), in Sogdiana, il re uccide nel 328 a.C. Clito il Nero, suo amico d’infanzia e generale valoroso, che durante una bevuta notturna ha osato esaltare il rispetto portato da Filippo II alle tradizioni monarchiche macedoni a fronte della fascinazione di Alessandro per i costumi orientali, contrapposizione che tocca un punto assai delicato per la personalità del giovane conquistatore e che ne scatena la furente e fatale reazione.
Nel 327 a.C., infine, dopo il matrimonio con Rossane, all’interno di una congiura dei valletti del re, chiamata perciò la “congiura dei paggi”, viene arrestato e poi giustiziato Callistene, il nipote di Aristotele e storico ufficiale della spedizione. Callistene, quando Alessandro cerca di imporre l’uso della prostrazione dinanzi al sovrano secondo la modalità persiana (la proskynesis), si rifiuta di sottoporsi al gesto, che indica un grado di sottomissione al sovrano intollerabile per un greco, ed esprime apertamente il suo dissenso. L’insofferenza di Alessandro verso ogni limitazione del suo potere personale, che lo porta a vedere sempre più spesso congiure e insubordinazioni da stroncare violentemente, non è solo un dato caratteriale, naturalmente. Si scontrano nello stato maggiore macedone due concezioni del regno e della regalità: i Macedoni sentono di perdere progressivamente potere e vedono il loro re allontanarsi, forse non comprendendone le intenzioni nel grandioso progetto di unificazione macedone-persiana, oppure, pur comprendendole, le rifiutano. Dall’altra parte, la strada verso l’assolutismo autocratico intrapresa da Alessandro ormai non tollera antagonisti.
I due anni successivi portano Alessandro e l’esercito verso l’India, ai confini orientali dell’impero. Un percorso che intende certamente consolidare le frontiere – e quella dell’Indo e dei suoi affluenti si presenta come la più naturale –, anche se alcune fonti suggeriscono che il re vi veda il punto di partenza per altre avventurose conquiste in terra indiana, intenzione difficile da dimostrare. In primo luogo, è necessario riorganizzare l’esercito: nonostante l’arrivo di contingenti di rinforzo tra il 329 e il 328 a.C., gli effettivi sono insufficienti.
Il sovrano recluta allora soldati dalle regioni appena conquistate: l’esercito diviene, per la prima volta, un vero coacervo di soldati di diversa provenienza, cultura, identità – in parte richiamando la norma dei contingenti imperiali persiani, in parte assecondando l’ambizione al multiculturalismo che ormai il re insegue. Attraversato l’Hindu Kush una seconda volta, Alessandro scende verso l’India dove stringe alleanza con il re Taxila nella guerra contro il vicino rivale Poro, vinto in una grande battaglia campale sulla riva nord dell’Idaspe. Anche Poro, sconfitto, diviene alleato di Alessandro, che organizza l’area in una serie di stati vassalli a protezione del confine. È proprio il re Poro a fornire nuovi contingenti e gli elefanti, inedito strumento bellico per i Macedoni, e a suggerire ad Alessandro di proseguire verso est, attraversando altri affluenti dell’Indo, l’Acesine e l’Idroati fino ad arrivare all’Ifasi. Sottomessa una serie di tribù incontrate sul territorio, il re decide di superare l’Ifasi e puntare verso il Gange, nonostante arrivino informazioni poco rassicuranti sulla difficoltà di marcia e sulle notevoli forze militari a disposizione del re Magada dei Nanda, che comanda le terre del Punjab.
La tradizione vuole che, a questo punto, Alessandro abbia abbandonato l’idea di continuare, spinto dal rifiuto a procedere oltre da parte dell’esercito, costretto a molti anni di scontri cruenti e marce faticosissime, decimato e stremato. Sulle rive dell’Ifasi, fa allora innalzare 12 enormi altari a sigillare i territori conquistati e fonda due città, Alessandria Nicea (della vittoria) e Bucefala, in onore del cavallo Bucefalo che lo ha servito fedelmente fin dall’adolescenza.
