Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il teatro pastorale trae origine nel Cinquecento dalla fusione tra la tradizione laica delle rappresentazioni medievali di ispirazione bucolica e la tradizione religiosa dei drammi legati alla liturgia natalizia. I letterati di formazione umanistica individuano un terzo modello del genere pastorale nel dramma satiresco greco. Strutturandosi in forme tragicomiche, il dramma pastorale si avvia sul finire del secolo a dissolvere dall’interno il sistema dei generi.
La nascita del dramma pastorale
Intorno alla metà del Cinquecento, il sistema dei generi teatrali è ormai chiaramente strutturato secondo una scansione ternaria: la tragedia, caratterizzata nella sua forma regolare da uno stile sublime, dallo status aristocratico dei suoi personaggi e dall’inesorabile precipitare dell’azione verso una catastrofe purificatrice; la commedia identificabile per il suo stile dimesso, per i suoi personaggi di umile condizione e per il lieto fine che conclude i suoi intrecci; e una terza forma espressiva che, per l’ambientazione campestre e per la presenza nelle sue fabulae di personaggi in veste di pastori, viene comunemente definita dramma o favola pastorale.
Questo nuovo genere, codificato soltanto nel Cinquecento, è in realtà la sintesi scenica di una secolare tradizione di poesia idillica e di sperimentazioni drammaturgiche di carattere bucolico.
Archeologia del genere pastorale
Per legittimare il dramma pastorale dotandolo di una precisa genealogia classica, i teorici del XVI secolo individuano l’archetipo del teatro “bucolico” nel dramma satiresco greco. Il volgarizzamento del Ciclope di Euripide di Alessandro Pazzi de’Medici (1525) è un primo sintomo di quella rinascita di interesse da parte degli umanisti verso il satirikón che culmina nella Lettera ovvero Discorso sovra il comporre le satire atte alla scena di Giambattista Giraldi Cinzio (1554): nella parodica conclusione delle trilogie tragiche il Cinzio scopre infatti l’origine dei drammi incentrati sul “maneggio di pastorale amore”.
Estranei all’universo poetico della tragedia greca, gli autori medioevali avevano trovato in Virgilio l’ispirazione per componimenti di argomento campestre che, con il trascorrere del tempo, cessano di essere semplicemente “letti” ad alta voce e cominciano a essere teatralmente rappresentati. Sviluppando in chiave allegorica le eleganti disquisizioni delle egloghe virgiliane, il Medioevo crea il genere del contrasto o débat, versione drammatizzata di dispute ideologiche.
Ormai alle soglie del XVI secolo l’ambientazione pastorale diviene la cornice ideale per le eclettiche sintesi teatrali delle favole mitologiche ispirate a Ovidio. Fondendo tragedia e commedia, intenti encomiastici e orgogliosa celebrazione della cultura umanistica, Angelo Poliziano inaugura il genere con la sua Favola d’Orfeo composta a Mantova nel 1480. Il testo, non diviso in atti, è di estrema irregolarità formale: metri vari – dall’ottava alla terzina all’ode saffica in latino – si alternano in un dramma classicheggiante dalla struttura affine a quella delle sacre rappresentazioni. Anche i registri espressivi sono estremamente diversificati nell’Orfeo: al nobile parlare del protagonista è contrapposto il linguaggio “rusticano” dei pastori.
Nel 1487, sull’onda del successo del dramma di Poliziano, Niccolò da Correggio presenta a Ferrara la Fabula di Cefalo: il modello del dramma mitologico-pastorale si può dire ormai definito.
Al canone bucolico classicheggiante, il teatro medievale affianca una tradizione alternativa di drammi “pastorali” nata all’ombra dell’altare. La liturgia natalizia è infatti all’origine di rappresentazioni sacre pastorali che tendono rapidamente a emanciparsi dalla sfera cultuale per scendere nelle piazze. Più in generale la metafora Cristo-Agnello di Dio è poi alla base dell’ambientazione pastorale di molte rappresentazioni allegoriche di ispirazione religiosa. Il teatro pastorale cristiano si differenzia da quello classicheggiante soprattutto per la caratterizzazione realistica dei suoi personaggi. I rozzi pastori dei drammi sacri aprono la strada alla stilizzazione “rusticale” cinquecentesca.
Il dramma pastorale come dissoluzione del sistema dei generi
L’estrema varietà di forme in cui si declina la preistoria del teatro di ambientazione campestre spiega l’instabilità morfologica della struttura del dramma pastorale sulla scena cinquecentesca. Un ampio elenco di generi e sottogeneri è raccolto nel XVI secolo sotto la generica rubrica “teatro pastorale”, dalla commedia rusticale alla favola boschereccia, dal mariazo popolare all’auto sacramental, e alla pluralità di forme corrisponde una pluralità di significati. La scena pastorale del primo Cinquecento è inoltre disponibile ad accogliere drammi di ispirazione religiosa. In piena età controriformistica il trionfo della drammaturgia bucolica decreta il fallimento del progetto rinascimentale di collaborazione tra potere e letterati.
