Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il fascino delle rovine esercita per tutto il Settecento un’attrazione irresistibile, alimentata da viaggi, scoperte archeologiche, opere di pittori e incisori che divulgano in Europa la conoscenza dei monumenti antichi. La nuova passione ha come centro di irradiazione Roma, dove un mercato dell’arte fortemente condizionato dalla moda del Grand Tour polarizza l’attenzione sui resti della città antica, visti non più come elementi del paesaggio urbano ma come soggetti autonomi ad alto potenziale evocativo.
I precedenti
Nel Settecento l’idea di Roma, città eterna custode del passato e della tradizione classica, deve molta della sua fortuna all’immagine fissata da Giambattista Piranesi nelle sue incisioni: una città popolata di rovine assediate dalle costruzioni moderne, isolate nella solitudine della campagna, non ancora dissepolte e affioranti dal sottosuolo come giganti imprigionati.
Nei secoli precedenti erano stati soprattutto gli artisti stranieri a registrare la presenza delle rovine e a coglierne non solo il valore topografico, ma anche la poesia silenziosa e melanconica. A partire dalla metà del Cinquecento tutta una schiera di artisti nordici, soprattutto olandesi e fiamminghi, aveva ritratto la città da ogni punto di vista con particolare attenzione alle rovine, descritte con precisione documentaria o ricreate nella quiete pastorale della campagna romana.
Nel Seicento i grandi maestri francesi, Nicolas Poussin, Claude Lorrain e Gaspard Dughet, avevano esplorato il paesaggio romano e, aggirandosi tra il verde dei giardini e i resti della città antica, avevano tratto ispirazione per la solenne armonia dei loro paesaggi storici. Paesaggi “archeologici e di memoria”, costruiti su misura per i personaggi della storia e del mito, dove anche i monumenti e la natura si subordinano a una concezione superiore di profondo equilibrio.
Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento è ancora un artista straniero, l’olandese Gaspard van Wittel, a spostarsi da un luogo all’altro di Roma per inquadrare entro il grand’angolo delle sue vedute gli scorci più suggestivi della città. Erede della tradizione borghese dell’Olanda del Seicento, van Wittel è attratto soprattutto dalla Roma moderna e dall’animazione festosa della vita quotidiana che si svolge all’ombra dei monumenti: sensibile all’atmosfera particolare dei luoghi, ci consegna l’immagine di una città più familiare e umana, dove i contrasti e le contraddizioni si saldano entro il flusso continuo della vita.
L’immagine di Roma tra pittoresco e sublime
Nei primi decenni del Settecento le richieste provenienti da un mercato dell’arte fortemente condizionato dalla moda del Grand Tour polarizza l’attenzione degli artisti sul tema delle rovine, non più viste come elementi del paesaggio urbano, ma come soggetti autonomi ad alto potenziale evocativo e decorativo. Nasce la Roma dei “rovinisti”, ricreata a uso e consumo di una clientela straniera, soprattutto inglese, desiderosa di riportare in patria le vedute dei luoghi e dei monumenti celebri.
Per questi viaggiatori lavora tutta una schiera di pittori e incisori che al gusto per la prospettiva unisce uno spirito compositivo meno fedele, più incline al capriccio e alla fantasia architettonica. Maestro di questo nuovo genere è Giovanni Paolo Panini (o Pannini), professore di prospettiva all’Accademia di Francia a Roma, abile vedutista e brillante decoratore.
Nella sua vasta produzione di tele e disegni, l’artista accosta liberamente entro scenografiche prospettive i monumenti antichi più disparati, dando vita ad arrangiamenti pittoreschi e sorprendenti. Roma diviene una miniera inesauribile di assemblaggi inediti: il Colosseo, l’arco di Costantino, la piramide di Caio Cestio, le colonne dei Dioscuri e la torre delle Milizie si profilano tra costruzioni di fantasia e ruderi anonimi che offrono ombra e riparo a macchiette svagate e oziose. La solenne poesia delle rovine si trasforma nella quiete amabile di scenari fittizi dove l’accumulo degli elementi provoca un effetto da museo.
