Il dissesto idrogeologico
Gli eventi naturali che si registrano senza soluzione di continuità sulla superficie terrestre, come le frane, le alluvioni, ma anche i terremoti, gli tsunami ecc., sono l’espressione finale delle complesse attività endogene ed esogene che caratterizzano il nostro pianeta. Sono proprio queste attività, del resto, che rendono ‘viva la Terra’ e che hanno creato, e continuano a rendere possibili, le condizioni favorevoli allo sviluppo e al mantenimento di tutte le forme di vita, compresa quella dell’uomo. In tal senso, non appaia contraddittoria e fuori luogo l’idea secondo la quale l’umanità dovrebbe considerare gli eventi naturali come una sorta di ‘alleati’ e non i nemici, ovvero i responsabili della distruzione di gran parte del nostro patrimonio di risorse e della morte di migliaia di donne, uomini e bambini. Lo sviluppo di una efficiente rete di comunicazione globale consente a gran parte degli abitanti del pianeta di ‘partecipare in tempo reale’, anche assistendo a immagini tragiche, agli effetti prodotti dagli eventi naturali che colpiscono la superficie terrestre. Ciò ha favorito e reso verosimile l’idea che l’aumento di danni economici, morti e feriti sia riconducibile a un incremento degli eventi naturali e non alla miope azione antropica che non riesce a comprendere l’importanza di pianificare le proprie attività secondo precisi indirizzi e criteri.
Il mondo della ricerca, attraverso la sua continua attività, mette a disposizione delle comunità, nazionali e internazionali, un patrimonio di conoscenze che consente di analizzare e di quantificare tutti i fattori che concorrono a generare i rischi naturali. È in questo contesto che si definisce la netta distinzione tra gli eventi naturali (pericolosità), i soggetti fisici e strutturali che subiscono gli eventi (vulnerabilità) e la loro dimensione economica (esposizione). Tutti gli studi sviluppati intorno al tema dei rischi naturali si prefiggono, in primo luogo, l’obiettivo di definire la previsione degli eventi, la cui conoscenza, in termini di distribuzione spazio-temporale, frequenza di accadimento e magnitudo, consente di creare le migliori condizioni per la mitigazione dei danni, attraverso lo strumento della prevenzione. Questo secondo e determinante obiettivo si realizza attraverso:
a) opportune scelte di pianificazione territoriale, ovvero con la razionale e mirata destinazione d’uso di ogni singola porzione di territorio in relazione ai livelli di pericolosità esistenti;
b) l’utilizzo di consolidate tecnologie in grado, da un lato, di conferire alle opere stesse livelli accettabili di vulnerabilità, ossia di renderle capaci di ‘resistere’ agli eventi naturali di predeterminata e nota magnitudo in relazione ai livelli di rischio esistente e, dall’altro, di attivare sistemi di allertamento e allarme finalizzati alla gestione del rischio incombente.
La prevenzione, pertanto, assume due distinte connotazioni. Nel primo caso è definita come ‘prevenzione del tempo differito’, nel secondo caso come ‘prevenzione del tempo reale’. Il ruolo giocato dai due tipi di prevenzione è profondamente diverso e implica metodologie di analisi e di applicazione totalmente differenti.
Nel corso degli ultimi decenni, le cosiddette catastrofi idrogeologiche hanno causato sempre di più distruzioni e morti in relazione alla maggiore concentrazione di popolazione e di opere, realizzate in contesti territoriali sempre più vulnerabili e ad alta pericolosità geologica. La risposta dello Stato a tale incremento di danni quasi mai ha trovato adeguato spazio su scala nazionale, fatta eccezione per iniziative umanitarie e di protezione civile legate al post-evento. È opinione comune che, a partire dalla scala nazionale, le azioni che lo Stato deve compiere, in termini di impegno economico, debbano essere improntate su un razionale equilibrio tra il post e il pre-evento. Questo impone lo spostamento di un’aliquota di risorse impiegate per fare fronte alle emergenze verso le azioni di prevenzione del tempo differito.