La favola boschereccia offre agli aristocratici del secondo Cinquecento l’occasione per la fuga, sotto mentite spoglie pastorali, da una corte sempre più minacciosamente avvertita come luogo dell’intrigo e dell’insidia. Deposta la speranza di educare il principe con il sublime e terrificante specchio della tragedia, i drammaturghi, rifugiandosi tra “fiori e linfe”, mascherano nel rimpianto per una mitica età dell’oro ben più sottili inquietudini interiori. Sul finire del secolo lusingando l’occhio dello spettatore desideroso di divertimento, le meraviglie scenotecniche delle rappresentazioni pastorali annunciano l’imminente trionfo della spettacolarità del barocco.
La natura camaleontica del dramma pastorale si riflette nella difficoltà di fissare lo statuto di questo genere utilizzando il tradizionale codice drammaturgico ispirato alla classica opposizione tragedia-commedia.
Se da un lato il critico aristotelico Giasone De Nores nel 1586 si scaglia contro gli abusi stilistici del dramma pastorale con le sue contaminazioni di forme tragiche e comiche, dall’altro il letterato ferrarese Gian Battista Guarini replica invocando il principio classico della verosimiglianza per giustificare la fusione pastorale di “negozi gravi” e “casi piacevoli”. Concepito come moderno “terzo genere” il dramma pastorale, divenuto “tragicommedia”, finisce con il negare la distinzione tra le varie forme drammaturgiche.
I canoni nazionali
La corte, dapprima alla ricerca di spettacolari attestazioni del proprio prestigio artistico e della propria forza politica, e poi desiderosa di sottrarsi alle dolorose contraddizioni del presente e alle minacciose incertezze del futuro, è la maggiore committente di drammi pastorali di ispirazione classico-mitologica. Il pubblico di massa, poco sensibile all’incanto malinconico degli idilli boscherecci, è disposto ad assistere a spettacoli pastorali laddove essi si articolino in forme “romanzesche”. La Chiesa a sua volta mantiene viva la tradizione delle drammaturgia pastorale sacra. La contrapposizione tra i pastori “aristocratici” del canone bucolico e quelli “umili” del canone cristiano si presta a essere rielaborata in forme diverse a seconda degli orientamenti ideologici della committenza.
La drammaturgia pastorale europea presenta dunque nel Cinquecento caratteri diversificati a seconda dell’equilibrio dinamico raggiunto nell’ambito delle varie civiltà teatrali nazionali dalle diverse componenti della committenza.
La scena “satirica” italiana
La variegata produzione drammaturgica di ambientazione campestre del primo Cinquecento italiano permette di redigere un inventario sufficientemente dettagliato, anche se non esaustivo, dei registri espressivi e degli orientamenti ideologici della favola pastorale.
Composta nel 1506 la Tirsi di Baldassare Castiglione si pone come naturale prosecuzione delle favole mitologiche di Poliziano e di Niccolò da Correggio.
Nella raffinata cornice della corte urbinate, le ninfe e i pastori protagonisti del dramma di Castiglione non fanno che cantare con grazia tutta cortigiana le lodi della duchessa Elisabetta. Il fine encomiastico è evidente anche nell’egloga latina dell’umanista Pietro Corsi Corydon et Mopsus, recitata a Roma in occasione della festa dell’Assunta del 1509 alla presenza del pontefice. L’elogio al pater omnipotens belliGiulio II è anzi amplificato da Corsi fino ad azzerare lo sviluppo drammatico: l’intreccio amoroso-pastorale è ridotto a puro pretesto letterario per celebrare la grandezza di Giuliano Della Rovere. Lo stesso “allestimento” contribuisce a svalutare la componente "teatrale" dell’egloga: l’opera è recitata dai nipoti del pontefice in Santa Maria Maggiore senza particolari apporti scenografici. Più prossime ai modelli della poesia di Virgilio sono le egloghe drammatiche composte nel regno di Napoli al principio del secolo. A Napoli, città in cui Jacopo Sannazaro aveva codificato con l’Arcadia (1486) il genere del romanzo bucolico, viene rappresentata intorno al 1525 la Cecaria di Antonio Epicuro; presso il palazzo dei conti Orsini a Nola vengono invece messi in scena tra il 1526 e il 1527 I due pellegrini di Luigi Tansillo. In queste opere l’azione tende a essere rimossa non dal prevalere delle finalità encomiastiche quanto piuttosto dal sostituirsi dell’effusione lirica allo sviluppo narrativo.
A fronte delle varianti encomiastiche ed elegiache della favola bucolica, tra il Veneto e la Toscana si viene invece profilando nella prima metà del Cinquecento l’antitradizione rusticale del dramma pastorale stilisticamente orientata in senso comico-realistico. La favola pastorale in lingua villanesca del Cavassico (1513), la satira dell’egloga drammatica di Strascino e soprattutto la Pastoral di Ruzante (1518), con la sua contrapposizione tra i pastori innamorati d’ascendenza virgiliana e il contadino affamato che scambia il dio Pan per il pane, non sono altro che la degradazione parodica della tersa e rarefatta purezza della drammaturgia pastorale "alta".
Il 24 febbraio del 1545 debutta a Ferrara, presso il palazzo di Don Francesco d’Este, l’Egle del Giraldi Cinzio. Egle è la concreta esemplificazione di quelle “satire” destinate alla scena, “imitazione di azione perfetta di dicevole grandezza, composta al giocoso e al grave con parlar soave”, che il Giraldi Cinzio contemporaneamente teorizza nel suo Discorso sulle satire atte alla scena pubblicato sempre nel 1545.