Inizia qui il viaggio di ritorno, dapprima navigando l’Idaspe fino alla confluenza con l’Oceano Indiano, poi attraverso un durissimo cammino nel deserto della Gedrosia; parallelamente il navarca Nearco guida una flotta costruita ad hoc lungo la costa fino al Golfo Persico e Cratero è mandato per un tragitto interno da Kandahar con una parte dell’esercito, fino al ricongiungimento in Carmania. Tra l’Acesine e l’Idaspe, respingendo l’attacco della bellicosa tribù indiana dei Malli, il re viene gravemente ferito.
Il contatto con il mondo indiano rivela ad Alessandro e al seguito greco-macedone una cultura nuova, che attrae la curiosità del sovrano. L’incontro con i gimnosofisti, i bramini e la loro cultura sapienziale ha grande eco nelle fonti sul sovrano, nonostante alcuni di loro abbiano guidato l’opposizione al conquistatore. I nuovi territori orientali sono anche l’occasione per esplorazioni, osservazioni, indagini e schiudono nuovi orizzonti alla cultura greca: in particolare la navigazione di Nearco e del suo secondo Onesicrito apporta nuove conoscenze geo-etnografiche e scoperte zoologiche e botaniche. Un mondo nuovo si è aperto agli invasori. In questo scorcio del 325 a.C. Alessandro mostra anche un volto particolarmente feroce e inflessibile nel punire i satrapi delle regioni orientali, molti dei quali vengono deposti, processati, uccisi, accusati di aver abusato in vario modo del loro potere. Una durezza che, attraverso l’affermazione perentoria dell’autorità del sovrano, deve probabilmente preparare il terreno alla riorganizzazione dell’immenso territorio conquistato, alla quale il re si appresta a mettere mano.
Nel 325 a.C. Alessandro rientra nelle città imperiali persiane: Susa, Ecbatana e infine Babilonia. Sono ormai questi i luoghi del potere del regno: Alessandro comprende che la sede del governo deve collocarsi al centro dell’impero. Un aneddoto riportato da Plutarco attribuisce il suggerimento di questo “modello di governo” all’indiano Calano, che muovendosi su una pelle di bue gli mostra come essa resti stabile solo se sormontata, appunto, al centro; ma vale forse già l’esempio dei re persiani, che hanno fissato la propria dimora nella Perside e in Mesia.
A Susa il sovrano dà il via al grandioso progetto di fusione interetnica, con una cerimonia fastosa che celebra le nozze del re con Statira (o Barsine), la figlia di Dario, di Efestione e di altri alti ufficiali macedoni con le figlie delle migliori famiglie iraniche, nonché di 10 mila soldati, cui è concessa una dote per prendere mogli persiane. Alcuni progressi nella strada dell’integrazione si sono compiuti per la necessità della spedizione: molti soldati si sono uniti a donne locali e i figli che ne sono nati sono censiti dal re perché ricevano un’educazione adeguata, in vista di un loro futuro utilizzo nei ranghi dell’esercito – e rimarranno in Persia anche quando i padri saranno rimpatriati con i contingenti macedoni dell’esercito. Adesso tuttavia Alessandro forza la mano verso una prima istituzionalizzazione della presenza persiana a fianco di quella macedone, iniziando dal piano privato con la formazione di famiglie “miste”, con l’ambizione di superare gli steccati delle identità nazionali – in particolare, di quella macedone. Le nozze di Susa sono seguite dall’immissione nei livelli più alti dell’esercito dei giovani della nobiltà persiana scelti pochi anni prima; i migliori sono destinati agli esclusivi battaglioni degli hypaspistai e soprattutto dei “compagni del Re”, la cavalleria che rappresenta il fiore all’occhiello dell’esercito, per la sua efficienza militare, ma anche per la selezionata presenza di elementi della migliore nobiltà macedone.