Ciò rappresenta sempre di più una ineludibile necessità, considerato l’effetto che i fenomeni idrogeologici producono non solo in termini sociali, ma anche in termini economici e di sviluppo. Gli effetti dei disastri naturali rappresentano un serio ostacolo allo sviluppo economico e sociale per i Paesi che via via sono colpiti da queste calamità. In particolare, per l’Italia gli effetti di questi eventi ‘consumano’ importanti risorse, valutabili in termini di parecchi punti di Prodotto interno lordo. In quasi tutti i Paesi a economia avanzata si inizia a prendere atto che per incentivare la crescita e lo sviluppo si deve prestare maggiore attenzione alle catastrofi indotte da eventi naturali e, in particolare, a quelle connesse a eventi alluvionali che generano frane e inondazioni, inserendo nelle politiche di sviluppo nazionale la programmazione delle attività pre-evento, proprio attraverso la prevenzione.
A partire dagli anni Settanta l’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) e, in particolare, l’UNDRO (Office of the United Nations Disaster Relief co-Ordinator), hanno definito un percorso analitico, semplice ma efficace, capace di condurre a una quantificazione dei rischi naturali, con l’obiettivo di ridurre l’aliquota di soggettività che tale quantificazione in genere comporta. Un impulso determinante alle conoscenze di questo importante tema è stato fornito dalla ricerca italiana al cui sviluppo hanno contribuito, a partire dalla fine degli anni Ottanta, la attività del Progetto finalizzato difesa del suolo e, successivamente, quella del Gruppo nazionale difesa catastrofi idrogeologiche (GNDCI), entrambe nate sotto l’egida del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Queste attività hanno coinvolto tutte le università e gli istituti di ricerca del nostro Paese e sono state articolate in unità operative, costruite secondo un ampio spettro di competenze che ha consentito alla comunità scientifica italiana di mettere a disposizione importanti innovazioni, ma anche di acquisire conoscenze, già ben consolidate dal formidabile lavoro della Commissione De Marchi, nata dopo l’alluvione di Firenze del 1966. È in questo quadro che nasce la l. 18 maggio 1989 nr. 183 sulla difesa del suolo.
Ciò che emerge dal complesso di conoscenze acquisite è la consapevolezza che la programmazione delle attività territoriali debba essere fondata sulla base di solide conoscenze, che trovano nell’analisi di rischio, e in particolare nella valutazione del rischio idrogeologico, l’elemento su cui poggiare le scelte programmatiche. L’analisi di rischio risponde a questa esigenza ponendo come elemento centrale della valutazione l’uomo, le sue opere e le sue attività economiche. Nella tabella sono riportate in maniera sintetica le principali definizioni dei diversi fattori che concorrono alla quantificazione del rischio idrogeologico.
La netta distinzione tra l’azione (evento naturale-pericolo) e chi subisce tale azione (soggetto connesso all’attività antropica-vulnerabile) nasce proprio dalla consapevolezza che la gestione del rischio idrogeologico possa essere ottenuta solo con il controllo delle attività antropiche. L’esame degli effetti prodotti dai grandi eventi idrogeologici (in termini di costi monetari e di perdite di vite umane) conferma come l’unico vero strumento di mitigazione del rischio sia costituito proprio dal controllo delle attività dell’uomo attraverso la prevenzione. Ma, entrati nel nuovo millennio, si coltiva ancora l’illusione che si possano evitare danni e perdite di vite controllando l’evento naturale (il pericolo) e trascurando la prevenzione del tempo differito. Attraverso questo tipo di prevenzione non si mira soltanto a misurare le caratteristiche dell’evento in termini probabilistici, ma si considera determinante la riduzione degli effetti potenziali che l’evento stesso produce, in modo da renderli compatibili con le esigenze dell’uomo e dell’ambiente (tab. 1).