Nel 1554 viene allestito alla corte estense di Ferrara il Sacrifizio di Agostino Beccari con accompagnamento musicale di Alfonso Della Viola. Scandito in cinque atti e steso – probabilmente per influsso del verso tragico – in endecasillabi sciolti anziché nei più consueti metri della terzina e dell’ottava, il Sacrifizio è il primo dramma pastorale “ortodosso” composto in Italia.
Il 31 luglio del 1573 la rappresentazione dell’Aminta di Torquato Tasso nell’isoletta di Belvedere sul Po presso Ferrara, suggella il trionfo della drammaturgia pastorale. La “favola boschereccia” tassiana è l’occasione per un’importante chiarificazione delle possibilità formali e delle implicazioni ideologiche del genere pastorale. La sofisticata ricerca metrica di Tasso fa del dramma di ispirazione bucolica la culla del teatro per musica secentesco. Sospeso tra passato e futuro, l’intreccio patetico-erotico dell’Aminta, col suo gioco di occasioni perpetuamente mancate, si converte in una riflessione sulla corte e sul rapporto tra individuo e potere. Il sogno edenico di Aminta, costruito sull’etica del “s’ei piace ei lice”, non è che l’estremo tentativo di esorcizzare l’incubo ormai alle porte di Torrismondo (1587).
Torquato Tasso
Amore in abito pastorale
Aminta, Parte I, prologo
AMORE:
Chi crederìa che sotto umane forme
e sotto queste pastorali spoglie
fosse nascosto un dio? non mica un dio
selvaggio, o de la plebe de gli dèi,
ma tra’ grandi e celesti il più potente,
che fa spesso cader di mano a Marte
la sanguinosa spada, ed a Nettuno
scotitor de la terra il gran tridente,
ed i folgori eterni al sommo Giove.
In questo aspetto, certo, e in questi panni
non riconoscerà sì di leggiero
Venere madre me suo figlio Amore.
Io da lei son constretto di fuggire
e celarmi da lei, perch’ella vuole
ch’io di me stesso e de le mie saette
faccia a suo senno; e, qual femina, e quale
vana ed ambizïosa, mi rispinge
pur tra le corti e tra corone e scettri,
e quivi vuol che impieghi ogni mia prova,
e solo al volgo de’ ministri miei;
miei minori fratelli, ella consente
l’albergar tra le selve ed oprar l’armi
ne’ rozzi petti. Io, che non son fanciullo,
se ben ho volto fanciullesco ed atti,
voglio dispor di me come a me piace;
ch’a me fu, non a lei, concessa in sorte
la face onnipotente, e l’arco d’oro.
Però spesso celandomi, e fuggendo
l’imperio no, che in me non ha, ma i preghi,
ch’han forza porti da importuna madre,
ricovero ne’ boschi, e ne le case
de le genti minute; ella mi segue,
dar promettendo, a chi m’insegna a lei,
o dolci baci, o cosa altra più cara:
quasi io di dare in cambio non sia buono,
a chi mi tace, o mi nasconde a lei,
o dolci baci, o cosa altra più cara.
Questo io so certo almen: che i baci miei
saran sempre più cari a le fanciulle,
se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo;
onde sovente ella mi cerca in vano,
ché rivelarmi altri non vuole, e tace.
Ma per istarne anco più occulto, ond’ella
ritrovar non mi possa ai contrasegni,
deposto ho l’ali, la faretra e l’arco.
Non però disarmato io qui ne vengo,
ché questa, che par verga, è la mia face
(così l’ho trasformata), e tutta spira
d’invisibili fiamme; e questo dardo,
se bene egli non ha la punta d’oro,
è di tempre divine, e imprime amore
dovunque fiede. Io voglio oggi con questo
far cupa e immedicabile ferita
nel duro sen de la più cruda ninfa
che mai seguisse il coro di Dïana.
Né la piaga di Silvia fia minore
(che questo è ’l nome de l’alpestre ninfa)
che fosse quella che pur feci io stesso
nel molle sen d’Aminta, or son molt’anni,
quando lei tenerella ei tenerello
seguiva ne le caccie e ne i diporti.
E, perché il colpo mio più in lei s’interni,
aspetterò che la pietà mollisca
quel duro gelo che d’intorno al core
l’ha ristretto il rigor de l’onestate
e del virginal fasto; ed in quel punto
ch’ei fia più molle, lancerogli il dardo.
E, per far sì bell’opra a mio grand’agio,
io ne vo a mescolarmi infra la turba
de’ pastori festanti e coronati,
che già qui s’è invïata, ove a diporto
si sta ne’ dì solenni, esser fingendo
uno di loro schiera: e in questo luogo,
in questo luogo a punto io farò il colpo,
che veder non potrallo occhio mortale.
Queste selve oggi ragionar d’Amore
s’udranno in nuova guisa: e ben parrassi
che la mia deità sia qui presente
in se medesma, e no ne’ suoi ministri.
