Il divieto dei nova in appello
Anche dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo la disciplina dei nova (domande, eccezioni e mezzi di prova, inclusi i documenti) continua a occupare un posto centrale nel mai sopito dibattito sulla natura dell’appello amministrativo, da sempre oscillante tra i due opposti idealtipi della revisio prioris instantiae e del novum iudicium. Sebbene il tenore dell’art. 104 c.p.a esprima una nitida opzione per un regime giuridico ispirato all’art. 345 c.p.c. (nella versione anteriore al cd. “decreto sviluppo 2012”) e, quindi, coerente con il modello della revisio, nondimeno nel corso del 2012 sia il Consiglio di Stato sia il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana hanno reso pronunce che confermano la perdurante instabilità degli attuali approdi giurisprudenziali: accanto a decisioni tendenti ad attenuare le regole dettate dall’art. 104 c.p.a., se ne registrano difatti altre ispirate a un maggior rigore applicativo.
L’art. 104 c.p.a. (d.lgs. 2.7.2010, n. 104, all. 1) ha sancito espressamente il principio del cd. “divieto dei nova” anche per l’appello amministrativo. In particolare, adattando allo specifico contesto processuale il contenuto dell’art. 345 c.p.c., come novellato dall’art. 46, co. 18, l. 18.6.2009, n. 691, il Legislatore delegato ha stabilito che in appello: a) non possano essere proposte nuove domande, fermo quanto previsto dall’art. 34, co. 3, c.p.a. (v., sul punto, il § 2.3), né nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio, fatta salva la possibilità di richiedere gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni patiti dopo la sentenza; b) non siano ammessi nuovi mezzi di prova e non possano essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio giudicante li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli in primo grado per causa ad essa non imputabile; c) possano invece essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti in primo grado da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti impugnati.
Nel corso del 2012, tuttavia, sono intervenute alcune pronunce, sia del Consiglio di Stato sia del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, le quali confermano il perdurare, sul tema dello ius novorum in appello, di oscillazioni analoghe a quelle che avevano caratterizzato l’evoluzione giurisprudenziale in costanza del precedente regime processuale. Ed invero, accanto a pronunce più attente a scongiurare allentamenti del divieto, se ne incontrano altre orientate in senso opposto.
Tra le sentenze del Consiglio di Stato che militano a favore di un’esegesi rigorosa dell’art. 104 c.p.a. meritano di essere menzionate sia la decisione della Quinta Sezione del 22.3.2012, n. 1640, sia un’altra della Quarta Sezione del 15.3.2012, n. 1453. Se la prima pronuncia si limita a ribadire l’inammissibilità della deduzione, per la prima volta in appello, di doglianze, in fatto o in diritto, ulteriori rispetto a quelle costituenti il thema decidendum di prime cure, di maggiore interesse è la seconda decisione che si sofferma, invece, sul concetto di prova cd. “indispensabile”. Siffatta indispensabilità, insieme alle diverse ipotesi dell’impossibilità della proposizione o della produzione in primo grado, rispettivamente, di nuovi mezzi di prova o di nuovi documenti per causa non imputabile alla parte, rappresenta una delle eccezioni, legislativamente tipizzate, alla regola generale del divieto dei nova. Nell’interpretare l’art. 104, co. 2, c.p.a. – che costituisce, con le parole usate dal Consiglio di Stato, «il criterio finale di sbarramento, valevole unicamente in secondo grado» – il Giudice di Palazzo Spada ha ritenuto «di dover individuare un contenuto maggiormente pregnante alla nozione di indispensabilità della prova … rispetto a quello emergente da una piana lettura del testo di legge». Più in dettaglio, il Consesso amministrativo ha escluso che possa esser ritenuta indispensabile qualsiasi prova che possa influire sulla decisione atteso che, così divisando, il concetto di “mezzo di prova indispensabile” verrebbe a sovrapporsi a quello “mezzo di prova rilevante” o, finanche, a quello di mezzo di prova tout court, di guisa che tutti i nuovi mezzi di prova sarebbero da reputare indispensabili, in quanto comunque influenti sulla base di giudizio. Secondo il Consiglio di Stato, invece, «(l)a nozione va … collocata in un ambito che superi la mera rilevanza e che vada ad incidere sul contenuto concreto del decisum giurisprudenziale. Ciò implica che al concetto di prova indispensabile va collegato un contenuto precettivo maggiore, ossia tale non solo da influire sul giudizio (proprietà che è insita nel concetto di prova come elemento formante la base del giudizio), ma da trasformare radicalmente l’esito della decisione, in relazione ad almeno una delle domande proposte». La distinzione tra “mera rilevanza” e “indispensabilità” del mezzo di prova spiega altresì, ad avviso del Consiglio di Stato, la ragione per la quale tale specifica deroga, di natura oggettiva2, sia stata contemplata soltanto per il secondo grado del giudizio quale norma di chiusura del sistema. Infatti, nel processo di primo grado, il limite al ius novorum si coglie sul versante temporale, nella perentorietà dei termini previsti dall’art. 73, co. 1, c.p.a. per l’attività istruttoria delle parti, il cui effetto di sbarramento è unicamente superabile a norma dell’art. 54, co. 1, c.p.a (qualora la presentazione tempestiva di documenti sia risultata estremamente difficile) oppure attraverso la remissione in termini di cui all’art. 37 c.p.a (allorquando la tardiva richiesta di mezzi di prova o di acquisizione di documenti sia ascrivibile a errore scusabile in presenza di gravi impedimenti di fatto).