L’abilità prospettica e la facile vena del Panini trovano ammiratori e imitatori soprattutto tra i giovani architetti dell’Accademia di Francia, incoraggiati dal loro stesso direttore Charles Natoire a esercitarsi nella pratica del paesaggio e nella rappresentazione dei monumenti antichi, veri o immaginari. Tra questi allievi si distingue per le notevoli qualità di disegnatore Charles-Louis Clérisseau che, fin dai suoi primi anni romani, coltiva un interesse per le rovine che va oltre la pratica accademica del disegno architettonico e si apre alla ricerca archeologica.
Determinante si rivela per lui, come per gli altri allievi dell’Accademia, l’incontro con Giambattista Piranesi che dal 1748 si era installato con la sua bottega d’incisore sulla via del Corso, proprio di fronte alla sede dell’Accademia di Francia: l’artista ha già dato prova della sua abilità di incisore e della sua rapinosa fantasia nelle allucinate invenzioni dei Capricci (1744) e negli spazi vertiginosi delle Carceri (1745). Ma è solo a partire dal 1750 che l’interesse per la Roma antica si precisa e diviene studio appassionato delle rovine, in coincidenza con la progettazione e la realizzazione dei quattro volumi delle Antichità romane pubblicate nel 1756.
Uniti dalla stessa passione, Piranesi e Clérisseau compiono frequenti escursioni, avventurandosi tra le rovine per effettuare rilievi e disegni. Insieme esplorano i resti delle terme di Diocleziano, dei bagni di Tito e della Villa Adriana a Tivoli, aprendosi varchi come pionieri tra i cumuli di terra e la folta vegetazione.
L’indagine sul campo, la conoscenza dei luoghi e lo studio ravvicinato dei monumenti inaugura una nuova metodologia d’indagine, più sistematica e rigorosa, che apre in direzione della moderna archeologia e rivela al contempo la magnificenza dell’architettura antica, l’imponenza delle sue costruzioni, la solidità delle sue strutture e dei suoi materiali. Affiora prepotente quel sentimento di ammirazione e di stupore che conferirà alla Roma di Piranesi una dimensione nuova, fantastica e abnorme.
Consacrandosi alla rappresentazione delle rovine, Piranesi si impegna infatti nella progressiva messa a punto di un metodo capace di restituirne l’antico splendore e di evocarne la passata grandezza: inquadrati dal basso, da un punto di vista molto ravvicinato, i monumenti si ergono su un orizzonte bassissimo e mostrano sempre lo scorcio più sorprendente. Eliminato lo scenario, l’immagine si condensa sulle masse e sui volumi che acquistano una straordinaria evidenza, mentre l’isolamento accentua l’effetto di sproporzione dei monumenti, ridisegnati in scala gigantesca.
La presenza umana ne è sovrastata e diviene insignificante: le minuscole figure di accattoni e perdigiorno, che si agitano sotto le volte oscure delle camere sepolcrali tra le sporgenze dei bastioni e delle muraglie nei recessi d’ombra dei templi e dei mausolei, servono a dare la scala e a introdurre una parvenza di vita nella vasta solitudine dei luoghi. Solo la natura domina incontrastata nel perpetuo rigenerarsi di una vegetazione selvaggia e parassita che penetra tra le spaccature delle pietre ricoperte da macabre muffe.
Nelle successive esplorazioni nei dintorni di Roma, Piranesi scopre poi gli antichi acquedotti e le opere idrauliche che si addentrano nelle profondità del sottosuolo tra gallerie, grotte e cavità artificiali; nasce la poesia cupa e spettrale delle tavole dedicate all’Emissario del lago Albano (1762) e alle Antichità di Albano e Castelgandolfo (1764) che confermano l’eccezionalità del suo impegno di archeologo, ma anche la sua capacità di trasfigurazione lirica e fantastica.
L’abilità raggiunta nell’uso dell’acquaforte gli consente di intensificare le gamme dei neri e di potenziare in senso drammatico il contrasto delle luci e delle ombre.
