Il feudalesimo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Attorno al Mille l’indebolimento dei poteri pubblici permette la proliferazione di poteri locali, accompagnata da un’esplosione di disordine e violenza. In questo contesto la fedeltà vassallatica si diffonde ulteriormente e assume sempre più connotati militari. La sua estensione a vari livelli sociali e il suo uso da parte di sovrani e signori locali rendono necessaria una sua regolamentazione normativa. Proprio i testi dedicati al diritto feudale testimoniano come nel pieno e nel basso Medioevo il lessico feudale venga applicato spesso a realtà assai diverse da quelle altomedievali.
Gualberto di Bruges
Guglielmo di Normandia accoglie i vassalli del precedente conte di Fiandra
Così essi resero omaggio. In primo luogo il conte chiese [a ognuno di loro] se volesse diventare in tutto uomo suo e quello rispose: “Lo voglio”; inoltre con le mani giunte [del vassallo] strette nelle mani del conte, si allearono baciandosi. In secondo luogo colui che aveva reso omaggio al portavoce del conte gli giurò fedeltà con queste parole: “Garantisco sulla mia fede di essere fedele da ora in poi al conte Guglielmo e manterrò fedelmente e senza inganni il mio omaggio verso di lui contro qualsiasi [nemico]”. In terzo luogo giurò tutto sulle acque dei santi.
in F.-L. Ganshof, Che cos’è il feudalesimo?, Torino, Einaudi, 1989
Fulberto di Chartres
Obblighi del contratto vassallatico
Lettera del vescovo Fulberto al duca di Aquitania Guglielmo V
Colui che giura fedeltà al suo signore, deve sempre aver presenti alla memoria questi sei principi: incolumità, sicurezza, onore, utilità, facilità, possibilità. Incolumità, cioè non deve essere di danno al signore quanto al suo corpo. Sicurezza, perché non lo danneggi nel suo intimo e nelle misure da lui adottate tramite le quali può essere sicuro. Onore, perché non rechi detrimento alla sua giustizia o in altre cose che riguardano manifestamente il suo onore. Utilità, perché non danneggi le sue proprietà. Facilità e possibilità, perché non renda difficile la buona impresa che il suo signore poteva compiere facilmente; e non gli renda impossibile ciò che era possibile. È giusto che un fedele si guardi da questi danni; ma ciò non basta a meritargli l’accasamento; infatti non è sufficiente astenersi dal male, se non si fa ciò che è bene. Rimane dunque che nei sei principi sopraddetti [il vassallo] presti aiuto e consiglio fedelmente al suo signore, se vuole apparire degno del beneficio e se vuole essere in regola con la fedeltà che ha giurato. Il signore dal canto suo deve contraccambiare in tutto questo il suo fedele. Se non lo farà, sarà a buon diritto ritenuto malfido; mentre il vassallo, se sarà sorpreso a trasgredire quei doveri o con le opere o con il consenso, [sarà ritenuto] perfido e spergiuro.
in F.-L. Ganshof , Che cos’è il feudalesimo?, Torino, Einaudi, 1989
Negli anni Trenta del secolo XI a Milano scoppia un duro conflitto tra i vassalli maggiori (capitanei) del vescovo Ariberto da Intimiano – nei fatti il vero signore della città – e i vassalli minori, i cosiddetti valvassori o milites secundi, costituiti per lo più da cavalieri che con la loro fedeltà militare nei confronti dei vassalli maggiori erano riusciti a migliorare o consolidare la loro posizione sociale. Una vittoria dei vassalli vescovili rafforzerebbe il potere del vescovo sulla città, mettendo in ulteriore discussione la sovranità imperiale, già debole e intermittente non solo in Lombardia, ma in tutto il Regno italico. Per porre un freno a questo processo l’imperatore Corrado II decide di intervenire a fianco dei valvassori, difendendone diritti e prerogative. È in questo contesto che nel 1037 emette l’Edictum de beneficiis o Constitutio de feudis, col quale riconosce l’ereditarietà dei feudi dei milites secundi e regolamenta la confisca di feudi tratti da beni fiscali (“demanio” regio) o ecclesiastici, sottraendola all’arbitrio dei vassalli maggiori.
A lungo in passato si è discusso sull’effettiva messa in atto delle disposizioni previste dall’Edictum de beneficiis. Ma, al di là della sua eventuale applicazione nel breve o nel lungo termine, esso è importante soprattutto per vari aspetti che ci permettono di comprendere il ruolo assunto dal vassallaggio a partire dal secolo XI nelle dinamiche del potere e nell’organizzazione sociale.