Occorre però segnalare anche coeve pronunce dalle quali affiora un diverso indirizzo orientato nel senso dell’attenuazione del divieto. Tra queste va ricordata una sentenza3, secondo cui non costituisce motivo nuovo la censura, riproposta in appello, ma con l’aggiunta, rispetto al primo grado, di una serie di argomentazioni maggiormente circostanziate. Si è qui al cospetto di un criterio, pur condivisibile in astratto, ma in concreto di incerta applicazione, stante l’elevata opinabilità della distinzione tra argomentazione e motivo. Di più agevole implementazione, e comunque inteso a restringere l’ambito oggettivo di applicazione del divieto, è il principio enunciato nella decisione C.g.a. 19.3.2012, n. 308 che, in tema di eccezioni nuove, ha ritenuto inammissibili solo quelle cd. “in senso stretto”, ritenendo sempre consentita, anche per la prima volta in appello, la deduzione di quelle cd. “in senso ampio” o “mere difese” consistenti «… nella semplice contestazione dei fatti costitutivi sui quali si fonda la pretesa avversaria o della fondatezza giuridica della pretesa medesima, anche in ordine alla qualificazione del rapporto».
Ancora riguardo alla nozione di “indispensabilità” di un documento va poi richiamata un’altra sentenza4 che si discosta parzialmente, in senso ampliativo, da Cons. St. n. 1453/2012 cit., individuando quale ipotesi di indispensabilità specificamente tipizzata dall’art. 46, co. 2, c.p.a., l’acquisizione del provvedimento impugnato in primo grado e tutti gli atti del relativo procedimento, «con la conseguenza che la mancata produzione da parte dell’Amministrazione … o delle altre parti non comporta comunque alcuna decadenza, sussistendo il potere-dovere del giudice di acquisire tali atti, anche d’ufficio, in qualsiasi grado del giudizio».
Come sopra accennato, l’art. 104 c.p.a. è una disposizione innovativa. Invero, nel precedente regime processuale non esisteva una previsione analoga che replicasse, sia pur con gli adattamenti imposti dal rito amministrativo, il contenuto dell’art. 345 c.p.c. (“vecchia versione”5). La vigenza del divieto dei nova in appello era però pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa6, ancorché la base normativa del principio fosse individuata nell’art. 28, ult. co., l. TAR7 che attribuiva al Consiglio di Stato, chiamato a decidere la controversia in seconde cure, «gli stessi poteri giurisdizionali di cognizione e di decisione del giudice di primo grado».
Le recenti pronunce giurisprudenziali, delle quali si è dato sopra conto, offrono l’occasione per verificare l’esistenza di eventuali discontinuità tra le pregresse acquisizioni, dottrinarie e pretorie, e la disciplina positiva recata ora dal codice del processo amministrativo.
2.1 La ratio del divieto
L’indagine deve prendere l’abbrivio dalla giustificazione razionale del divieto che, in passato, era ricondotta alla considerazione di quattro concorrenti esigenze, ossia: a) il rispetto del doppio grado di giurisdizione8; b) la concentrazione del giudizio; c) l’osservanza dei termini perentori di introduzione della causa e d) il principio della specificità dei motivi9.
