Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il movimento fascista nasce a Milano nel marzo del 1919 per iniziativa di Benito Mussolini e diventa una forza politicamente rilevante tra il 1921 e il 1922, grazie all’offensiva antisocialista sferrata dalle “squadre d’azione” nelle campagne padane. Conquistato il governo nell’ottobre 1922 in seguito alla minaccia di “marciare” su Roma, Mussolini procede alla trasformazione dello Stato liberale in un regime dittatoriale e tendenzialmente totalitario. Nel 1943 il regime crolla sotto il peso delle disastrose sconfitte militari maturate nel corso della seconda guerra mondiale a fianco dell’alleato tedesco.
Alle origini del fascismo
Il 23 marzo del 1919, in piazza San Sepolcro a Milano, Benito Mussolini (1883-1945) fonda i Fasci di Combattimento. La nuova formazione politica è, persino nel nome, una diretta continuazione della mobilitazione interventista del tempo di guerra, rinfocolata – a guerra conclusa – dall’immotivata convinzione che l’Italia sia stata defraudata con il trattato di Versailles dei frutti della vittoria. Il mito della “vittoria mutilata”, alimentato dall’infiammata oratoria del poeta-soldato Gabriele d’Annunzio (1863-1938), diffuso negli ambienti intellettuali e accreditato dagli stessi dirigenti liberali, aveva mandato in fibrillazione l’ala militante dell’ex interventismo: al momento della loro costituzione, i Fasci di Mussolini non appaiono altro se non una delle tante piccole aggregazioni nate in seno alle forze del radicalismo nazionale. Di queste ultime, i “fasci” riflettono anche la trasversalità ideologica: all’aggressivo nazionalismo si uniscono elementi appartenenti al repertorio ideologico della sinistra, quali il repubblicanesimo e l’anticapitalismo, che si esprime nel vagheggiamento di una qualche forma di socialismo nazionale. Del resto, tra i “sansepolcristi” non è solo Mussolini ad avere alle spalle una storia di militanza negli ambienti del sovversivismo: folto, soprattutto, è il gruppo dei sindacalisti rivoluzionari, rappresentati tra gli altri da Agostino Lanzillo (1886-1952), Paolo Orano (1919-1945), Angelo Oliviero Olivetti (1874-1931).
Presentatisi alle elezioni politiche del novembre 1919, i fascisti riportano un risultato disatroso, con nessun candidato eletto. Il movimento comincia ad acquisire forza solo nell’autunno dell’anno successivo quando, operata una netta svolta a destra (ma si trattava di una destra nuova, che nulla aveva a che vedere con la vecchia destra liberale), esso si propone come un efficace baluardo antisocialista e come il principale agente di quella riscossa borghese e “nazionale” i cui propositi erano maturati durante il “biennio rosso”. L’intensa mobilitazione operaia e bracciantile che, tra il 1919 e il 1920, aveva portato all’occupazione delle fabbriche, all’occupazione dei latifondi del Mezzogiorno e a un drammatico inasprimento del confronto tra braccianti e agrari nella zona padana aveva reso assai minaccioso lo sbandierato proposito socialista di “fare come in Russia”. In realtà, nell’ottobre 1920 il fermento rivoluzionario è già in fase di riflusso; ma la “grande paura” degli industriali e dei proprietari terrieri sopravvive alle circostanze che l’hanno generata e, soprattutto, sono molto determinati nei loro propositi di rivincita gli agrari del Nord, piegati dagli scioperi e dagli inflessibili boicottaggi organizzati dalle leghe bracciantili ad accettare un ridimensionamento del loro atavico prepotere. Così, quando i giovani fascisti, organizzati in “squadre” paramilitari, prendono a effettuare le loro “spedizioni punitive” nelle campagne padane, al fine di “liberarle” dalla “tirannide rossa”, gli agrari incoraggiano e finanziano l’iniziativa, rivelando così quanto nel fascismo agrario ci sia di rabbiosa révanche classista. Tuttavia, un’interpretazione univoca del fascismo quale guardia bianca della borghesia sarebbe senz’altro riduttiva. La rapida trasformazione del fascismo agrario in un movimento di massa, composto non solo dai piccoli proprietari, affittuari, coloni che avevano subito i boicottaggi e le multe imposte dalle leghe socialiste, ma anche, in qualche caso, dagli ex aderenti alle leghe stesse (una conversione, questa, che il terrorismo non basta a spiegare) rivela la capacità del fascismo di darsi una dimensione popolare, di rivendicare la propria autonomia rispetto ai “signori della terra”, di proporsi non solo come antagonista, ma anche come successore del socialismo nell’organizzazione delle masse.