L’editto testimonia in primo luogo il tentativo imperiale di assumere una funzione di coordinamento delle clientele militari che fanno capo a vescovi o a “ufficiali” regi e di riaffermare il ruolo di “supremo arbitro” dell’imperatore. In secondo luogo attesta la diffusione dei legami vassallatici anche tra i ceti eminenti dei nascenti Comuni; in terzo luogo ci fa comprendere come nei primi decenni del secolo XI si inizi a sentire la necessità di definire da un punto di vista normativo i rapporti tra signori e vassalli, uscendo da una lunga fase basata su consuetudini tramandate oralmente.
Nel corso del secolo X l’indebolimento dei poteri pubblici, iniziato già in età carolingia, aveva permesso l’affermazione e la proliferazione di poteri locali sorti per lo più illegittimamente a opera di signori che avevano esteso il loro controllo su persone e cose ben al di fuori delle loro proprietà, esercitando una giurisdizione illegittima dal punto di vista della sovranità regia (signoria territoriale).
L’affermazione di questi signori territoriali è accompagnata da un’esplosione di disordine e violenza e dà luogo a una sorta di “militarizzazione” della società, basata su varie forme di fedeltà e subordinazione personale. In questo contesto anche la fedeltà vassallatica assume sempre più connotati militari. Ciò vale in particolare per i vassalli di signori locali, laici o ecclesiastici, e per i loro seguiti, per i quali, non a caso, le fonti coeve usano come sinonimi termini quali vassus (vassallo) e miles (soldato, guerriero). Il “servizio militare” è richiesto non raramente anche ai vassalli regi, costituiti da esponenti delle famiglie eminenti. In questo caso, però, gli obblighi vassallatici si sovrappongono a quelli determinati dalle cariche esercitate su delega regia, spesso rese ereditarie e percepite come un bene proprio dagli “ufficiali” pubblici, oppure concesse in feudo per enfatizzare la subordinazione al re del loro detentore o per riconoscere poteri in realtà già detenuti da esponenti delle grandi dinastie.
La diffusione dei rapporti vassallatici tra i secoli X e XI e il loro uso da parte di sovrani e signori locali è stata posta in grande risalto da alcuni medievisti del secondo Novecento. A partire dagli studi pionieristici di Marc Bloch, François-Louis Ganshof e Georges Duby, alcuni studiosi hanno proposto di vedere nei decenni attorno al Mille una ridefinizione radicale delle forme della vita associata, causata dalla crisi dell’autorità regia, dal crollo della libertà contadina e dalla formazione dei poteri signorili (J.-P. Poly, É. Bournazel, Il mutamento feudale. Secoli X-XII, 1990).
In questo contesto il feudalesimo da semplice “insieme di istituzioni” sarebbe divenuto un “sistema politico”: vassallaggio e feudi sarebbero stati gli strumenti utilizzati a vari livelli per riorganizzare e definire la società dell’Occidente europeo. Ma questo “mutamento feudale” è effettivamente avvenuto in modo uniforme nei regni europei? Molti sono stati gli storici che hanno messo in dubbio il fatto che esso possa essere generalizzato per realtà politico-istituzionali assai diverse da quelle della Francia meridionale, l’ambito territoriale maggiormente studiato dai suoi sostenitori. Altre realtà regionali hanno attestato la presenza e l’importanza per tutto il Medioevo di sistemi politici non dominati dal feudalesimo e di forme di fedeltà non riconducibili al solo vassallaggio. Ciò che appare generalizzato è, soprattutto, il ricorso al lessico feudale per formalizzare i rapporti tra potere e società.
Accanto ai primi tentativi di regolamentare normativamente i legami vassallatici, nel corso del secolo XI si avvia anche una riflessione sul vassallaggio e sugli obblighi reciproci da esso determinato. Si pensi, per esempio, a una famosa lettera del vescovo Fulberto di Chartres al duca Guglielmo V d’Aquitania, nella quale si ricorda come un “fedele” debba innanzitutto non arrecare del male al suo signore e fargli del bene, prestandogli consiglio e aiuto (consilium et auxilium), mentre il signore ha l’obbligo di contraccambiare il suo fedele per i suoi servizi.
Grosso modo nei medesimi anni si formalizza anche il rito d’ingresso nel vassallaggio che sviluppa la cerimonia dell’accomandazione già attestata per l’età carolingia. Esso prevedeva in genere tre momenti: l’omaggio, durante il quale il vassallo poneva le proprie mani tra quelle del signore (immixtio manuum), secondo un antico gesto di subordinazione, e pronunciava una dichiarazione di volontà (volo), importante in quanto il vassallaggio si distingue da altre forme di subordinazione per essere sempre volontario; il giuramento di fedeltà prestato sulle sacre scritture o su reliquie; il bacio (osculum), per lo più sulla bocca o sulla spada del signore, che rafforza visivamente e simbolicamente il giuramento. Quasi sempre il rito d’ingresso nel vassallaggio era completato dalla consegna da parte del signore di una zolla o di un ramo/scettro che doveva simboleggiare il feudo assegnato.