La circolazione delle stampe di Piranesi diffonde in tutta Europa l’immagine di una Roma grandiosa e solenne, città di rovine viste come “proiezione figurativa del Sublime dove il piacere estetico è reso più intenso da una bellezza insidiata da presagi di morte” (Ottani Cavina). Negli stessi anni tuttavia la città continua a offrire spunti per invenzioni pittoresche, dove il tema della rovina si unisce a quello del paesaggio e della scena di genere. La maniera virtuosa e brillante del Panini rivive nelle vedute del francese Hubert Robert, meno rigoroso nella prospettiva ma più felice nel tocco e più ricco di effetti; anche nella scelta dei motivi la sua arte si rivela più accattivante per l’attenzione rivolta alla poesia del quotidiano, alle umili occupazioni di una umanità indaffarata e anonima.
Nel 1758 Robert incontra Jean-Honoré Fragonard, pensionnaire all’Accademia di Francia dal 1756, e stringe con lui un rapporto di amicizia e di collaborazione; per mesi disegnano fianco a fianco, sotto il sole della campagna o all’ombra dei parchi e dei giardini, scoprendo l’esuberanza pittoresca del paesaggio romano.
Nel 1760 trascorrono un’intera estate, ospiti dell’abate di Saint-Non, tra il verde della villa d’Este a Tivoli; nei loro splendidi disegni, eseguiti nei toni caldi e accesi della sanguigna, la magia di una natura organica e vitalistica prende il sopravvento: il profilo dei ruderi, assediati da una vegetazione spontanea e rigogliosa, si sfuoca nel vibrare continuo dell’aria e della luce, confondendosi con le fronde dei lecci e dei cipressi secolari.
La magia della luce penetra anche nelle vedute e nelle fantasie architettoniche di Charles-Louis Clérisseau, che riprende da Piranesi l’impaginazione ravvicinata e diagonale dei monumenti, senza tuttavia rinunciare alla suggestione degli scenari, alla cura del dettaglio, alle annotazioni pittoresche tipiche del capriccio. Le sue invenzioni sono ricercatissime dai collezionisti inglesi, per i quali l’artista lavora quasi in esclusiva; tuttavia nel 1780 Clérisseau vende tutte le sue cartelle di disegni (millecentosettanta fogli!) all’imperatrice Caterina II di Russia che appaga così la sua “anticomania”, assicurando alle collezioni dell’Ermitage un corpus grafico eccezionale, frutto di anni di viaggi e di studi.
Le campagne di scavo, i viaggi, i reportage e i libri illustrati
Alla metà del secolo una nuova tensione critico-emotiva dilata gli orizzonti della ricerca archeologica: la scoperta di Ercolano e Pompei, gli studi di Johann Joachim Winckelmann e la rinascita del mito della Grecia, la nuova ideologia dell’antico come paradiso perduto e ritrovato generano una febbre di conoscenza che sposta l’attenzione verso la Grecia e le città sepolte dell’Asia Minore: si promuovono campagne di scavo, si organizzano spedizioni di studio e si pianificano ambiziosi progetti editoriali. La rappresentazione delle rovine si trasforma, allora, adeguandosi alle esigenze documentarie dei reportage di viaggio e dell’illustrazione scientifica.
Nasce in questi anni una nuova figura di artista, le dessinateur en voyage, che al seguito di architetti, eruditi e dilettanti disegna sul posto freneticamente, nell’ansia di riportare in patria la documentazione più ampia e fedele. I disegni, tradotti in incisione, costituiscono l’apparato illustrativo di pubblicazioni che diffondono in Europa la conoscenza dell’architettura classica. Tra le prime iniziative editoriali si segnalano Le rovine di Palmira (1753) e Le rovine di Balbec (1757), pubblicate a Londra da Robert Wood dopo una spedizione in Siria promossa dalla Società dei Dilettanti fondata nel 1733.