Tutto questo, il carattere eversivo del movimento fascista, la sua capacità di mobilitazione, il suo antagonismo rispetto alla vecchia destra dei notabili, sfugge alla classe dirigente liberale: lo stesso Giolitti (a capo del governo tra il giugno del 1920 e il giugno del 1921), che pure aveva mostrato in altre occasioni notevoli doti di lungimiranza politica, si limita ad applicare nei confronti dei fascisti quel principio di “non intervento” che aveva sempre regolato la sua condotta di fronte ai conflitti sociali: fiducioso che anche questa volta il fiume sarebbe tornato nel suo alveo, magari dopo aver provvidenzialmente fiaccato la spinta sovversiva dei “rossi”. Gli eventi, in realtà, seguiranno un corso molto diverso.
Mussolini al governo dell’Italia: la fine dello Stato liberale
Inconsistente nel 1919, tre anni dopo il fascismo si impadronisce del governo, minacciando di “marciare” con le sue squadre su Roma. Ad assicurare l’imprevedibile trionfo non è dunque la via elettorale (inseriti in liste di orientamento liberal-conservatore in occasione delle elezioni del 1921, i fascisti erano riusciti a far eleggere alla Camera 31 loro rappresentanti), bensì la pratica quotidiana della violenza, che nessuno sa o vuole arginare: non i socialisti, a cui è sconosciuto l’uso della violenza organizzata; non i comunisti, allora troppo chiusi nel loro settarismo per immaginare una collaborazione con le forze liberal-democratiche; non i liberali, cui il sovversivismo rosso fa ancora troppa paura; non, infine, il re, che il 28 ottobre 1922, di fronte alla minaccia fascista di “marciare” su Roma, si rifiuta di firmare il decreto di stato d’assedio. È così che il “duce” del fascismo Benito Mussolini ottiene la nomina di capo del governo: simulando un colpo di Stato, e infliggendo una ferita letale alla legalità costituzionale, violata dall’attribuzione della presidenza del Consiglio al leader di una forza politica assolutamente minoritaria, su pressione della piazza e per decisione unilaterale del sovrano. L’ampio e compatto voto di fiducia ricevuto dal governo Mussolini alla Camera non può modificare – e non modifica – il carattere geneticamente eversivo di quel governo; rivela soltanto l’attitudine abdicativa della classe dirigente liberale. I successi elettorali dei socialisti e dei popolari nelle prime elezioni del dopoguerra (1919) hanno infatti creato una grave situazione d’impasse, mettendo a nudo la debolezza e l’isolamento politico di questa classe dirigente. La soluzione extra-costituzionale imposta da Mussolini appare comunque una soluzione; a ristabilire la legalità costituzionale, ci si sarebbe pensato in seguito.
Invece, il destino dello Stato liberale è segnato. Nel 1923, con l’approvazione di una nuova legge elettorale secondo la quale al partito che avesse riscosso il 25 percento dei voti sarebbero andati i due terzi dei seggi, si consuma il suicidio della vecchia classe dirigente. Le elezioni dell’anno successivo, svoltesi tra brogli e violenze, assicurano la vittoria al Partito Nazionale Fascista (PNF) che diviene così, di fatto, padrone della Camera. L’ultima occasione per sbarrare la strada al nascente regime si ha in seguito al delitto Matteotti. Il deputato socialista Giacomo Matteotti (1885-1924) aveva denunciato alla Camera i brogli e le violenze che, in occasione delle ultime elezioni, avevano falsato l’espressione del voto popolare; dieci giorni dopo, viene sequestrato e ucciso da una squadra fascista. Allo scandalo dell’opinione pubblica si unisce l’azione finalmente concorde delle opposizioni, che abbandonano l’aula parlamentare riunendosi separatamente e promuovendo la secessione detta dell’“Aventino”. A questo punto, però, l’ondata antifascista stenta a trovare sbocco: scartata la proposta dei comunisti di mobilitare le piazze, rimane solo la possibilità di un intervento del re. Ma Vittorio Emanuele III, ancora una volta, preferisce mostrarsi “cieco e sordo” di fronte alle responsabilità fasciste, e non si muove. Misurata l’inanità dell’opposizione antifascista, Mussolini passa al contrattacco: rivendica di fronte alla Camera la responabilità “politica, morale, storica” del delitto, e nel giro di un anno liquida quanto rimaneva dello Stato liberale. Le “leggi fascistissime” del 1925-1926 mettono fuori legge le opposizioni, aboliscono la libertà di stampa e la libertà sindacale, rafforzano le prerogative del capo del governo, sopprimono il sistema elettivo nelle amministrazioni locali. Due anni dopo, la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo, organo supremo del Partito Fascista, sancisce la fusione tra Stato e partito, e una nuova legge elettorale trasforma le elezioni in plebisciti. Sbaragliate le opposizioni, compiuta la trasformazione dello Stato liberale in un regime monopartitico e dittatoriale, Mussolini procede a emarginare l’ala intransigente del fascismo: la violenza squadristica non serve più, il PNF, ormai fuso con lo Stato, deve trasformarsi in una forza disciplinata e obbediente.