Dalla lettura della tabella emerge con chiarezza come l’analisi di rischio conduca a una sua quantificazione in termini monetari. Considerando che la pericolosità e la vulnerabilità rappresentano fattori adimensionali, risulta evidente come tutte le categorie degli elementi esposti, compreso l’uomo, debbano essere oggetto di quantificazione monetaria. Una coerente lettura dei contenuti della tabella, ovvero della procedura per la valutazione del rischio naturale e soprattutto del rischio idrogeologico, apre uno scenario che consente di sviluppare un confronto tra i costi sostenuti a seguito di eventi alluvionali in termini di perdite monetarie e/o di vite umane, e i benefici che si potrebbero ottenere nel medio-lungo termine se almeno un’aliquota di tali costi postevento fosse spostata e utilizzata per le attività di prevenzione, attraverso una programmazione pluriennale. È ormai accertato che lo spostamento di risorse dal postevento verso la prevenzione del tempo differito rappresenti un investimento e non un costo (Arrow, Lind 1970; Albala-Bertrand 1993; Cohen, Werker 2008; Vorhies 2012), sia per il raggiungimento di migliori condizioni di sicurezza nei confronti delle popolazioni residenti sia per la disponibilità di nuove risorse, ottenute attraverso la minore spesa sostenuta per le emergenze.
L’inquadramento geologico del territorio italiano e la breve analisi sulla sua evoluzione geodinamica consentono di evidenziare e definire i processi in atto che portano alla genesi di eventi naturali come le alluvioni, i terremoti, i maremoti (tsunami). L’evoluzione geologica della penisola italiana è il risultato di complesse e articolate azioni geodinamiche che hanno interessato tutto il nostro pianeta.
Posta nella parte centrale dell’area mediterranea, l’Italia è stata ‘sottoposta’ all’interazione dei margini di due placche, quella europea e quella africana, i cui movimenti, ancora in atto, hanno avuto a partire dal Paleozoico (570 milioni di anni fa) e, successivamente, nel Mesozoico (245 milioni di anni fa) e nel Cenozoico (65 milioni di anni fa), differenti direttrici. Più in generale, per inquadrare la storia geologica che ha portato alla formazione della nostra penisola è necessario partire dalla fine del Paleozoico (ca. 245 milioni di anni fa), quando la paleogeografia terrestre era caratterizzata da un continente piuttosto esteso, la Pangea, circondato da un unico e vastissimo oceano, denominato Pantalassa, antenato dell’Oceano Pacifico. Una parte di questo oceano, chiamato Tetide, penetrava nel settore orientale della Pangea, formando un ampio golfo che si apriva verso Oriente dove si depositarono parte dei sedimenti che troviamo affioranti in alcune regioni italiane come la Sardegna e le Alpi meridionali, ma anche la Calabria.
Circa 200 milioni di anni fa, con l’inizio dell’Era Mesozoica, il continente Pangea cominciò a frammentarsi e si formarono dei blocchi continentali che iniziarono ad allontanarsi l’uno dall’altro. Tale frammentazione fu preceduta dalla genesi di grandi spaccature (rifts), dalle quali fuoriuscirono ingenti volumi di lava e di altri prodotti vulcanici i cui resti sono visibili lungo le coste atlantiche del Nord America. Con l’allontanamento reciproco dei continenti e con il parziale sprofondamento dei loro margini, si realizzò un processo di sommersione di questi ultimi su cui si depositarono potenti spessori di sedimenti marini. Nel corso del Mesozoico continuò la frammentazione della Pangea e circa 150 milioni di anni fa, sebbene tale frammentazione fosse allo stato iniziale, si era già aperto l’Atlantico centrale con la conseguente riduzione in ampiezza dell’Oceano Tetide.