Spirerò nobil sensi a’ rozzi petti,
raddolcirò de le lor lingue il suono;
perché, ovunque i’ mi sia, io sono Amore,
ne’ pastori non men che ne gli eroi,
e la disagguaglianza de’ soggetti
come a me piace agguaglio; e questa è pure
suprema gloria e gran miracol mio:
render simili a le più dotte cetre
le rustiche sampogne; e, se mia madre,
che si sdegna vedermi errar fra’ boschi,
ciò non conosce, è cieca ella, e non io,
cui cieco a torto il cieco volgo appella.
in Il teatro italiano II. Teatro del Cinquecento: La tragedia, a cura di M. Ariani, Torino, Einaudi, 1977
Ma è Gian Battista Guarini a dare un nuovo decisivo contributo alla storia del dramma pastorale con Il pastor fido. Composta prima del 1583, la pastorale di Guarini è pubblicata solo nel 1590 al termine di un lungo lavoro di revisione. Con la sua favola “tripla”, i suoi quattro cori e i suoi 19 personaggi Il pastor fido non è che una trascrizione pantografata dello spartito drammaturgico di Aminta. Il successo editoriale del dramma è immediato: prima della fine del secolo si contano 15 ristampe dell’opera.
La pubblicazione del Pastor fido riaccende la polemica sul dramma pastorale avviata da De Nores sin dal 1586; Faustino Summo è autore di un esplicito attacco al dramma di Guarini che non vale però ad arginare la fortuna dell’opera. Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento si assiste in Italia a un vertiginoso incremento della produzione di drammi di ambiente pastorale.
Mentre Guarini si accinge a codificare il dramma pastorale nel suo Compendio della poesia tragicomica (1602), a Firenze debutta nel 1597 La favola di Dafne di Ottavio Rinuccini, musicata da Jacopo Peri e Jacopo Corsi. Dopo una lunga tradizione di madrigali polifonici di ambiente boschereccio la Dafne è il primo testo pastorale a struttura drammatica a essere destinato a un’esecuzione totalmente cantata in stile monodico: il trionfo del teatro per musica secentesco è ormai imminente.
I due volti del dramma pastorale iberico
A cavallo tra Quattro e Cinquecento il primo autore iberico a cimentarsi nel genere pastorale è Juan del Encina; dalla tradizione religiosa dell’Officium Pastorum medioevale derivano le sue tre egloghe della natività.
Nonostante siano destinate a un pubblico aristocratico – le Églogas di Juan del Encina vengono rappresentate ad Alba de Tormes nel palazzo del duca d’Alba Ferdinando de Toledo – questi testi colpiscono per la vivace caratterizzazione realistica dei personaggi. Il teatro di Encina si discosta rapidamente dalla tradizione religiosa: dopo due egloghe del Carnevale (1494) la laicizzazione si è ormai definitivamente consumata nell’Aucto del Repelón (1507), rappresentazione degli scherzi crudeli degli studenti dell’università di Salamanca ai danni dei contadini recatisi al mercato della città. Le egloghe composte da Encina durante il soggiorno romano presso la corte pontificia, l’Égloga de tres pastores (1509 più nota come Égloga de Fileno, Zambardo y Cardonio), l’Égloga de Christino y Febea (1506-1509) e l’Égloga de Plácida y Victoriano (1513), profondamente influenzata dal platonismo di certa cultura italiana primo cinquecentesca, documentano il progressivo avvicinamento del drammaturgo spagnolo ai modi del teatro pastorale classicheggiante.
Anche l’esordio teatrale di Gil Vicente avrebbe avuto carattere pastorale, se si presta fede alla tradizione secondo la quale il primo componimento drammaturgico dello scrittore portoghese sarebbe stato il Monologo del vaccaro, improvvisato per la regina Maria, moglie di Manoel I, la notte tra il 7 e l’8 giugno 1502, in occasione della nascita dell’erede al trono del Portogallo Giovanni III. Come nel caso delle prime opere di Encina, anche i testi pastorali di Vicente Auto Pastoril Castelhano (1502); Auto Pastoril português, (1523) presentano stretti rapporti con la tradizione religiosa e sono animati da personaggi dai tratti fortemente realistici. Pur rimanendo nell’ambito del gusto “rusticale” tipico del dramma sacro natalizio, anche Vicente si emancipa dal teatro religioso: del tutto “secolare” è l’Auto Pastoril da Serra de Estrêla (1527), il miglior dramma pastorale dell’autore.
Le egloghe di Encina fanno scuola tra i drammaturghi spagnoli del primo Cinquecento. La tradizione pastorale religiosa è proseguita dagli autori di autos sacramentales, rappresentazioni drammatiche in un atto in versi incentrate su un’interpretazione allegorica del tema dell’Eucarestia. Juan de Timoneda, uno dei più antichi autori di autos sacramentales di cui si conosca il nome, pubblica a Valencia nel 1575 i due volumi del Ternario Sacramental nei quali compare La pecorella smarrita, caratteristico esempio della fusione di ispirazione religiosa e inclinazione a una drammaturgia di tono lirico-popolaresco nel segno del dramma pastorale.
Juan de Timoneda
Il Custode ingannato dall’Appetito, in suo soccorso San Michele
La pecorella smarrita
Scena I - Incomincia la rappresentazione, ed entra in scena il CUSTODE con una pecorella, cantando:
Pasci a tuo piacere
la mia pecorella
oh la più bella
pasci a tuo piacere
in questo pascolo;
bada, non brucare
cosa vietata
cosa disusata
né brutta né bella
la mia pecorella.
A quanto penso, assai si compiacerà di udirmi la mia pecorella, se col mio canto la incito a brucare. Svelta è, questa, per correre e saltare; certo, l’altra era alquanto più mansueta; questa non mi par fatta per starsene fuori dalle macchie. Oh, ma giuro che non mi piace, come fa! Non si pasce come soleva, è irrequieta, non c’è erba che l’accontenti; che cosa sarà che la solletica e la spinge insofferente di qua e di là? O sente il lupo, o la volpe, o qualche erba gustosa la stuzzica che le promette maggior piacere.
