Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La scoperta dell’America e delle nuove rotte per l’Asia provocano nel corso del Cinquecento una rivoluzione nei rapporti e nelle comunicazioni fra i continenti. Il controllo delle rotte marittime e oceaniche diventa quindi la posta in gioco di una competizione economica e militare fra le potenze europee. Le tecniche nautiche e le tattiche del combattimento navale evolvono rapidamente e le armi da fuoco acquistano un’importanza sempre maggiore anche nei combattimenti navali.
La stagione delle esplorazioni, delle scoperte di nuove rotte e di nuove terre da parte degli Europei e, in certi casi, della loro conquista, può essere anche vista come un rovesciamento di un equilibrio millenario fra terra e mare. Durante i millenni che hanno preceduto Colombo e Vasco de Gama, gli oceani sono stati essenzialmente un limite, un confine fra le terre conosciute e l’ignoto, con la parziale eccezione di quel falso oceano che è l’Oceano Indiano, le civiltà hanno comunicato soprattutto via terra o attraverso un uso prudente e limitato delle vie d’acqua, pur molto meno costose. Si preferiva non perdere di vista la costa. La via della seta è stata un itinerario esclusivamente terrestre, quella delle spezie un percorso misto, che quando affrontava le acque utilizzava per lo più mari chiusi come il Mar Rosso, il Golfo di Aden, il Mediterraneo, Il Golfo Persico, il Mar Arabico, il Golfo del Bengala e il Mar della Cina orientale e meridionale.
Non è un caso che prima del Quattrocento le grandi capitali siano state raramente città di mare: Babilonia, Roma, Menfi, Ch’ang-ha, Pechino, Delhi, Mosca, Parigi, Samarcanda, Persepoli… La forza degli imperi stava soprattutto nella loro capacità di controllare la produzione agricola e le masse di contadini. Il potere era legato alla terra. Dopotutto Sparta aveva sconfitto Atene e Roma aveva distrutto Cartagine…
Tutto cambia nella seconda metà del Quattrocento e forse anche un po’ prima. “I Portoghesi sono stati i primi Europei a capire che l’oceano non è un limite ma una via di comunicazione che unisce il genere umano”, ha scritto Lord Acton. Da questo momento il dominio dei mari – il potere navale – è la chiave di volta per l’egemonia in Europa e nel mondo. Le potenze che si avvicenderanno al vertice del sistema mondiale, dai regni iberici agli Stati Uniti, passando per l’Olanda e la Gran Bretagna, saranno essenzialmente potenze navali, in grado di imporre il proprio controllo sulle rotte e sugli oceani. Non ha quindi torto Carl Schmitt a definire quella inaugurata da Colombo e de Gama “una rivoluzione spaziale planetaria”.
Il dominio dei mari è anche una questione di tecnologie. Da questo punto di vista, nonostante lo scambio di conoscenze fra Mediterraneo e Atlantico nel corso del basso Medioevo, le due tradizioni marinare d’Europa mantengono differenze importanti perché devono rispondere a esigenze e condizioni ambientali diverse.
Il tipo di nave che meglio rappresenta la tradizione mediterranea è la galea. Si tratta di una nave da guerra lunga, sottile, elegante, spinta soprattutto dai remi, anche se dotata di velatura. Nel Cinquecento la galea sottile è lunga una quarantina di metri, ha una larghezza pari a 1/7 della lunghezza, la stazza di circa un centinaio di tonnellate, e la ciurma consta di 150 rematori, che si aggiungono agli ufficiali, ai marinai e ai numerosi soldati. La galea cinquecentesca è il punto d’arrivo di un’evoluzione millenaria. Le galee cristiane e turche che si affrontano alla Prevesa (1538), quando sono i musulmani a prevalere, o a Lepanto, quando hanno la meglio i cristiani, sono le dirette discendenti delle triremi ateniesi e romane, dei dromoni bizantini dominatori del Mediterraneo nei secoli dell’alto Medioevo. E in fondo non sono poi così diverse dalle navi che avevano trasportato gli Achei sotto le mura di Troia. E non troppo diverse, rispetto all’antichità, sono anche le tecniche di combattimento. Le battaglie navali nel Mediterraneo sono combattute per lo più con la tecnica dello speronamento e dell’abbordaggio. In pratica si tratta di scontri fra opposte fanterie di marina, a Salamina, come alle Egadi o a Lepanto.