Due grandi blocchi continentali si erano formati: quello settentrionale, denominato Laurasia, comprendente l’America Settentrionale, l’Europa, la Russia, la Cina e l’Asia sudorientale; quello meridionale, denominato Gondwana, che comprendeva l’Africa, l’America Meridionale, l’India, l’Australia e l’Antartide. L’allontanamento dei continenti determinò il progressivo assottigliamento della crosta continentale e, nei settori più profondi del bacino, si formarono profonde fessure, allineate a formare una dorsale da cui fuoriuscirono grandi quantità di lave basaltiche. La dorsale oceanica che si era andata sviluppando aveva un decorso all’incirca NE-SO e segnava l’asse sia dell’Oceano Atlantico centrale sia dell’Oceano ligure-piemontese (fig. 1).
Mentre nei settori più profondi di questo bacino si depositavano sedimenti argillosi con resti di organismi marini pelagici che in Italia affiorano nell’Appennino tosco-ligure-emiliano, in quello campano-lucano e nelle Alpi occidentali, nei settori poco profondi e marginali, le condizioni bioclimatiche consentirono lo sviluppo di diverse piattaforme carbonatiche. In Italia sono conosciute a Nord le piattaforme veneta e friulana (Dolomiti), mentre al Centro-Sud abbiamo le piattaforme laziale-abruzzese, campano-lucana e pugliese che mostrano spesso caratteri simili ad alcune di quelle attuali come, per es., la piattaforma delle Bahamas. Buona parte di queste strutture erano inoltre separate da bacini più o meno profondi, sedi di una sedimentazione pelagica, le cui rocce (essenzialmente calcari marnosi, marne, argille e selci) affiorano nelle Prealpi lombarde e nell’Appennino umbro-marchigiano. L’espansione dell’Oceano ligure-piemontese ebbe termine circa 100 milioni di anni fa, allorché il continente africano, con la progressiva apertura dell’Atlantico meridionale, iniziò a migrare verso l’Eurasia. A seguito di questo processo, iniziato durante il Cretacico, la crosta oceanica che separava i due continenti venne consumata all’interno di quella che i geologi chiamano zona di subduzione, e si innescò un processo di collisione continentale che coinvolse le successioni sedimentarie che si erano deposte su entrambi i margini del bacino oceanico.
Il processo di collisione, attivo durante l’Eocene (ca. 50 milioni di anni fa), portò alla progressiva frantumazione delle rocce crostali e di copertura e alla generazione di grandi falde di ricoprimento, come quelle che caratterizzano la catena alpina. Le Alpi, infatti, furono la prima catena a formarsi a seguito del processo di subduzione verso est e sud-est della placca europea al di sotto della microplacca adriatica (Adria), che rappresentò la porzione più avanzata e staccata, verso nord, della grande placca africana. In questa fase del processo le falde alpine, muovendosi verso la zona più stabile europea (avampaese), si ‘accatastarono’ al di sopra del margine continentale andando così a formare lo spesso edificio a falde che costituisce la struttura delle Alpi.
Contestualmente al sollevamento delle Alpi iniziò la deformazione del margine africano-adriatico e, a partire dall’Oligocene (ca. 30 milioni di anni fa), la subduzione alpina verso est venne gradualmente sostituita dalla subduzione verso ovest della microplacca adriatica; tale processo fu il diretto responsabile della formazione della catena appenninica. Le due catene, alpina e appenninica, sono saldate lungo un lineamento geologico conosciuto con il nome di lineamento insubrico che passa per la Val Pusteria, continua in Valtellina e poi, piegando verso sud, raggiunge il Mar Tirreno sul cui fondo proseguono le due catene.