Così, quando Alessandro, a Opis, proclama di voler rimpatriare i veterani, tenendo con sé un piccolo gruppo di soldati macedoni, forse 15 mila, l’esercito vi scorge la volontà di sostituire i Persiani ai Macedoni via via allontanati, oppure, come suggerisce Curzio Rufo, comprende che ormai la sede del regno sarà fissata in Asia. Nonostante il re si sia impegnato a saldare i debiti dei soldati e ne abbia trattato il congedo con la massima generosità, l’esercito si ammutina. La reazione è durissima: i capi della sedizione sono fatti giustiziare, le richieste dei ribelli ignorate, l’intero contingente congedato. Alessandro rivendica di fronte ai suoi (ex?) compatrioti il debito che la Macedonia intera deve a lui e al padre Filippo – significativamente richiamato in una linea di continuità che il figlio non ha mai disconosciuto, almeno sul piano politico. Sia pure con qualche distorsione, il richiamo non è privo di una sua verità storica: Filippo ha dato alla Macedonia una organizzazione del potere stabile ed efficiente, con una classe dirigente degna di questo nome e finalmente compattata attorno al sovrano e ha saputo coinvolgere gli strati più umili della popolazione nell’esercito. Non ha rivoluzionato le forme della vita politica del regno, che mantiene alcune ambiguità che saranno ereditate da Alessandro, ma certo ha reso la macchina politica macedone più equilibrata e solida. L’ira del re vuole punire quella che ai suoi occhi appare un’intollerabile mancanza di riconoscenza. In tal modo tuttavia egli manca forse di cogliere la natura profonda e politica delle preoccupazioni espresse dai soldati: il problema del ruolo che avrebbero recitato i Macedoni nel nuovo regno rappresenta una delle questioni più spinose e di fatto rimarrà irrisolta.
La sola autorità del re, benché universalmente riconosciuta e solennemente ribadita in innumerevoli occasioni anche da quei soldati che ora si sono ribellati, non può bastare a rassicurarli sulle intenzioni future del sovrano.
L’ammutinamento rientra e la riconciliazione che ne segue viene celebrata da Alessandro all’insegna della riaffermazione della sua concezione di un regno multietnico, capace di accogliere Persiani e Macedoni in un unico consesso. Il grosso dell’esercito è rimandato in Europa sotto la guida di Cratero, incaricato di subentrare ad Antipatro quale “signore d’Europa”. Alessandro affida ai giovani soldati persiani (“i suoi amati persiani” come con dispetto li chiamavano i Macedoni) il compito di rappresentare la sua forza militare in Asia, creando contingenti paralleli a quelli macedoni: la fusione si stempera in parte in una giustapposizione. Si evita così una pericolosa contiguità tra i due elementi in un unico organismo, ma è certo una prima sconfitta all’idea di integrazione perseguita dal sovrano.
Non è solo la sistemazione dell’esercito, naturalmente, a occupare i pensieri di Alessandro, chiamato a dare una struttura al nuovo regno euroasiatico. In quella sistemazione, la Grecia è ormai ai margini, come mostra la decisione, annunciata dal macedone Nicanore ai giochi olimpici del 324 a.C., di imporre a tutte le città elleniche il rientro degli esuli.
Già le modalità di comunicazione denunciano il nuovo rapporto tra sovrano e mondo greco: una lettera letta da un emissario si sostituisce alle leggi delle diverse realtà greche, abituate a gestire ciascuna in modo autonomo i rapporti interni alla collettività politica. Se la richiesta di Alessandro può apparire una forma di pacificazione dei dissidi interni, essa a ben guardare si presenta come una imposizione che scavalca l’autonomia politica e giuridica delle varie città e può considerarsi, con qualche ragione, una drastica limitazione della libertà dei Greci di governarsi secondo le proprie leggi. Sul piano storico, il “decreto di Nicanore” inaugura una forma di rapporto tra città e sovrano che diventerà caratteristica nei secoli dell’ellenismo, quando le realtà municipali, formalmente riconosciute, si troveranno di fatto subordinate ai voleri di una monarchia sovranazionale.