Ma se nel Mediterraneo le flotte militari sono composte quasi esclusivamente di galee, le cose cambiano per quanto riguarda il naviglio mercantile. Come mezzo di trasporto, soprattutto per le merci di scarso valore in rapporto al peso, le galee risultano antieconomiche a causa del loro equipaggio numeroso – che comporta un’autonomia limitata –e della modesta capacità di carico. Inoltre la galea, veloce e agile ma relativamente fragile, è adatta solo alle acque relativamente tranquille e alla scarsità di venti del mare interno. L’Atlantico e il Mare del Nord richiedono navi in grado di tenere il mare anche in condizioni più difficili. Per ovviare ai limiti della galea e stabilire un collegamento diretto con i porti del nord Europa, i Veneziani mettono a punto la galea da mercato o galea grossa, che ricorre maggiormente alle vele ed è più larga e massiccia. Si tratta però in fondo di una soluzione di compromesso non del tutto soddisfacente, anche se le galee da mercato vengono impiegate ancora nel terzo decennio del Cinquecento. Fin dal Medioevo, tuttavia, per il traffico mercantile, anche nel Mediterraneo sono utilizzate navi tonde, a vela, ispirate alle kogge nordiche. Lente e in difficoltà in caso di bonaccia, sono solide e poco costose, ma in grado di tenere il mare anche in condizioni più difficili.
L’evoluzione delle marinerie atlantiche è stata significativamente diversa da quella del Mediterraneo perché le condizioni ambientali sono per molti versi più difficili. L’Oceano infatti è più tempestoso e la visibilità spesso ridotta. Le navi che solcano le acque del nord devono quindi essere più tozze e solide, avere un maggior pescaggio e un bordo più alto sul livello del mare. Ma i mari del nord offrono anche opportunità interessanti, che indirizzano lo sviluppo tecnologico. Prima fra tutte la forza e la regolarità dei venti, che consentono un maggiore utilizzo delle vele per la propulsione, sia le vele quadrate, per sfruttare appieno il vento in poppa, sia quelle latine per sfruttare l’effetto della portanza e navigare controvento. Il beneficio maggiore è il risparmio nelle dimensioni dell’equipaggio e quindi nei costi di trasporto. Inoltre sembra che le marinerie nordiche si siano mostrate più ricettive ad alcune novità importanti, come il timone incernierato a poppa in sostituzione del tradizionale remo laterale e proveniente forse dalla Cina. Il timone di poppa è particolarmente prezioso per tenere la rotta in acque difficili e forse non è un caso che venga rappresentato per la prima volta in un sigillo anseatico.
Le navi atlantiche dunque tengono meglio il mare, sono più economiche perché richiedono un equipaggio ridotto, e sono quindi più adatte, oltre che al trasporto di merci o alla pesca d’altura, fino ai lontani banchi di Terranova, ai lunghi viaggi di esplorazione che richiedono maggiore autonomia, dato che non vi è la sicurezza di un approdo vicino dove rifornirsi di cibo e acqua. Ma la marineria atlantica gode anche di altri vantaggi. Innanzitutto la disponibilità a costi ridotti di materie prime strategiche, come il legname, per gli scafi e l’alberatura. La kogge o cocca, messa a punto nel XII secolo, fu a lungo la tipica imbarcazioni dei mari nordici, ma nel Quattrocento venne sostituita dalla caracca, una nave anch’essa tonda, ma dotata di un’alberatura multipla e da una velatura molto più complessa. Più manovriera della cocca, insieme alla caravella, con una struttura analoga ma di dimensioni ridotte, è la protagonista della prima parte della stagione dei viaggi di esplorazione e scoperta.