Alla fase di collisione si sono sovrapposti successivamente altri processi; tra questi il distacco di un frammento del margine europeo circa 20 milioni di anni fa che, ruotando in senso antiorario (fenomeno noto in geologia come ‘sfenocasma ligure’), ha dato luogo alla formazione del massiccio sardo-corso e conseguentemente alle due isole, e alla migrazione verso sud-est dell’arco calabro-peloritano (fig. 2). Questa porzione della penisola è considerata un frammento di catena alpina che è andato migrando, in questa direzione, in connessione all’apertura del bacino tirrenico, il cui inizio è datato ca. 7-8 milioni di anni fa, a seguito dell’assottigliamento della crosta continentale a est del massiccio sardo-corso. Il Mar Tirreno riveste un notevole interesse nel quadro dell’evoluzione geodinamica dell’area italiana. Esso, infatti, è risultato, dagli studi più recenti, come un unico bacino di ‘retroarco’ connesso con il processo della subduzione appenninica; è inoltre internamente suddiviso in una serie di bacini più piccoli con diversa batimetria il cui substrato è costituito da grandi spessori di lave basaltiche la cui età è più giovane man mano che ci si sposta dalla Sardegna verso la Calabria, tanto che il suo settore sudorientale ha un’età di appena due milioni di anni. Il bacino del Marsili, con una profondità di 3500 m, rappresenta la porzione ‘oceanizzata’ più recente del Mar Tirreno al cui interno si colloca il vulcano omonimo, che si estende in direzione nord-sud. Altri vulcani sottomarini sono il Magnaghi, il Vavilov e il Palinuro.
I caratteri litologici della penisola italiana sono il risultato della sua evoluzione geodinamica, che ha prodotto un assetto morfostrutturale piuttosto complesso e caratterizzato da forte instabilità che trae origine dalla elevata energia di rilievo connessa al rapido sollevamento sia delle Alpi sia degli Appennini. In tale quadro, le formazioni rocciose presenti, definite in relazione alla loro genesi, possono essere distinte in tre grandi associazioni: le formazioni sedimentarie, le formazioni cristalline (rocce magmatiche intrusive e metamorfiche) e le formazioni vulcaniche. Le rocce sedimentarie più antiche, di età paleozoica, risalenti a oltre 250 milioni di anni fa, sono rappresentate in prevalenza da rocce clastiche, arenarie e conglomerati, di ambiente continentale a cui si associano spesso depositi vulcanoclastici. Nel Triassico e nel Giurassico (tra i 250 e i 150 milioni di anni fa) le formazioni sedimentarie più abbondanti sono rappresentate da rocce carbonatiche di genesi marina, generalmente calcari e calcari marnosi, localmente con abbondante presenza di noduli di silice (selce), che risultano piuttosto differenziate in relazione ai diversi contesti deposizionali.
Con la fine del Mesozoico e per gran parte del Cenozoico (da ca. 65 a 6-7 milioni di anni fa), le rocce clastiche risultano nuovamente ben rappresentate: si tratta essenzialmente di sedimenti arenaceo-conglomeratici, arenacei e marnoso-argillosi conosciuti anche con il nome di torbidititi (rocce deposte da correnti di densità, genericamente note come correnti di torbida), che si sono deposti in bacini marini profondi caratterizzati dalla presenza di scarpate variamente inclinate. Le successioni sedimentarie che ne sono derivate, conosciute anche con il nome di flysch, formano parte dell’ossatura della penisola italiana, dal momento che gran parte degli Appennini sono costituiti da questo tipo di rocce. Si differenziano sensibilmente da tale composizione alcuni settori come l’Appennino centrale e le Alpi meridionali dove, invece, prevalgono le rocce carbonatiche.