Il primo fondamento del divieto10, a sua volta ancorato alla ricordata regola positiva del parallelismo dei poteri giurisdizionali ex art. 28 l. TAR, si coniugava, dal punto di vista funzionale, con i limiti all’effetto devolutivo implicato dalla natura rinnovatoria del rimedio dell’appello: esprimeva cioè la necessità logica che il sindacato giurisdizionale del materiale cognitorio destinato all’automatica riemersione in secondo grado, sia pure attraverso il filtro rappresentato dagli specifici motivi di impugnazione, non investisse profili diversi da quelli esaminati in prime cure. In questo senso d’altronde era la più autorevole dottrina processualcivilistica11 nonché l’insegnamento del Supremo Collegio12.
Indubbiamente poi il mantenimento del giudizio entro il perimetro segnato dal thema decidendum definito avanti al TAR agevola la rapida definizione dell’appello (secondo fondamento del divieto), scongiurando le dilazioni che deriverebbero dall’ipotetica estensione della cognizione ad aspetti della controversia estranei all’oggetto del contendere stabilito dalle parti.
Ancora lo ius novorum impedisce (terzo fondamento) l’elusione dei termini perentori stabiliti dalla legge per la proposizione delle impugnative e, quindi, con specifico riferimento al processo amministrativo, preclude un altrimenti facile aggiramento degli oneri imposti alle parti a pena di decadenza. Ispirata alla medesima esigenza è, infine, la giustificazione (quarto fondamento) che si rifà al principio di specificità dei motivi di impugnazione, che connota il processo amministrativo ancor più di quello civile.
L’art. 104 c.p.a. ha valorizzato alcuni di detti fondamenti logico-giuridici del divieto, sminuendone altri. Sicuramente è stata rafforzata l’esigenza della concentrazione del giudizio, che oggi rinviene una solida base normativa nel principio di ragionevole durata del processo, solennemente proclamato, sia pure come dovere cooperativo delle parti e del giudice, dall’art. 2, co. 2, c.p.a. (che attua in parte qua l’art. 111, co. 2, Cost.). Diversamente il principio del doppio grado di giurisdizione e pure le regole volte a scongiurare i rischi di elusione dei termini perentori di impugnazione parrebbero indeboliti alla luce, per un verso, delle “nuove” domande, più numerose di quelle in precedenza ammesse dalla giurisprudenza (ma, sul punto, v. i §§ 2.2, 2.3 e 2.4) e, per altro verso, di quanto disposto dallo stesso art. 104, co. 3, c.p.a.
2.2 Le domande nuove
In effetti, pur avendo offerto al divieto dei nova un chiaro aggancio legislativo, l’art. 104 c.p.a. ha al contempo tipizzato numerose deroghe che, con riguardo alle sole domande, sono da individuare: a) nella previsione di una conversione automatica della azione di annullamento in una di accertamento dell’illegittimità, siccome previsto dall’art. 34, co. 3, c.p.a.; b) nella possibilità di richiedere gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata; c) nella possibilità di agire per il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza; d) nella possibilità di proporre motivi aggiunti «qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati».
Occorre tuttavia interrogarsi sull’effettiva natura derogatoria, e anche sulla reale novità, di tali previsioni. Se, difatti, possono considerarsi nuove soltanto le censure che modifichino sensibilmente il thema decidendum definito in primo grado, allora non sembra configurare una significativa deroga al divieto né costituire una vera innovazione la possibilità di domandare per la prima volta in appello gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza: invero, interpretando il vocabolo “accessori” come “rivalutazione”, emerge che il Legislatore delegato si è limitato a codificare13 un indirizzo giurisprudenziale precedente14 ampliandolo, sul piano oggettivo, anche agli importi maturati dopo la pubblicazione della sentenza. Né, d’altronde, si è in presenza di una domanda logicamente diversa rispetto a quella formulata con l’impugnativa di primo grado giacché sia gli interessi sia la rivalutazione rappresentano gli strumenti giuridici di esatta determinazione di un debito individuato nel petitum originario.