Ma anche nei mari europei e persino nel Mediterraneo, nella seconda metà del Cinquecento, i marinai nordici prendono il sopravvento, sia in campo mercantile che militare. La Great Harry, di mille tonnellate, con settecento uomini di equipaggio, era stata una delle navi più grandi e potenti della sua epoca mentre l’arrivo, nell’ultimo decennio del Cinquecento, delle navi inglesi e olandesi cariche di grano proveniente dall’Europa centro-orientale è un chiaro sintomo dell’arretramento delle marinerie mediterranee. Nel secolo successivo persino Genova e Venezia acquisteranno navi olandesi, e lo stesso faranno i pirati barbareschi.
La struttura stessa delle navi nordiche, più ampie e massicce, facilita l’istallazione di armi da fuoco, sia sui castelli di prua e di poppa che lungo le fiancate, cosa impossibile per le galee data la presenza dei remi. I velieri nordici si prestano dunque meglio al nuovo tipo di guerra sul mare che fa la sua comparsa nel Cinquecento, grazie al perfezionamento dell’artiglieria, ovvero alla messa a punto di armi da fuoco più piccole e leggere, adatte anche all’uso navale.
Anche nel Mediterraneo del resto, le cose cominciano a cambiare. A Lepanto, la superiorità delle armi da fuoco a bordo della flotta cristiana, i cannoni delle pesanti galeazze veneziane e gli archibugi di fanti trasportati dalle galee hanno una parte considerevole nel determinare l’esito della giornata: “Gli archibugieri turchi” –scrive uno dei comandanti cristiani – “non sono così atti, né destri come i nostri… I turchi nel tirar d’archebuso non riescono più che tanto”.
La potenza di fuoco diviene sempre più importante rispetto alla forza d’urto. Le manovre non mirano più a speronare e ad abbordare le navi avversarie quanto a distruggerle a distanza o quanto meno a ridurle all’impotenza abbattendone l’alberatura. La tipica nave da guerra, sviluppata nell’Atlantico intorno alla metà del Cinquecento, è il galeone, più agile e manovriero delle caracca da trasporto, ma con una struttura e un’attrezzatura analoga.
La rivoluzione che associa i cannoni alle vela è uno dei fattori che contribuiscono a spiegare il successo della proiezione oceanica dell’Europa, a cominciare dalla Spagna e dal Portogallo, soprattutto in Asia, dove non mancano i concorrenti agguerriti. Nel 1509 è essenzialmente la superiorità dell’artiglieria navale portoghese a far fallire il tentativo dei potentati islamici indiani e dei Mamelucchi d’Egitto, spalleggiati dai Veneziani, di estromettere i nuovi venuti dall’oceano Indiano. Nel febbraio 1509 è soprattutto grazie a un efficace bombardamento navale che la piccolo flotta portoghese – meno di una ventina di navi – ha la meglio su quella musulmana che ne conta oltre cento.
La battaglia di Diu, meno nota di altri grandi scontri navali del Cinquecento, come Lepanto o la distruzione dell’Invencible Armada, ha conseguenze forse più durature e profonde. Consolida la presenza portoghese in Asia e pone le premesse per la successiva espansione europea. Ma più che una causa è un sintomo che mette in evidenza come, almeno nella guerra sul mare, l’Europa abbia acquistato un certo margine di vantaggio tecnico che sfrutta con abilità e determinazione. Affermare che nel Cinquecento i Portoghesi dominino l’oceano Indiano sarebbe senza dubbio eccessivo. Tuttavia è vero che un certo grado di controllo militare dello spazio marittimo sono riusciti ad assicurarselo. E questo controllo è del resto indispensabile all’esistenza stessa del loro “impero”, dato che da un punto di vista strettamente economico la rotta del Capo di Buona Speranza non offre un chiaro vantaggio concorrenziale rispetto agli itinerari tradizionali, attraverso il Mar Rosso o il Golfo Persico. Per i Portoghesi il ricorso sistematico alla forza navale è la condizione necessaria per imporre la loro presenza in Asia e la loro nuova “via delle spezie” che passa per il Capo di Buona Speranza.