Per iniziativa della stessa associazione James Stuart e Nicolas Revett esplorano i siti archeologici dell’antica Grecia e, dopo cinque anni di studi e rilevamenti, iniziano la pubblicazione delle Antichità di Atene (1761-1816) che fanno seguito al volume di Jean-David Le Roy I più bei monumenti della Grecia, pubblicato a Parigi nel 1758. L’intento di queste pubblicazioni è rigorosamente scientifico e documentario, teso a fornire informazioni sulle misure degli edifici e sui rapporti di proporzione tra le varie parti: le piante, gli alzati e i dettagli architettonici degli edifici sono disegnati con rigore geometrico e precisione analitica, ma nelle vedute d’insieme, animate da esotiche presenze, affiora irresistibile il gusto del pittoresco che, sull’onda dei ricordi, ricrea per il lettore l’atmosfera mitica di quei luoghi lontani.
Nell’ambito dell’editoria archeologica rimane esemplare il modello proposto dalle Rovine dell’Imperatore Diocleziano a Spalato in Dalmazia, lo splendido volume pubblicato a Londra nel 1764 dall’architetto inglese Robert Adam. Amico di Piranesi e convinto sostenitore delle sue tesi sulla superiorità dell’architettura romana, Adam riporta l’attenzione degli studiosi sull’antico palazzo di Diocleziano, grandioso esempio di abitazione privata romana. Tra i dessinateurs en voyage che compongono la sua équipe figura anche Clérisseau, al quale si debbono le vedute d’insieme, inquadrate da punti di vista multipli, animate dalla vegetazione e dalla presenza di personaggi che vestono i tipici costumi della regione dalmata.
La scoperta dell’Italia del Sud
Fino alla metà del secolo, Roma rappresenta per i viaggiatori l’ultima tappa nell’itinerario del Grand Tour. C’è stata la scoperta di Ercolano e di Pompei, ma la diffidenza della corte borbonica rende inaccessibili i luoghi di scavo, sconsigliando i grand tourists dall’intraprendere il viaggio verso Napoli. A rompere l’isolamento contribuisce in maniera decisiva la rivisitazione dei templi di Paestum, dimenticati per secoli benché fossero da sempre visibili al centro di una zona paludosa, a poca distanza dal mare. Dopo la serie di vedute dipinte da Antonio Joli per il re di Napoli (1759), nel 1764 escono a Parigi le tavole degli architetti Soufflot e Dumont (Suite de plans... des trois temples antiques dans la bourgade de Paestum) che raggiungono un più vasto pubblico, subito sedotto dalla grandiosità di quelle rovine. Nel 1777, un anno prima della morte, Piranesi compie un estremo viaggio a Paestum: lo stupore di quella rivelazione è documentato dalle tavole delle Vedute di Paestum (1778), incise sulla scorta dei disegni eseguiti sul posto: l’impaginazione scenografica, la scelta degli scorci, l’intensità dei contrasti chiaroscurali e la quiete del paesaggio agreste circostante enfatizzano la possente e arcaica semplicità dei templi, inaugurando con l’esaltazione dell’ordine dorico una nuova stagione dell’architettura europea.
Attraverso i varchi aperti dall’archeologia, negli ultimi decenni del Settecento Napoli diviene una tappa obbligata per i viaggiatori che convengono da tutta Europa, avamposto per più avventurose spedizioni alla riscoperta delle antiche città della Magna Grecia e della Sicilia. Nei resoconti di viaggio si afferma precocemente un’immagine del Meridione che verrà codificata nel corso nell’Ottocento: alle testimonianze del passato si aggiungono infatti l’attrattiva del paesaggio mediterraneo, la curiosità per i fenomeni naturali (grotte e vulcani), l’interesse per i costumi e il folklore locale. Tutti questi aspetti sono ampiamente illustrati nel Viaggio pittoresco o descrizione dei Reami di Napoli e di Sicilia (1781-1786) dell’abate di Saint-Non, un’opera monumentale in quattro volumi, corredata da uno splendido apparato iconografico, frutto della collaborazione di pittori e disegnatori tra cui Fragonard, Robert, Cochin, Vernet, Volaire.