Sicuramente innovativa rispetto a quanto in pregresso insegnato dalla giurisprudenza15 e pure derogatoria al generale divieto dei nova è invece la possibilità di richiedere per la prima volta in appello il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza oggetto di impugnazione. A ben riflettere, però, anche tale previsione – coerente con il tendenziale favor per l’azione risarcitoria affiorante da plurime disposizioni del codice del processo amministrativo16 – non altera profondamente la fisionomia dello ius novorum se si considera, da un lato, che la proponibilità di una domanda risarcitoria, per fatti successivi alla pubblicazione della sentenza di primo grado, è una specifica declinazione del principio della rimessione in termini e, dall’altro lato, che la deroga al doppio grado di giudizio non concerne tanto l’an della pretesa, ma soprattutto il quantum (almeno nei casi, più ricorrenti, in cui il debitore sia la pubblica amministrazione, giacché il solo accertamento della illegittimità dell’atto impugnato, alla stregua dei più recenti orientamenti giurisprudenziali interni ed europei17, è di per sé sufficiente a giustificare la domanda aquiliana).
2.3 Il caso dell’art. 34, co. 3, c.p.a.
Nemmeno esprime una rilevante deroga al divieto dei nova la clausola di salvaguardia, contenuta nell’art. 104 c.p.a., relativa a quanto disposto dall’art. 34, co. 3, c.p.a., secondo cui «(q)uando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori». La giurisprudenza amministrativa ha difatti chiarito in più occasioni18 che la domanda di accertamento, categoria alla quale è riconducibile anche l’istituto disciplinato dall’art. 34, co. 3, c.p.a., è insita in ogni azione, costituendo l’accertamento il nucleo essenziale e imprescindibile di qualunque cognizione giurisdizionale. L’art. 34, pertanto, contempla unicamente una “conversione” formale dell’azione di annullamento, una volta divenuta improcedibile, per carenza di interesse, l’originaria istanza di natura costitutiva e cassatoria. La peculiarità dell’istituto è semmai rappresentata dalla circostanza che attualmente il giudice, in linea con il principio della effettività della giurisdizione, deve sempre operare tale conversione. Se dunque l’art. 34, co. 3, c.p.a. deroga al principio della domanda (ma in parte, atteso che il ricorrente potrebbe anche non avere interesse all’accertamento della sola illegittimità), esso però non confligge con il divieto dei nova, giacché l’accertamento dell’illegittimità non è in senso stretto una domanda nuova, ma un petitum implicato dall’azione di annullamento.
2.4 L’art. 104, co. 3, c.p.a.
Reca invece un’evidente deroga al divieto in parola la previsione contenuta nell’art. 104, co. 3, c.p.a. Se, difatti, le azioni di annullamento sono individuabili in ogni singolo motivo dedotto a supporto dell’impugnativa di un determinato provvedimento, allora è incontestabile che, nell’ipotesi contemplata dal predetto comma, l’azione originaria muti, al di là di una mera emendatio libelli, per effetto della deduzione di nuovi motivi (per i quali dovranno comunque ricorrere i requisiti formali e sostanziali di cui all’art. 43 c.p.a., trattandosi comunque di “motivi aggiunti” propriamente intesi). La proposizione di motivi aggiunti è comunque ammissibile solo qualora essi si dirigano contro atti già impugnati in primo grado e non laddove essi riguardino atti sopravvenuti alla sentenza19. La giustificazione dell’istituto va ravvisata nelle esigenze di concentrazione e di effettività delle tutele20, esigenze che nel caso di specie fanno premio sulla necessità di salvaguardare il doppio grado del giudizio. Sotto altro aspetto la norma si presenta come un’ulteriore declinazione dell’istituto della remissioni in termini, atteso che la proposizione “tardiva” dei nuovi motivi trova causa nell’impossibilità, per la parte che li deduca, di una pregressa conoscenza dei documenti (dai quali emergano i vizi denunciabili) a ragione del loro mancato deposito in primo grado. Con tale disposizione il Legislatore delegato ha recepito uno degli indirizzi emersi in giurisprudenza nel vigore del precedente regime processuale: accanto all’orientamento21 inteso ad escludere la possibilità di proporre motivi aggiunti in secondo grado, si registrava infatti un indirizzo22 contrario per i casi in cui il proponente i motivi nuovi fosse venuto a conoscenza, senza colpa e solo in pendenza del secondo grado, dell’esistenza di atti, rilevanti, precedentemente adottati. Il codice ha dunque legificato tale secondo indirizzo, così attenuando il principio del doppio grado di giurisdizione.
