DOSSO, Il
, Giovanni Luteri detto il Dosso, o anche modernamente Dosso Dossi, nacque circa il 1479 da padre trentino, morì probabilmente nel 1542. 'u iniziato, con probabilità, da Lorenzo Costa, ma più a Venezia dagli esempî del Giorgione e del Tiziano. A Mantova lo incontriamo, per la prima volta, pittore, nel 1512, e di là, nel 1516, a Ferrara, ove rimase col fratello Battista, salvo brevi interruzioni, tutta la vita. Divenne ben presto pittore ufficiale della corte estense; e per essa dipinge ritratti, adorna di quadri il castello, compone scenarî di commedie, colora le ville ducali, fa cartoni per arazzi e disegni per maioliche, eseguisce ancone d'altare per le chiese di Ferrara e del ducato. Nel 1531, chiamato col fratello dal Cardinal Clesio, vescovo di Trento, a lavorare nel Castello del Buon Consiglio di quella città, vi dipinge la cappella, camere e anditi, sino ai primi mesi del 1532. Si suppone che l'anno seguente lavorasse nella Villa Imperiale di Pesaro, ove non è traccia né di lui, né del fratello. I due D. in quel tempo lavoravano a due pale votive per ahari delle cattedrali di Modena e Reggio, fatte eseguire da Alfonso I d'Este per il ricupero di quelle due città dalle mani del papa.
La Circe, già nella raccolta Benson a Londra è l'opera del D. più vicina allo spirito del Giorgione, mentre richiama nelle smilze proporzioni qualche elemento del Costa. Il giorgionismo, senza la tenuità di forme della Circe, piú si rivela nella Ninfa seguita da un satiro della Galleria Pitti a Firenze e nel Giullare della Galleria estense a Modena. In questi due quadri il giorgionismo del D. aderisce al giorgionismo tizianesco. Ma per poco tempo, perché ben presto il pittore, dopo aver steso un velo tenue sulle cose, comincia a balzarle nella luce, tra le gemme e gli ori. Le sue figure arrossate, bruciate dal sole sulle compatte e dense superfici pittoriche, non ebbero dalla luce infusione, esaltazione di vita, e la ricerca di movimento, che aveva staccato Tiziano da Giorgio da Castelfranco, fu breve in D., che sempre mostrò di non saper volgere le composizioni ad effetto drammatico.
I ritmi tizianeschi, le graduazioni della luce e dell'ombra nel colore furono ignoti al D., che si fermò a rendere forme nella loro rotondità, nella loro evidenza, nella loro poco mobile essenza. Parve nato a far ricami, frange dorate, a ingioiellare, a ornar di filigrane e di pietre preziose figure e cose; e pur giunse talvolta a maestà per i suoi simulacri imponenti, luminosi, abbaglianti. Nei camerini di Alfonso I d'Este, adorni da Giambellino e da Tiziano, erano losanghe del D., ora a Modena, a Londra e nel castello di Alnwich, ove le figure sono formose, massicce, solidamente costruite, sculturali. Tali sono anche la Sibilla dell'Ermitage a Leningrado, la Sacra Famiglia della Pinacoteca capitolina, la Vergine sull'arcobaleno e i Ss. Giorgio e Michele nella Galleria estense di Modena. Una volta il pittore pensò di parafrasare il San Michele Arcangelo di Raffaello; ma incapace di rappresentarlo nell'atto di calare a perpendicolo sul demone, cercò di ottenere mediante il colore quel che non gli era possibile con la linea, e raggiunse teatrali effetti nei lampeggiamenti della corazza, nei contrasti di luce ed ombra, nello scenario del profondo infernale, tutto fuoco e fumo, bagliori fosforici, nubi, turbini intorno a Satana. Con l'andar del tempo, il D. volse verso monumentalità di forme, come può vedersi mettendo a riscontro i due quadri rappresentanti la Concezione, nella Galleria di Dresda, ove alle forme assottigliate dell'uno succede nell'altro massività, corposità plastica. Sempre più egli volge ad effetti decorativi unendo alla figura il paese autunnale, variopinto, e sempre più s'inebria di colori, come nella Circe della Galleria Borghese, grande arazzo splendente; nella Giustizia della Galleria di Dresda, tutta ornata, gemmata, frangiata sopra un fondo di foglie di vite; nel San Sebastiano della Galleria di Brera, col manto verde splendente sopra rami di cedro, nell'Antiope dormiente della raccolta del duca di Northampton, ombreggiata da piante fruttifere, nei paesi di sfondo come ghirlande dell'Autunno intessute da una fantasia avida di colori e di luci. Con questo fuoco, il D. tradusse in colori le ottave ariostesche, cercò di divulgare i romantici personaggi dell'Orlando Furioso, come si vede nella Lotta di Orlando contro Rodomonte nel quadro della raccolta Brownlow a Londra.
Negli ultimi anni, oppresso dal lavoro, affidò a numerosi aiuti l'esecuzione delle pitture allogategli; e sembrò spento il suo ardore, soffocata la sua sonorità. Il suo minor fratello, detto Battista del Dosso, visse accanto a lui, senza intenderlo, logorando, per la sua pochezza, la materia dossesca, come si può vedere nel quadro della Natività alla Galleria estense, nel quale egli cooperò certamente. In generale, si occupò in coloriture di cocchi, di stemmi, di bandiere, di turbanti, di stucchi, di cimieri di cartone, di rilievi di cera per applicarli a forme per getto di pezzi d'artiglieria. Fece anche qualche ritratto; ma probabilmente fu aiutato dal Garofalo, da Girolamo da Carpi, da Camillo Filippi.
Bibl.: W. C. Zwanziger, Dosso Dossi, Lipsia 1911; H. Mendelsohn, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, IX, Lipsia 1913 (con ampia bibl.); id., Das werk des Dossi, Monaco 1914; A. Venturi, Storia dell'arte ital., IX, iii, La pittura del Cinquecento, Milano 1928.