Nella descrizione delle rovine appare comune ai vari artisti la volontà di ottenere una raffigurazione realistica, più attenta ai valori paesistici e atmosferici che alla precisione e all’esattezza dei rilievi.
All’impresa aveva partecipato come coordinatore anche Dominique-Vivant Denon, grande antiquario e collezionista, per molti anni consigliere all’ambasciata francese a Napoli. Dopo aver visitato le terre nell’Italia del Sud, cedendo alla sua passione archeologica, nel 1798 entra a far parte dell’équipe di studiosi che accompagnano Napoleone nella campagna d’Egitto. Spingendosi fin nelle zone più interne, Denon realizza uno straordinario reportage, Viaggio nel Basso e nell’Alto Egitto (1802), affiancando a una documentazione rigorosa la suggestione di vasti panorami, dove le rovine sepolte dalla sabbia e dal tempo suscitano una nostalgia, già romantica, di terre lontane.
La malinconica meditazione tra le rovine
L’attrazione irresistibile che il tema delle rovine esercita sulla sensibilità settecentesca è intimamente legata alla poesia struggente delle cose perdute. I ruderi, contemplati per se stessi, suscitano il ricordo di civiltà remote e inducono a meditare sulla fragilità delle sorti umane, su un destino ineluttabile di morte: “Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose. Tutto si annienta, tutto perisce, tutto passa. Soltanto il mondo resta. Soltanto il tempo dura [...]. Una corrente irresistibile trascina le nazioni le une sulle altre in fondo ad un abisso comune; io solo pretendo arrestarmi sul ciglio e fendere il flusso che scorre intorno a me!” (Denis Diderot). L’estetica della rovina si associa a un’idea di decadimento e a una meditazione sul destino fatale del genere umano.
Nell’interpretazione visionaria di Piranesi questa concezione pessimistica tocca il vertice più alto: nella loro grandiosità le rovine sembrano opporre un’ostinata resistenza all’azione devastatrice del tempo, ma il dilagare della vegetazione tra le crepe degli edifici lascia presagire una fine imminente che riconsegnerà anche quei luoghi al dominio incontrastato della natura.
L’intreccio simbolico che si istituisce tra vegetazione e rovina diviene un topos ricorrente che visualizza il contrasto tra l’opera dell’uomo, destinata all’abbandono e all’oblio, e l’opera della natura, eterna nel perpetuo rinnovarsi del suo ciclo vitale. Caricandosi di messaggi semantici, le rovine diventano dunque il luogo ideale per meditare: sulle pareti della cella del padre Thomas Le Sueur, nel convento di Trinità dei Monti, Clérisseau ricostruisce l’interno di un tempio classico in rovina (1760 ca.), valendosi di tutti gli artifici della quadratura e della tecnica del trompe l’oeil. Il décor archeologico che investe la decorazione e l’arredo (realizzato con reperti di scavo) cela, dietro la simbologia pagana, un complesso programma iconografico che invita a meditare sulla concezione cristiana della morte.
Anche nei giardini all’inglese, tra le architetture che guidano il viaggio sentimentale del visitatore lungo i sentieri del parco, non manca mai la rovina, vera o falsa: essa assume talvolta l’aspetto di un castello o di un’abbazia medievale, ma nella vasta solitudine della natura la devastazione dei monumenti comunica sempre la stessa struggente malinconia.
Alla fine del secolo la grafica fulminea di Giovan Battista Dell’Era ci consegna l’immagine poetica di un giovane aristocratico che, al termine del suo Grand Tour, sosta in silenziosa meditazione accanto alla piramide di Caio Cestio. Filtrata da una sensibilità preromantica, l’immagine condensa tutti i motivi legati alla scoperta delle rovine e alla loro fortuna visiva: l’incontro cercato e tanto atteso con i monumenti, l’impotenza di fronte alle testimonianze di un passato irrecuperabile, il presagio dell’oblio, l’insinuarsi di un sentimento doloroso e l’abbandono alla malinconia.