2.5 Il regime delle nuove eccezioni in appello
L’art. 104 c.p.a. esclude la possibilità di proporre in appello nuove eccezioni, a parte quelle rilevabili d’ufficio. Per comprendere esattamente il portato del divieto, laddove riferito alle eccezioni, bisogna dapprima distinguere, come chiarito dalla giurisprudenza sopra citata (v. il § 1), le eccezioni “in senso stretto” da quelle “in senso lato”, ossia le mere difese e le argomentazioni; nell’ambito delle eccezioni in senso stretto si devono poi individuare quelle rilevabili d’ufficio. Inoltre non vanno confuse le eccezioni con le doglianze che potrebbero (e dovrebbero) costituire motivi di appello, giacché relative a questioni proposte in primo grado e tuttavia respinte espressamente dal TAR o non esaminate o assorbite: oggi tali deduzioni, per poter ritualmente transitare in secondo grado, devono essere veicolate da un atto di appello, principale o incidentale, o a norma dell’art. 101, co. 2, c.p.a.
Le mere difese e le argomentazioni sono sempre proponibili, anche per la prima volta in appello. Si tratta di deduzioni che non introducono una nuova questione valutabile in modo autonomo e che, quindi, non modificano il thema decidendum definito in primo grado. Esse consistono piuttosto nella critica di un’interpretazione giuridica offerta dalle controparti oppure nella contestazione di allegazioni di fatto e, più in generale, in qualunque argomento volto a dimostrare in secondo grado l’infondatezza (o la fondatezza) della domanda accolta (o respinta) dal TAR, purché ciò non si traduca nella proposizione di un nuovo motivo da parte del ricorrente originario, rimasto soccombente in prime cure.
Sono, per contro, eccezioni in senso stretto, per le quali vale la regola dell’iniziativa di parte, quelle fondate su fatti estintivi, impeditivi o modificativi di quanto dedotto dall’appellante e in grado di paralizzarne le domande.
Senza alcuna pretesa di esausitività, si annoverano tra le eccezioni in senso stretto rilevabili anche d’ufficio tutte quelle volte a contestare la rituale instaurazione del contraddittorio in primo grado23 o la legittimazione24, attiva o passiva, di una parte oppure dirette a far valere l’intervenuta perenzione dell’impugnativa di primo grado25, l’improcedibilità dovuta al venir meno dell’interesse a ricorrere o a coltivare l’impugnazione, la nullità dell’atto impugnato26 o, ancora, intese a sollecitare il giudice a sollevare una questione di legittimità costituzionale27 o di legalità comunitaria o, infine, consistenti proprio nella denuncia della violazione dello ius novorum28, a prescindere dall’eventuale adesione, esplicita o implicita, delle controparti all’estensione dell’oggetto della lite29.
Sono invece considerate, tra le altre, eccezioni non deducibili per la prima volta dalla parte interessata né rilevabili d’ufficio in appello: quella di compensazione di cui all’art. 1242 c.c. e quella di prescrizione30 a norma dell’art. 2938 c.c. Non più rilevabile d’ufficio in appello è invece il difetto di giurisdizione al cui regime processuale è ora dedicata un’apposita disciplina contenuta nell’art. 9 c.p.a. (v. Le questioni di giurisdizione in appello).
2.6 I nuovi mezzi di prova
Sui requisiti di ammissibilità dei nuovi mezzi di prova si rimanda a quanto già osservato (v. il § 1 e, in particolare, la nota 1), salvo rilevare ulteriormente che non incorre, ovviamente, nel divieto di cui all’art. 104, co. 2, c.p.a., la documentazione eventualmente prodotta dalle parti in adempimento di un provvedimento istruttorio del giudice di appello. Deve poi ritenersi sempre ammesso anche in secondo grado, pur non essendo in senso stretto un mezzo di prova, l’interrogatorio libero delle parti31.
Un indubbio merito del Legislatore delegato è stato quello di superare, in ordine all’applicabilità del divieto dei nova, ogni distinzione tra prove costituende e prove costituite (documenti), atteso che in passato erano emerse posizioni favorevoli a una differenziazione dei regimi delle due categorie di mezzi di prova32.