Scena II - Il CUSTODE - L’APPETITO.
(Appare guardingo l’APPETITO, e cerca con un pezzo di pane di tirarsi dietro la pecorella).
APPETITO: Qua, qua, la mia bella! O dove vai? Ascoltami, perduta! Torna dunque vicino a me! Già vorresti andartene? Non indietreggiare oltre, vieni, fai di me il tuo rifugio.
CUSTODE: Ah, la pecorella vuoi distogliere dal mio pascolo, tu, figlio di mala femmina, ladro? Da un po’ me lo sospettavo. Giuro a me che se ti acchiappo ti aggiusto io, signor ladrone! Lascia stare quella pecorella, non sta a te prenderne cura, ché appartiene a Cristoforo Pasquale, il figlio del Gran Pastore che abita su nei cieli.
APPETITO: Mi infastidisci, Custode, con le tue storie. Ben sai che son mandriano del potente Nabuzardano, gran pastore dei caproni; ed egli mi ha ordinato che, come è nella mia natura, custodisca ogni gregge, od ogni pecora, come sarebbe questa, che per questi prati pascolasse.
CUSTODE: Cristoforo l’ha comprata, e a me ha comandato di custodirla e di farla pascere. Non ti venga in mente di rubargliela, ché assai cara l’ha pagata.
APPETITO: Smettiamola con le chiacchiere, oh Custode, e parliamoci chiaro, pane al pane e vino al vino, e sappi che a questa pecorella mi lega un grande amor carnale. E pure non ignori che fino al giorno in cui a te fu affidata, io questa pecorella ebbi a guardia, e sempre l’ho guidata bene quanto te, anzi meglio assai.
CUSTODE: Come potresti provarlo?
APPETITO: Il giorno che essa nacque, chi le insegnò a trovare le mammelle da succhiare? Chi dunque? Io! Chi le insegnò, poiché aveva fame, a brucare l’erba su pei colli e giù nelle valli, e che dal lupo doveva fuggire, e non dai cani?
CUSTODE: Non ti faccio colpa, mandriano, che a qualche bene tu l’abbia guidata. Ma ora, per renderla al tuo ovile, male, giù per sentieri vietati, tu l’avvìi.
APPETITO: Non vorrai uguagliarti a me, Custode, nel saper custodire il bestiame. Il tuo gregge nelle sassaie, o tra spine e rovi, sempre riduci. Non ti accorgi della buon’erba tenerella, né ti preoccupa l’inverno, né a febbraio indossi, come vuole il proverbio, sette mantelli e il cappello. Non hai mai avuto ricovero o pascolo in solatío, ma tra scoscendimenti e rupi, dove il gregge si scavezzacolla e ruzzola lasciando la lana attaccata agli spigoli. Io, invece, il mio gregge in pianura, nelle vaste praterie, conduco, e neanche in estate esso languisce, perché conosco i pascoli freschi tra la verzura.
CUSTODE: Cristoforo, che è pastor provetto, a noi ha ordinato di non far pascere il suo gregge in pascolo vietato, perché la pecora fin da piccola allevata nel vizio, poi anche quando è sazia si stranisce se al vizio tu la togli, e intristisce se al facile pascolo non la riconduci, e, sia pregna o abbia figliato, un po’ di vento l’atterra. Diversamente il tuo signore Nabuzardano ti ha ordinato di dare ogni vizio al suo gregge, poiché dopo il piacere dargli affanno egli intende.
APPETITO: La pecorella ben sa chi di noi meglio a suo piacere la tratti. Noi, chi mai ci corre dietro? Lasciamo ad essa che scelga. Volga dunque la pecorella i passi verso chi di noi le accomodi.
CUSTODE: Quando la pecorella mi affidò, ben so che Cristoforo non me la diede legata, anzi libera la lasciò. Ad essa quindi sta l’andar dietro a chi voglia; ma io in tempo voglio avvertirla affinché essa scelga, non per timore né per insistenza mia, ciò che è sano, e sappia che in alto troverà da noi pascolo nutriente e al sicuro sarà dai lupi rabbiosi.
APPETITO: Non voglio oltre indugiare. To’, to’, to’, prendi, pecorella, del mio pane... Ché il domani ancora non si vede, e alla fin fine meglio un prendi ora che due ti darò poi.
(A questo punto, la pecorella se ne va dietro all’APPETITO).
Scena III
CUSTODE: Ah Fortina! Torna, torna! Ah Timorosa, Temperata! Su, su, su, abbaia, abbaia presto oh cagna prudente, ché il lupo intorno all’ovile si aggira! Ma nessun cane si sente abbaiare. In fede mia, se il pastore le lascia stare, il gregge le cagne abbandonano.
Scena IV - CUSTODE - Entra SAN MICHELE, in figura di pastore.
MICHELE: Ah Custode, pastorello amico, che ne è della pecorella?
CUSTODE: Si è perduta. Ma non mi mostrare tu, Michele, il tuo corruccio, ché il buon consiglio non le risparmiai; e ora, ahimé, non so dove si sia.
MICHELE: Non son queste, pastorello, buone ragioni per Cristoforo Pasquale.