Durante il Messiniano (Miocene superiore), lungo tutta la nostra penisola, si stabilirono condizioni climatiche che favorirono la formazione di sedimenti evaporatici, con la presenza di minerali come il Gesso, l’Anidrite, il Salgemma. La genesi di questi depositi interessa non solo l’Italia, ma diversi Paesi dell’area mediterranea. Fattori climatici, unitamente a un evento geologico di notevole rilevanza, la chiusura dello stretto di Gibilterra che causò l’interruzione del collegamento tra l’Atlantico e il Mediterraneo, determinarono, infatti, le condizioni per la formazione di potenti spessori di depositi evaporatici, piuttosto estesi sia nell’Appennino settentrionale sia in Sicilia. Successivamente con il Pliocene si ristabilirono nuovamente le normali condizioni di sedimentazione marina, che continuò anche nel Quaternario, con la deposizione di sedimenti clastici argillosi, sabbiosi e ghiaiosi di ambiente marino alternati con quelli di ambiente continentale. Tutte le formazioni sedimentarie sopra descritte formano una copertura che ricopre gran parte delle formazioni cristalline, rappresentate da rocce ignee intrusive e metamorfiche che ne costituiscono quindi il basamento. A esse appartengono settori di crosta continentale facenti parte sia della placca europea (Sardegna), sia della placca africana (Alpi meridionali e Toscana). Alle formazioni cristalline presenti nell’arco alpino appartengono inoltre i massicci intrusivi, la cui messa in posto avvenne durante le fasi deformative della catena alpina nel Cenozoico, ma anche in una fase precedente, durante il Paleozoico e il Triassico. Le formazioni vulcaniche si rinvengono in diversi momenti della storia geologia della penisola italiana. Tuttavia, è soprattutto nel Cenozoico e, più in particolare, a partire dal Neogene che esse risultano largamente rappresentate raggiungendo, durante il Quaternario, un intenso sviluppo con rocce rappresentate da basalti, daciti, andesiti, rioliti, latiti, trachiti, fonoliti leucititiche, leuciti e così via. Le province vulcaniche cenozoiche in Italia mostrano differenti affinità magmatiche che sono state messe in relazione con l’evoluzione del mantello e con la dinamica delle placche che caratterizza il Mediterraneo centro-occidentale. In quest’ottica sono state distinte due principali associazioni tectono-magmatiche (L. Beccaluva, G. Bianchini, M. Wilson, Cenozoic volcanism in the Mediterranean area, 2007; M. Lustrino, M. Wilson, Circum-Mediterranean anorogenic Cenozoic igneous province, «Earth-Science reviews», 2007, 81, pp.1-65; M. Lustrino, S. Duggen, C. Rosenberg, The central-western Mediterranean: anomalous igneous activity in an anomalous collisional tectonic setting, «Earth-Science reviews», 2011, 104, pp.1-40): un’associazione orogenica, connessa con i processi di subduzione a cui appartiene il vulcanismo oligocenico-miocenico della Sardegna, la provincia magmatica romana e l’arco delle Eolie di età quaternaria; un’associazione anorogenica di intraplacca, a cui invece appartengono la provincia vulcanica veneta di età eocenico-oligocenica, quella sarda di età pliocenico-quaternaria e il distretto dell’Etna-Iblei-canale di Sicilia di età tardo miocenica-attuale.
Il quadro geologico evolutivo descritto testimonia come la penisola italiana sia caratterizzata da una elevata complessità strutturale e, soprattutto, abbia una età geologica molto ‘giovane’. Ciò comporta che i processi morfo-evolutivi siano ancora attivi, determinando una continua competizione tra le forze endogene che producono instabilità, come i sollevamenti orogenetici, responsabili delle forti energie di rilievo, e quelle esogene che tendono a ristabilire l’equilibrio perduto attraverso un’azione di ‘demolizione’ delle strutture poste a quote più elevate. La netta prevalenza delle forze endogene rispetto all’azione delle forze esogene, soprattutto lungo la dorsale appenninica, ma anche nel versante alpino, genera quindi una condizione di continuo disequilibrio del territorio che, interagendo con le particolari condizioni climatiche, produce, tra l’altro, eventi alluvionali con la genesi di esondazione dei corsi d’acqua, erosione e frane. L’incidenza di questi eventi sul tessuto economico-sociale ha da sempre favorito la produzione di documenti, relazioni e report, non solo a opera di specialisti, ma anche di giornalisti e storici, che hanno contribuito ad arricchire biblioteche e archivi. In tempi più recenti i dati di archivio sono stati integrati con specifici studi sugli eventi avvenuti sul territorio nazionale.