Il controllo delle rotte oceaniche è ugualmente indispensabile alla Spagna. Del resto dopo il 1580, Filippo II, diventato re del Portogallo, riunisce nelle sue mani i due imperi iberici. Nel 1564-1565 Miguel López de Lagzpi e Andrés de Urdaneda hanno sperimentato le rotte di andata e ritorno dalla costa occidentale del Messico dalle Filippine, così chiamate in onore di Filippo II, rendendo possibili collegamenti regolari fra America e Asia col cosiddetto “galeone di Acapulco”. Quello di Filippo II è il primo impero globale, esteso su quattro continenti, tre oceani e 360 gradi di longitudine. Da Lisbona a Macao verso est, e da Siviglia o Cadice a Manila verso ovest.
Per quanto riguarda l’Atlantico, sia gli Spagnoli che i loro avversari, Francesi, Inglesi e Olandesi, sono pienamente consapevoli di come, soprattutto dopo la metà del secolo, il credito della monarchia asburgica, e quindi la sua capacità d’azione politica e militare, dipendano dalla sicurezza dei convogli di galeoni che trasportano l’argento proveniente dalle ricchissime miniere del Potosí. D’altra parte la vitalità dell’altro settore portante dell’economia coloniale americana, le piantagioni, soprattutto di zucchero, dipende da un flusso crescente di schiavi provenienti dall’Africa. Ancora una volta si tratta di attraversare, in senso inverso, l’Atlantico. Sulle acque oceaniche la sorveglianza dei galeoni spagnoli è abbastanza efficace ma non impenetrabile. Inglesi, Olandesi e Francesi riescono a inserirsi nel traffico degli schiavi – con la complicità dei piantatori spagnoli che hanno bisogno di manodopera – e talvolta a portare a termine colpi clamorosi, come quando Francis Drake si impadronisce di una carovana spagnola che trasporta argento e preziosi attraverso l’istmo di Panama, o si prende a sorpresa alcune delle più importanti città coloniali spagnole, come Cartagena e Santo Domingo.
Anche in Europa il controllo del mare è essenziale per il perseguimento del progetto egemonico della Spagna asburgica, e in realtà per la stessa sopravvivenza di un impero territorialmente discontinuo. Le acque della Manica e del Mare del Nord, fondamentali per i collegamenti con le Fiandre, in rivolta dagli anni Sessanta del secolo, sono tutt’altro che sicure. Corsari olandesi, inglesi e ugonotti francesi – i guex, gli “straccioni del mare” – con basi anche in Inghilterra e quindi con il sostegno, neppure tanto nascosto, di Elisabetta, minacciano questa vitale linea di comunicazione. È soprattutto a loro che l’Olanda deve la sua nascita come nazione indipendente.
Nel 1588 Filippo II decide di compiere uno sforzo eccezionale per chiudere definitivamente la partita con i ribelli olandesi e la loro sostenitrice Elisabetta. Nei vari porti spagnoli e portoghesi viene allestita un’imponente flotta di circa 130 galeoni con circa 25 mila uomini, tra marinai e soldati. Il piano prevedeva che la flotta proteggesse lo sbarco in Inghilterra del potente esercito di Alessandro Farnese. Il successo del piano spagnolo dipendeva quindi dalla capacità della flotta di assicurarsi il controllo delle acque della Manica. Solo che, in questo, erano i nemici della Spagna a godere di un limitato ma decisivo margine di vantaggio in fatto di tecnologia nautica e di artiglieria navale. La sconfitta della flotta spagnola è dovuto non solo all’insipienza del suo comandante, il duce di Medina Sidonia, e all’abilità di Francis Drake (1542-1596) e Martin Frobisher (1535 ca. - 1594), ma anche alla superiorità tecnica delle navi e dell’artiglieria inglesi, così come nel decennio precedente la superiorità delle navi e dell’artiglieria cristiane avevano deciso la partita nel Mediterraneo. La flotta spagnola è ampiamente dotata di piccole bocche da fuoco destinate a colpire la fanteria e i marinai imbarcati sulle navi avversarie, ma la superiorità inglese in fatto di cannoni a lunga gittata e la maggiore manovrabilità delle navi inglesi impedisce alle navi spagnole di avvicinarsi.