CUSTODE: Dal male l’allontanai non pure una volta, ma cinquanta!
MICHELE: Chi, Custode, te l’ha rapita?
CUSTODE: Chi, domandi! Nabuzardano.
MICHELE: Per certo, egli a morte ci odia, dopo la lezione che a seguito della sua rivolta gli demmo. Non ricordi tu forse quel giorno che con lui alle mani venni, perché nel suo niente diceva che sarebbe salito sul trono di Dio? Ricordi come fu che, lottando con lui, gli feci lo sgambetto e lo scaraventai giù tra i seguaci suoi?
CUSTODE: Vederti era gran piacere in zuffa col demonio, e d’allora fosti chiamato Michele il Forte, e tutto armato ti dipingono.
MICHELE: In fede mia, sappi, pastorello, che non potei soffrire che quella bestia volesse alla pari di Dio in alto salire.
CUSTODE: E da allora egli la sua rabbia riversa sul gregge nostro, ben sapendo che davanti al gregge buono s’è aperta quella porta che chiusa s’era per lui.
MICHELE: Gli avessi tu dato un sodo colpo tra capo e collo, una randellata o un vigoroso pugno, poiché aveva osato entrare nel tuo pascolo per fuorviarti la pecorella!
CUSTODE: In fede mia, Michele caro, non temo Nabuzardano per quanto e quanto crudele possa egli essere; ma quest’altro, quest’altro sì.
MICHELE: Chi, quest’altro?
CUSTODE: Appetito, suo pastore. Perché, se il demonio ti appare vicino vestito di fuoco, chi mai di spruzzargli un po’ d’acqua santa e di spaventarlo con la croce ti impedisce? Ma del segno della croce e dell’acqua santa, poca o molta che sia, non ha paura il traditore Appetito. Non di troppo avversario mi sarebbe il demonio allo scoperto, ma più pericoloso nemico assai ritengo Appetito, il gran falsario, perché egli è il ladro che in casa ti è entrato.
MICHELE: Dimmi, pastorello, dove hai cercato la pecorella? L’hai tu cercata nei campi vietati?
CUSTODE: Nei campi vietati penso siasi inoltrata.
MICHELE: Presto moviamo dunque i passi.
(Entrambi si dànno a ricercare nei dintorni).
Guarda bene le tracce che la pecorella, pascendo con fame cruda, certo avrà lasciato; e nota come esse da un prato all’altro muteranno.
CUSTODE: Il Monte Altezzoso, ecco dove prima ha lasciato le péste e fatto danno.
MICHELE: Guarda bene, Custode, perché, se non sbaglio, qui è dove la prima pecora già si smarrì.
CUSTODE: Non ci vuol molto a capire - vedi, Michele, la traccia - che pascendo, la pecorella senza testa a perdersi infatti incominciò in questo monte.
MICHELE: Dammi retta, Custode, e cerca tosto nel Prato della Cupidigia, seminato di spine d’oro venute dal Gran Perù.
CUSTODE: Ben disegnate, per certo, vi ha lasciato le péste. E da qui uscì, punta e piena di cardi. Certo in questi rovi s’è azzoppata.
MICHELE: Ecco l’Aiuola della Carne, così tiepida, dove sedotto non solo l’agnello ma anche il savio si perde.
CUSTODE: Tutto il prato è segnato, un filo d’erba non vedo che non sia stato calpestato. Molti di qui son passati, Michele: dove tanti si son perduti, come ritrovare la nostra pecorella?
MICHELE: Ecco il Demonio Iracondo: aguzza, Custode, gli occhi.
CUSTODE: Vedo che anche questo prato essa ha calpestato. Vedi tu dove è passata? Testimonio ne fan le péste, guarda.
MICHELE: Ora vedrai il quinto Prato, detto della Gola; guardati bene, davanti e dietro, Custode, perché anche qui la traccia della pecorella scoprirai sull’erba saporosa.
CUSTODE: Come recenti appaion qui i segni dei morsi! Guarda, Michele, come qui mascella e denti ha lasciato impressi!
MICHELE: Guardiamo un po’ se nel Prato dell’Invidia dell’altrui bene si fosse attardata, ché per questo prato entrò nel mondo la morte.
CUSTODE: Oh che profonda traccia ha lasciato in questo fango!
MICHELE: A tutto scialo, ben si vede, corre la pecorella dietro l’Appetito che per prati e boschi oltre ogni limite permesso la guida.
CUSTODE: Ohibò! Tanto vale, temo, troncare le ricerche.
MICHELE: Perdiamo anche il sonno, piuttosto, caro mio; non sia poi che il Signore ce ne chieda conto.
CUSTODE: Cerca tu dunque in quella palude; io intanto vedrò per questa gola. E infine, ritrovata o non ritrovata, noi ancora in questo prato ci riuniremo.
MICHELE: Ben detto, pastorello.
(Entrambi se ne vanno).
in Teatro religioso del medioevo fuori d’Italia. Raccolta di testi dal secolo VII al secolo XV, a cura di G. Contini, Milano, Bompiani, 1949
Anche in Spagna non mancano travestimenti farseschi della drammaturgia di ambientazione campestre: il carattere tendenzialmente realistico di buona parte della produzione teatrale iberica pastorale diminuisce però lo scarto parodico esistente tra opere quali la Farsa de las hechiceras di Diego Sánchez de Badajoz (1554) e il canone pastorale “alto”.