Nella nuova realtà politica che si va delineando, la figura del sovrano gioca un ruolo decisivo. Quando, in quello stesso anno, a Ecbatana, muore Efestione, uno dei compagni più fedeli e più amati dal re, Alessandro pretende che gli siano resi onori divini. Ma anche per la sua persona il re ha ormai imposto forme di rispetto e adorazione riservate alla divinità, richiesta che, secondo Eliano, egli avrebbe formalizzato esplicitamente ai Greci in quello stesso 324 a.C. Al di là della credibilità della testimonianza di Eliano, nei fatti è ciò che accade, come si coglie nelle parole dell’ultimo baluardo di resistenza antimacedone ad Atene, Iperide, sdegnato nel riconoscere nella sua città un culto del sovrano; o nelle ultime ambascerie greche che lo incontrano a Babilonia, i cui messi portano le corone “come quando vanno a onorare qualche dio”. Si compie il percorso iniziato al santuario di Ammon in Egitto, ma già operante nelle voci che circondano di prodigi la nascita del figlio di Filippo e implicano una sua paternità divina. Forme di culto o onori di tipo divino assegnati a uomini politici, benché rare, non sono in assoluto un fatto inedito per il mondo greco, e in parte Filippo stesso ne è stato oggetto.
La differenza cruciale, per i Greci e i Macedoni, è nel destinare simili onori a un uomo ancora in vita e saldamente al potere, adottando una tipica consuetudine delle monarchie orientali. Alessandro ha accolto, delle forme regali iraniche ed egizie, l’elemento che ne costituisce un principio fondamentale e, alla fine della guerra di conquista, si aspetta di veder celebrata la sua condizione anche dai Greci, sudditi come gli altri e sottoposti alla sua sovranità. Il decreto di Nicanore e la divinizzazione del sovrano vanno in una stessa direzione: l’imposizione del potere assoluto e monocratico di Alessandro.
Non sarebbe tuttavia corretto parlare solo di imposizione. Se le poleis con maggior tradizione di autogoverno, quali Atene o Sparta, accettano con molte resistenze il culto del re, altre si precipitano a gratificarlo con feste e riti in suo nome, come Taso, che già prima del fatidico 324 a.C. ha istituito giochi chiamati Alexandreia, o le città dell’Asia Minore, che lo celebrano come eroe liberatore dal giogo persiano. Le nuove modalità di rapporto tra il sovrano e le poleis hanno già iniziato a fare breccia.
Nella primavera del 323 a.C. Alessandro rientra a Babilonia, destinata nei suoi auspici a divenire la vera capitale dell’impero. È un momento cruciale: il sovrano è chiamato a dar forma stabile alle sue conquiste. Le prime preoccupazioni sono quelle di consolidare ulteriormente i confini, forse progettando una nuova spedizione in Arabia e nel Golfo Persico.
Per quel che riguarda la struttura amministrativa del regno, Alessandro ha fin lì sostanzialmente mantenuto le satrapie stabilite da Dario I. Alcuni indizi suggeriscono l’intenzione del re di creare una rete più fitta di governatorati locali, limitandone l’estensione territoriale e in generale perseguendo un indebolimento del potere satrapico, sottoposto a un maggior controllo del re e affiancato da comandanti militari.
Non è possibile dire di più sul tipo di struttura di governo che il sovrano ha in mente, o su altri suoi progetti, come quello, tramandato da tradizioni assai dubbie, di una ventilata campagna d’Occidente, volta a rendere davvero universale le sue conquiste. Nella tarda primavera del 323 a.C., infatti, Alessandro è colpito da una violenta febbre che presto ne debilita in modo decisivo il fisico, certamente provato dai lunghi anni di guerra e dalle ferite riportate – 11 secondo la tradizione, l’ultima, molto seria, nel paese dei Malli.
Il giorno 30 del mese macedone di Daisio (corrispondente al 13 giugno), dopo 12 giorni di crescente sofferenza, il re muore, circondato dai suoi hetairoi, tra i quali si diffonde il sospetto di un avvelenamento, testimonianza di rivalità feroci nel gruppo dirigente macedone.
Il nuovo regno trionfalmente conquistato è privo di una reale architettura di governo, senza strutture stabili e manca inoltre di un successore credibile: il fratellastro di Alessandro, Filippo Arrideo, affetto da demenza dalla nascita, non è certo in condizioni di tenere il governo di un così ampio impero, e Rossane porta ancora in grembo il successore diretto del sovrano, che sarebbe nato di lì a qualche mese. Si apre un periodo carico di tensione nel determinare non solo la successione al trono, ma anche la sopravvivenza stessa del regno appena formato.