Sulla scorta dei superiori rilievi può affermarsi che l’art. 104 c.p.a. ha comportato una modifica, seppure non plateale, del significato precettivo e dell’ambito di applicazione del divieto dei nova in appello.
3.1 L’attenuazione del divieto. Esigenze prevalenti
In particolare il nuovo codice del processo amministrativo, oltre ad aver opportunamente aggiornato il dato positivo, ha anche introdotto talune maggiori aperture del sistema nella direzione di un limitato superamento, in senso ampliativo, dell’effetto devolutivo. Siffatte modifiche, sebbene non macroscopiche, spiegano nondimeno dei riverberi sul versante della giustificazione razionale della regola che impedisce la deduzione, per la prima volta in appello, di nuove domande o eccezioni e di nuovi mezzi di prova precostituiti o costituendi. Evidentemente, nell’apprezzamento del Legislatore delegato, le esigenze di speditezza del giudizio e di effettività della risposta giudiziaria sono state considerate prevalenti rispetto al (parzialmente) contrapposto valore della pienezza del doppio grado di contraddittorio. Un rafforzamento di quest’ultimo principio si avverte in modo chiaro solo con riguardo alla disciplina delle eccezioni posto che la disciplina codicistica pare aver secondato l’indirizzo, più recente, dei giudici amministrativi volto a porre un limite alla precedente, ampia facoltà della pubblica amministrazione di sollevare eccezioni in appello a tutela della rilevanza degli interessi pubblici di cui è latrice33. Da questo punto di vista si registra dunque un sensibile riequilibrio nella prospettiva della parità delle parti, prescritta da plurimi parametri costituzionali34 e ora solennemente affermata anche a livello primario35.
3.2 La controversa natura dell’appello amministrativo
Il recepimento legislativo del divieto dei nova potrebbe riaprire il dibattito, mai sopito, sulla natura del giudizio amministrativo di appello. Ogni modifica del divieto incide infatti sui poteri cognitori e decisori del giudice del secondo grado e può determinare una situazione di non perfetta corrispondenza tra l’oggetto del giudizio svoltosi avanti al TAR e quello transitato in appello. Tale asimmetria tra i due gradi, seppure per certi versi ineliminabile, pone ancor oggi in tensione il rapporto tra la regola (sull’inammissibilità dei nova) e le eccezioni: tra queste un posto di indubbio rilievo occupa la previsione di motivi aggiunti in appello, di cui all’art. 104, co. 3, c.p.a.; mentre solleva problematiche teoriche di non poco momento la “valvola” dell’indispensabilità dei nuovi mezzi di prova, il cui governo è interamente rimesso alla lata discrezionalità giudiziaria. Certo è che il dilatarsi dello iato che separa il primo dal secondo grado implica una mutazione del modello di riferimento del processo di appello, da sempre oscillante tra i due estremi del novum iudicium e della revisio prioris instantiae. Ancorché l’art. 104 c.p.a. sia stato interpretato come il segno di una decisa evoluzione del processo amministrativo verso il secondo modello, rimangono tuttavia aperti degli spazi per un intervento giudiziario di tipo inquisitorio e anche per un’estensione, ad opera delle parti, del thema decidendum, spazi nei quali sembrano riaffiorare i tratti del novum iudicium. Attualmente, però, tali concessioni ai nova trovano giustificazione, non nella lacunosità del dato normativo (come era in passato), ma nella consapevole scelta legislativa di dare risposta all’esigenza, fortemente avvertita, di conferire maggiore utilità sostanziale all’esito del giudizio amministrativo nel rispetto della ragionevole durata del processo.
1 L’art. 46, co. 18, citato nel testo, ha modificato l’art. 345, co. 3, c.p.c., estendendo la previsione dell’inammissibilità anche ai nuovi documenti. Va però segnalato che l’art. 345 c.p.c. è stato novellato anche dall’art. 54, co. 1, lett. b), d.l. 22.6.2012, n. 83 (cd. “decreto sviluppo 2012”): per effetto delle modifiche introdotte dalla legge di conversione (l. 7.8.2012, n. 134) è stata eliminata la previsione della potestà giurisdizionale di acquisire, in appello, nuovi mezzi di prova o nuovi documenti ritenuti indispensabili alla decisione della causa.