In Portogallo la drammaturgia pastorale di Vicente, riletta alla luce di un più attento studio della tradizione classica, è alla base della commedia pastorale di Luís Vaz de Camões Auto de Filodemo, composta tra il 1544 e il 1549. Proseguendo nel secolo la nobilitazione letteraria del dramma pastorale è sancita dalla Comédia de Pastora Alfea di Simão Machado. L’opera, edita nel 1601, ma composta sul finire del Cinquecento, è la trascrizione teatrale delle preziosità stilistiche e delle convenzioni narrative del romanzo pastorale la cui moda è lanciata in Portogallo da La Diana (1559) di Jorge de Montemayor.
Il dramma pastorale francese
L’orientamento “classicistico” dei drammaturghi del maturo Cinquecento e la presenza di una élite politica e culturale sensibile al fascino delle rappresentazioni teatrali rendono possibile nella Francia del XVI secolo una precoce affermazione delle forme più aristocratiche del genere pastorale. A cominciare dalla salita al trono di Francesco I di Valois, gli esordi dello spettacolo rinascimentale di ispirazione bucolica sono legati in Francia alle feste di corte imitate dall’Italia: nascite, matrimoni, visite di monarchi, trasferte della famiglia reale sono occasioni per rappresentazioni allegoriche, spesso di ambiente pastorale, volte a elogiare la grandezza del re o di altri personaggi influenti.
Anche Pierre de Ronsard è costretto a piegarsi alla consuetudine dei componimenti encomiastici d’occasione: divenuto poeta ufficiale di corte di Enrico II, tra il 1558 e il 1565 Ronsard compone elegie, mascherate e pastorellerie destinate ad allietare le feste reali (Élégies, mascarades et bergeries, 1565).
Gli spettacoli encomiastico-allegorici del primo Cinquecento trovano la loro naturale prosecuzione nei ballets de cour organizzati in onore di Caterina de’Medici al teatro Petit-Bourbon a partire dalla metà degli anni Settanta.
Anche in questo genere di rappresentazioni è frequente l’ambientazione pastorale. Un capolavoro del ballet de cour quale il Balet comyque de la Reyne allestito nel 1581 da Baltazarini prevede come scenografia un giardino, il boschetto di Pan, una grotta in mezzo ad alberi, una volta dorata contornata di nuvole e sullo sfondo un palazzo. Ninfe, satire e tritoni si affollano in questa rappresentazione per la quale Belgioioso si vanta di aver fatto “vivere e parlare il balletto, e cantare e suonare la commedia”. Inutile dire che lo spettacolo, costato tra i 3 e i 4 milioni e durato dalle dieci di sera alle tre e mezzo del mattino, va incontro a uno straordinario successo di pubblico.
Intorno alla metà degli anni Ottanta i drammi pastorali italiani cominciano a essere tradotti in francese: l’Aminta di Tasso è tradotta nel 1584, poi in rapida successione escono le traduzioni del Pentimento amoroso di Luigi Groto (1590), del Pastor fido di Guarini (1595), dell’Alceo di Antonio Ongaro (1596) e dell’Amoroso sdegno di Francesco Bracciolini (1603). Questa ondata di traduzioni, più che segnare l’entrata in circolazione delle favole boscherecce italiane nella cultura francese (quasi tutti i Francesi colti conoscono infatti nel Cinquecento l’italiano e leggono dunque i drammi pastorali nella loro versione originale), testimonia la rinascita di interesse per il genere pastorale che si registra in Francia negli ultimi decenni del secolo, quando la tragica esperienza delle guerre civili religiose ha ormai svelato quanto sia tormentato il rapporto tra individuo e società.
Contemporaneamente alle traduzioni dei drammi italiani vengono pubblicate le prime pastorali originali francesi dotate, in opposizione alla statica schematicità delle rappresentazioni allegoriche del primo Cinquecento, di un movimento autenticamente drammatico.
Come il Giraldi, i drammaturghi francesi sono inclini a vedere nel dramma pastorale la moderna rinascita del dramma satiresco. Facendo proprio il modello elaborato in Italia, gli autori francesi fondono nella pastorale elementi tragici ed elementi comici con una varietà di registri espressivi priva però di riscontro nei coevi drammi italiani: il realismo e la crudezza di certe scene del Beau pasteur di Jacques de Fonteny eccedono di gran lunga le convenzioni stilistiche di “tragicommedie” quali l’Aminta e il Pastor fido. Pur inquadrandosi in un diverso assetto politico, il teatro pastorale francese del secondo Cinquecento rivela a uno sguardo attento significati ideologici affini a quelli del teatro pastorale italiano dell’età della Controriforma: lungi dal risolversi in una fuga svagata dal reale, la rappresentazione pastorale è l’occasione per una sofferta meditazione sulle relazioni esistenti tra l’individuo e la comunità, tra il cortigiano e il potere.
Festspiel e commedia “rusticale” nei Paesi di lingua tedesca
Agli albori del XVI secolo vengono allestiti nell’impero degli Asburgo spettacoli allegorico-mitologici che, come le coeve rappresentazioni cortigiane italiane, hanno finalità esplicitamente encomiastiche, detti Festspiel. Nel 1501, in onore dell’imperatore Massimiliano I, l’umanista Konrad Celtis cura a Linz la messa in scena del Ludus Dianae, lavoro in cinque atti con musica e danze di chiara ispirazione classicheggiante; tre anni dopo Celtis replica il fortunato esperimento con la messa in scena a Vienna della Rhapsodia sempre dedicata all’imperatore. L’ambientazione bucolica non è però un elemento strutturale distintivo del Festspiel.