Parole, gesti e riti che determinano i rapporti vassallatici dal secolo XI iniziano gradualmente a essere estesi ad altre forme di fedeltà, subordinazione o cessione di beni. Per esempio può capitare che dei vassalli in possesso di un certo “potere contrattuale” possano ottenere un feudo attraverso una registrazione scritta – non prevista dal “contratto vassallatico” – redatta secondo l’uso dei contratti agrari diffusi in determinate aree. Di pari passo si sviluppano forme di vassallaggio che non esigono un servizio militare, tanto che nel basso Medioevo, soprattutto in realtà cittadine si perde la stessa nozione di “servizio” collegata al vassallaggio, esteso a borghesi o a donne. Lo stesso feudo assume forme molto diverse, sino a designare concessioni di terre o persone che vengono svolte al di fuori di un rapporto vassallatico. La pluralità di significati assunti dai termini “vassallo” e “feudo” e l’esistenza di forme sempre più diversificate di “contratto vassallatico” sono testimoniate dai testi giuridici che dal XII secolo in poi iniziano a essere dedicati al “diritto feudale”. Si pensi, per esempio, al caso dei Libri feudorum redatti a partire dalla metà del XII secolo da giuristi milanesi o allo Sachsenspiegel (Specchio sassone), una raccolta del diritto consuetudinario sassone redatta tra il 1221 e il 1224 dal cavaliere Eike von Repgow.
In una sezione dello Specchio sassone è riportata una gerarchia di vassalli: “I gradi feudali – scrive Eike von Repgow – sono stati stabiliti allo stesso modo [delle sei età del mondo].
Il re è al primo grado; i vescovi, gli abati e le badesse al secondo; i principi laici al terzo; [...] i signori liberi al quarto; gli uomini che possono diventare scabini e i vassalli dei signori liberi al quinto; i loro vassalli al sesto” (R. Boutruche, Signoria e feudalesimo, II, Signoria rurale e feudo, 1974). Giuristi d’età moderna hanno interpretato erroneamente questa gerarchia come una sorta di “piramide”, stabilendo una connessione diretta tra il re e i vassalli dei vari livelli. In realtà lo Specchio sassone testimonia la presenza, anche nel pieno Medioevo, di vassalli dal profilo sociale diverso, per i quali stabilisce le clientele vassallatiche accessibili. Esso, dunque, non descrive una “piramide feudale”, ma una “gerarchia sociale”. Come in età altomedievale, infatti, anche dopo il Mille il contratto vassallatico riguarda sempre e solo i due contraenti, non comporta ulteriori gerarchie e può essere rotto solo in caso di inadempienza del vassallo o del signore. Nel corso dei secoli centrali del Medioevo diviene, però, sempre più frequente l’uso di giurare fedeltà vassallatica a più signori, fermo restando che uno di essi aveva preminenza su tutti gli altri. Questo signore principale è definito per lo più come “signore ligio” (dominus ligius), titolo che alcuni re cercano di riservare a se stessi. È questo, per esempio, il caso del re d’Inghilterra Enrico I il quale, per mantenere il controllo sui “grandi del regno”, stabilisce che ogni impegno vassallatico deve prevedere la precedenza della fedeltà al re. Anche in questo caso, però, il giuramento vassallatico non determina obblighi per i “retrovassalli” (vassalli dei vassalli), secondo un principio ben espresso da un giurista del Trecento nella formula: “Se qualcuno ti domanda se l’uomo [il vassallo] del mio uomo è mio uomo, rispondi no” (F.-L. Ganshof, Che cos’è il feudalesimo? , 1989).
Pur appartenendo a epoche e contesti storici molto diversi, i casi dell’ Edictum de beneficiis, delle disposizioni di Enrico I e dello Specchio sassone testimoniano l’uso consapevole dello strumento feudale fatto dai sovrani dei principali regni europei. Appoggiando ora i signori territoriali, laici o ecclesiastici, ora i vassalli di questi ultimi e, soprattutto, rivendicando al re il compito di supremo arbitro in materia feudale, essi riescono spesso a depotenziare la minaccia che i legami feudali potevano costituire per il potere regio e a trasformarli in una forma di controllo della pace sociale. Data la struttura reticolare dei rapporti vassallatici, le “monarchie feudali”, però, non sono mai quelle strutture politiche piramidali e monolitiche ipotizzate (o vagheggiate) dagli studiosi del diritto feudale del XVII secolo. D’altra parte, il feudalesimo lasciato in eredità dal tardo Medioevo all’età moderna è uno strumento giuridico che poco o nulla ha in comune con i legami vassallatico-beneficiari altomedievali. Come attesta il suo stesso nome, elaborato non a caso in età moderna, esso si riferisce ormai soprattutto ai diritti relativi ai feudi, intesi non tanto come lo “stipendio” del vassallo, quanto come “giurisdizioni” e diritti legati alla proprietà.