La distruzione dell’Armada spagnola è in un certo senso la nemesi di Diu e Lepanto e l’ultimo scorcio del Cinquecento vede quindi profilarsi un rovesciamento dei rapporti di forza sia militari che economici, tra l’Europa meridionale cattolica e le potenze protestanti in ascesa.
Il flusso di ricchezze provenienti dall’America e dall’Asia e la competizione politico-militare fra potenze europee, che nel Cinquecento assume una dimensione veramente mondiale, è all’origine dello straordinario sviluppo di una forma di guerra navale di per sé non certo nuova: la pirateria e la guerra di corsa. Pirati sono coloro che agiscono esclusivamente per proprio tornaconto personale, depredando imbarcazioni o attaccando insediamenti costieri. In pratica dei semplici criminali. I corsari invece agiscono per conto e con l’autorizzazione di uno stato. La loro è in sostanza una guerriglia marittima o, se si preferisce, una guerra economica non convenzionale. Lo strumento preferito, nel Cinquecento come nel Novecento, da quelle potenze che non si sentono ancora in grado di sfidare apertamente i padroni del mare.
La differenza, chiara in teoria, lo è meno in pratica. Non sempre è facile distinguere, fra gli avventurieri di ogni risma che infestano le acque dei Caraibi o quelle del Mediterraneo, i semplici pirati o bucanieri dai corsari veri e propri, dotati di una “lettera di corsa” redatta nella forma dovuta. Uomini come de la Mark, capo della flotta multinazionale protestante che opera nella Manica per conto di Guglielmo d’Orange, può senz’altro essere definito un vero e proprio corsaro. Una forma di guerra di corsa è anche quella praticata dei Cavalieri di Santo Stefano, un ordine cavalleresco creato dai Medici, o dei Cavalieri di Malta, ai danni dei musulmani nel Mediterraneo. Meno chiara è la logica dei corsari barbareschi, che spesso agiscono in stretto contatto con la Sublime Porta ottomana e i cui capi talvolta arrivano al grado di kapudan pasa, ovvero ammiragli della flotta imperiale turca. In questo caso però il movente economico è prevalente e la grande prosperità di Algeri, la più importante delle capitali barbaresche, dimostra il loro successo.
Motivazioni politiche, economiche o anche religiose si mescolano comunque inestricabilmente. Un semplice pirata può operare un certa selezione delle sue prede potenziali sulla base di motivazioni nazionali o religiose oppure uno Stato può incoraggiare ufficiosamente dei pirati, magari in tempo di pace, senza offrire una copertura politica ufficiale. È questo il caso di gran parte della carriera di uomini come Richard Hawkins, suo cugino Francis Drake o Walter Raleigh, che anche quando Spagna e Inghilterra sono formalmente in pace, sono una minaccia costante per le navi e gli insediamenti spagnoli delle Americhe, e che agiscono con il benestare e spesso in collegamento con il governo della regina.
Capitava viceversa che un corsaro regolarmente riconosciuto non andasse troppo per il sottile se si presentava l’occasione di fare una ricca preda. Persino i pii Cavalieri di Malta o di Santo Stefano vengono accusati di aver attaccato navi cristiane.