2 In tema giova ricordare che anche la dottrina processualcivilistica concorda sul fatto che la regola dettata dall’art. 345, co. 3, c.p.c., sia un corollario, specificamente dettato per l’appello, del principio generale della rimessione in termini: Proto Pisani, A., La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 212.
3 Cons. St., sez. V, 18.4.2012, n. 2251.
4 Cons. St., sez. III, 14.6.2012, n. 3528.
5 V. la precedente nota 1.
6 Tra i numerosi precedenti conformi, v. Cons. St., sez. V, 1.12.2003, n. 7835.
7 Fratini, M.-Nicodemo, G.F., Commento all’art. 104, in Codice del nuovo processo amministrativo, II ed., Roma, 2011, 961.
8 Principio che, nel caso del giudizio amministrativo, si fonda sull’art. 125 Cost.
9 Cons. St., sez. IV, 22.11.2004, n. 7621. Sulla necessità che i motivi siano specifici, pur essendo l’appello un mezzo di impugnazione a critica libera: Cons. St., sez. IV, 6.3.2012, n. 1260.
10 Ex multis, Cons. St., sez. IV, 2.6.1999, n. 963.
11 Liebman, E.T., Manuale di diritto processuale civile, II, IV ed., Milano, 1984, 305; Luiso, F.P., Appello (dir. proc. civ.), in Dig. civ., I, Torino, 1987, 371.
12 Tra le molte, Cass., sez. III, 11.1.2007, n. 383.
13 Ferrari, G., Il nuovo codice del processo amministrativo, II ed., Roma, 2012, 523 s.
14 Cons. St., sez. VI, 25.9.1990, n. 842.
15 Un consolidato orientamento del Consiglio di Stato era difatti nel senso di ritenere inammissibile la domanda di risarcimento proposta per la prima volta in appello: ex multis, Cons. St., sez. VI, 22.10.2008, n. 5189.
16 Si considerino, ad es., gli artt. 30, co. 5, e 112, co. 3, c.p.a., quest’ultimo novellato dal d.lgs. 15.11.2011, n. 195.
17 C. giust. CE, sez. III, 30.9.2010, C-314/09; v. anche, tra le più recenti, Cons. St., sez. V, 12.6.2012, n. 3444.
18 Cons. St., sez. VI, 9.11.2009, n. 717 e, più recentemente, Cons. St., A.P., 29.7.2011, n. 15.
19 Cons. St., sez. V, 13.5.2011, n. 2892.
20 Tali principi sono stati evocati anche nella Relazione di accompagnamento al codice del processo amministrativo.
21 Tra le altre, Cons. St., sez. V, 16.10.2006, n. 6136.
22 Ad es. Cons. St., sez. V, 29.4.2009, n. 2728.
23 Cons. St., A.P., 9.8.2012, n. 32 ha affermato che la tardività del ricorso originario è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di appello, giacché l’art. 35 c.p.a. non pone limitazioni al riguardo.
24 Cons. St., sez. IV, 24.9.2007, n. 4924.
25 L’art. 83 c.p.a. prevede la rilevabilità d’ufficio della perenzione.
26 La rilevabilità d’ufficio, contemplata dall’art. 31, co. 4, c.p.a., è sempre consentita, sia pure nei limiti della compatibilità con il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
27 Contra Cons. St., sez. IV, 6.7.2004, n. 5016.
28 Cons. St., n. 963/1999, citata.
29 Posto che il divieto esprime una regola di ordine pubblico processuale, non disponibile dalle parti.
30 In tema, Cons. St., A.P., 29.12.2004, n. 14, peraltro richiamata, insieme alla pronuncia gemella n. 15/2004, nella Relazione di accompagnamento a supporto dell’estensione al processo amministrativo delle regole dettate dall’art. 345 c.p.c.
31 Sull’ammissibilità dell’interrogatorio libero anche nel giudizio amministrativo, v. TAR Lombardia, Milano, sez. III, ord. 6.4.2011, n. 904, in Giurisd. amm., 2011, II, 634.
32 V. Cons. St., sez. V, 23.5.2003, n. 2782.
33 In questo senso Cons. St., sez. V, 2.3.2000, n. 1086.
34 L’art. 111 Cost., ma anche gli artt. 3 e 24 Cost.
35 Art. 2, co. 1, c.p.a.