Accanto alla fascistizzazione dello Stato, Mussolini mira all’obiettivo di una fascistizzazione – più vasta e capillare possibile – della società. Attraverso le organizzazioni giovanili, il dopo-lavoro, l’inquadramento politico delle associazioni professionali, l’utilizzo a fini propagandistici dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (la radio, il cinema), il fascismo intende penetrare nella vita quotidiana, trasformare il privato in pubblico, irregimentare comportamenti e pensieri. In realtà questa “tendenzialità totalitaria”, pur presente e operativa, non si attualizza mai completamente: il regime fascista appare in realtà un “totalitarismo imperfetto” (Sabbatucci), limitato sul piano istituzionale dal residuo potere della monarchia e sul piano culturale e sociale dal radicamento della Chiesa cattolica. A quest’ultimo proposito, il pieno riconoscimento della libertà e dell’autorità della Chiesa sancito dai Patti lateranensi (1929) è di fatto incompatibile con le pretese totalitarie del regime, a cui la Chiesa contende in primo luogo l’educazione dei giovani.
In politica estera, la revisione dei trattati di Versailles viene rivendicata fin dall’inizio, ma per tutti gli anni Venti Mussolini segue una linea moderata, mantenendo buoni rapporti con la Francia e con l’Inghilterra. La rottura con le potenze democratiche avverrà in seguito all’intervento italiano in Africa per la conquista dell’Etiopia (1935), e alle relative sanzioni economiche comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni. Da quel momento, l’avvicinamento alla Germaniahitleriana è irreversibile: l’aiuto fornito ai falangisti durante la guerra civile spagnola rinsalda nei due Paesi il senso della condivisione di un “comune destino”; l’“asse Roma-Berlino” nel 1936, l’adesione dell’Italia al patto anti-Comintern nel 1937, il Patto d’acciaio nel 1939 sono tutti passi ulteriori sulla via dell’allineamento italiano all’esasperata aggressività della politica hitleriana. Ancor prima di portare alla catastrofe militare, questo allineamento ha un tragico riflesso sulla politica interna: con le “leggi razziali” del 1938 inizia anche in Italia la persecuzione contro gli ebrei, che vengono esclusi dall’insegnamento, dagli uffici e dalle scuole pubbliche, e a cui sono vietati i matrimoni con i non ebrei.
L’Italia nella seconda guerra mondiale: la disfatta fascista
La partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale, dichiarata il 10 giugno 1940, si risolve in una serie ininterrotta di sconfitte: male armato e peggio equipaggiato, l’esercito italiano perde ovunque, finché, il 10 luglio 1943, è lo stesso territorio nazionale a essere invaso, con i soldati anglo-americani che sbarcano in Sicilia. È, per la già compromessa stabilità del regime, il colpo finale. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio, i gerarchi riuniti nel Gran Consiglio del fascismo votano a maggioranza un ordine del giorno di sfiducia a Mussolini, firmato da Dino Grandi (1895-1984). Il re, che aveva attivamente partecipato alla “congiura” antimussoliniana, fa arrestare il duce del fascismo e nomina capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio (1871-1956). Il ventennio fascista si conclude così, sotto il peso di una disastrosa sconfitta bellica, tra il sollievo e l’euforia di una popolazione esasperata dalla dittatura e dalla guerra, senza che nessuna delle organizzazioni del partito – né il partito stesso – mostri alcuna volontà di resistenza.
È l’ala radicale del fascismo a combattere una disperata battaglia di retroguardia, riunendosi sotto le insegne della neocostituita Repubblica di Salò, ancora agli ordini di un redivivo Mussolini (arrestato dal re, Mussolini era stato liberato dai Tedeschi nel settembre del 1943). In realtà, però, la Repubblica Sociale Italiana non ha alcuna possibilità di sopravvivenza. Il richiamo alle istanze “movimentiste” delle origini, l’esasperazione dei miti fondativi del fascismo, l’insistenza sulla sua caratterizzazione popolare e antiborghese mirano al recupero di una supposta “purezza” originaria, poi inquinata dal “compromesso moderato” malauguratamente stretto dal regime con il re, i potentati economici, gli apparati di Stato; ma l’obiettivo di fornire al fascismo di Salò una qualche forma di consenso di popolo viene completamente mancato. La nazificazione del fascismo aumenta anzi il suo isolamento e, nell’aprile del 1945, le popolazioni a esso ancora sottomesse accolgono l’arrivo dei partigiani e delle truppe anglo-americane come l’attesa liberazione da un’insopportabile tirannide.