Nei Paesi di lingua tedesca una vera e propria drammaturgia pastorale si svilupperà però, sulla scorta dei modelli italiani, solo a partire dal XVII secolo. Nel 1619 Eilger Mannlich traduce il Pastor fido di Guarini e, negli anni immediatamente successivi, vengono pubblicate ben cinque versioni dell’Aminta di Tasso. Con la sua libera rielaborazione della Dafne del Rinuccini, allestita il 23 aprile 1627 nel castello di Hartenfels presso Torgau, è il poeta Martin Opitz a fornire il primo esempio di pastorale in lingua tedesca. Sul piano teorico il genere pastorale otterrà il proprio definitivo riconoscimento nel Poetischer Trichter di Georg Philipp Harsdörfer pubblicato a Norimberga nel 1648.
La scena elisabettiana
Nelle isole britanniche la drammaturgia pastorale cinquecentesca affonda le proprie radici nei drammi natalizi dei pastori (Prima e Secunda Pastorum del ciclo di Wakefield) e nelle pastourelles tardomedievali con la loro evidente vocazione alla forma drammatica (Henryson, Robene and Makyne).
Così come accade un po’ in tutta Europa, in Inghilterra durante il Cinquecento l’ambientazione pastorale ricorre frequentemente negli spettacoli di corte volti a celebrare la grandezza del monarca. Più ancora che nei pageants, tableaux vivants in forma di processione che festeggiano le Royal Entries, la moda pastorale trionfa nei masques, spettacoli compositi privi di una trama ben definita in cui si intrecciano danza e recitazione. Nati come mascherate connesse ai riti di benedizione della casa e dei suoi abitanti, i masques, in pieno Cinquecento si trasformano in allegoriche rappresentazioni della vita di corte e raggiungono il momento di massimo splendore a cavallo tra XVI e XVII secolo. The Vision of the Twelve Goddesses, rappresentato ad Hampton Court nel 1604 su testo del poeta Samuel Daniel, è un tipico esempio di masque di ambiente pastorale. Entro un’organizzazione spaziale per loci deputati di evidente derivazione medievale, l’azione si svolge sullo sfondo di una montagna, costruita sul lato inferiore della sala, di una rupe con una caverna, costruita sul lato opposto, e di un tempio, collocato a fianco.
Incoraggiati dal successo delle egloghe di Edmund Spenser (The Shepheard’s Calendar, 1579) e dei romanzi di ambientazione bucolica di Philip Sidney (Arcadia, 1590, postumo) e Thomas Lodge (Rosalynde, Euphues Golden Legacie, 1590), sul finire del secolo drammaturghi di formazione universitaria come John Lyly e George Peele con alcune loro opere aprono la strada al dramma pastorale inglese. Più che agli spettatori paganti dei teatri professionistici, questi primi esperimenti di drammaturgia pastorale sono ovviamente destinati al pubblico aristocratico. Per una compagnia teatrale di ragazzi protetta dalla corte, George Peele compone nel 1584 The Araygnment of Paris (Il giudizio di Paride): il dramma, ambientato tra i pastori del monte Ida, rievoca il mito del giudizio di Paride. Alla fine della rappresentazione il pomo d’oro, ambito trofeo di bellezza, è assegnato alla ninfa Elisa, doppio scenico della regina Elisabetta. The Araygnment of Paris è il primo dramma inglese pubblicato che rechi sul proprio frontespizio la parola "Pastoral". Pochi anni dopo, sempre per una compagnia di ragazzi-attori, Lyly compone la commedia Endimion (1588) nella quale sono evidenti gli influssi degli spettacoli pastorali offerti alla regina Elisabetta nei parchi delle residenze del conte di Leicester a Kenilworth o di sir Philip Sidney a Wanstead. Sempre volta ad adulare la regina è la commedia dell’“Aretino inglese” Thomas Nashe Summer’s Last Will and Testament, rappresentata a corte nel 1592.
Sulla scena professionistica il trionfo della drammaturgia “boschereccia” si registra allo scadere del secolo con la commedia romantica di ShakespeareAs You Like It (1599-1600) ispirata alla Rosalynde di Lodge. Shakespeare smaschera i convenzionalismi della letteratura arcadica reinterpretando in chiave realistica la contrapposizione ideologica tra corte (luogo della sofisticazione e della corruzione) e campagna (luogo della spontaneità e della schiettezza di vita) tipica dell’arte pastorale. Filtro demistificante degli intrecci “bucolici” è pure il personaggio del cortigiano malinconico Jacques che Shakespeare chiama a commentare le vicende di quella sorta di corte trasferita in Arcadia attorno alla quale si articola il plot della commedia.
Nella civiltà teatrale inglese, con la sua mobilissima sintassi drammaturgica irriducibile al tradizionale sistema dei generi, il dramma pastorale perde gran parte della sua carica eversiva.
Lontano da pascoli e verzure e dai loro malinconici idilli, è tra le rovine della storia che la tragicommedia inglese trova la scenografia a lei più confacente.