Significativa è l’iniziativa del Ministero dei Lavori pubblici che negli anni Sessanta ha avviato ricerche su frane e alluvioni. Successivamente, attraverso importanti finanziamenti dello Stato, sono stati sviluppati dal mondo della ricerca e accademico progetti finalizzati all’obiettivo non solo di produrre nuove metodologie di valutazione del rischio, ma anche di creare archivi e banche dati attraverso la selezione e l’analisi dei numerosi dati disponibili. È in tale ambito che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, lo Stato, attraverso il CNR, ha lanciato i progetti finalizzati alla difesa del suolo e, successivamente, ha istituito il Gruppo nazionale della difesa dalle catastrofi idrogeologiche (GNDCI-CNR), sviluppando tra l’altro il progetto AVI (Aree Vulnerate Italiane) per il censimento completo delle aree storicamente interessate da frane e inondazioni, fra il 1918 e il 1990. Quest’ultimo progetto ha acquisito oltre 22.000 informazioni inerenti fenomeni di frana e oltre 7500 relative a inondazioni. Le informazioni si riferiscono a oltre 30.500 località colpite da eventi idrogeologici. Nel 1992 il Servizio geologico d’Italia ha pubblicato un’importante ricerca sul dissesto idrogeologico nel nostro Paese contenente dati dal 1945 al 1990 (Catenacci 1992). L’archivio del Progetto GIANO, realizzato dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) e da Sistemi di gestione ambientale (SGA), contiene oltre 350 dati relativi a eventi di frana e oltre 750 relativi a eventi d’inondazione avvenuti nel 18° e 19° secolo. Di notevole portata è il progetto IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia), realizzato dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT) di concerto con le regioni e le province autonome e con il concorso delle regioni e delle Autorità di bacino. Fondamentale per la costruzione di una banca dati a diffusione nazionale è l’analisi dei dati tratti dai Piani d’assetto idrogeologico (PAI), messi a disposizione delle Autorità di bacino (fig. 3) sia di livello nazionale sia interregionale e regionale: le Autorità di bacino sono state istituite con la l. 183 del 1989, a seguito degli studi fatti dalla Commissione De Marchi. Tuttavia, la loro effettiva operatività è da connettere all’impulso dato dal d.l. 11 giugno 1998 nr. 180, emanato dopo l’alluvione di Sarno-Quindici del maggio 1998. La loro posizione e la loro distribuzione sul territorio nazionale è stata costruita in funzione dei bacini idrografi e prescinde, per quanto possibile, dai limiti amministrativi, privilegiando invece le condizioni fisiografiche del territorio. Le Autorità di bacino di rilievo nazionale sono: Autorità di bacino dei fiumi Isonzo, Tagliamento, Livenza, Piave, Brenta-Bacchiglione; Autorità di bacino del fiume Adige; Autorità di bacino del fiume Po; Autorità di bacino del fiume Arno; Autorità di bacino del fiume Tevere; Autorità di bacino dei fiumi Liri-Garigliano e Volturno; Autorità di bacino del fiume Serchio (con funzione di bacino pilota).
Le Autorità di bacino di rilievo interregionale (buona parte di questi bacini sono stati, con atti successivi, accorpati al bacino regionale limitrofo) sono: Autorità di bacino interregionale dei fiumi Fissero, Tartaro, Canalbianco; Autorità di bacino interregionale del fiume Lemene; Autorità di bacino interregionale del fiume Magra; Autorità di bacino interregionale del fiume Fiora; Autorità di bacino interregionale dei fiumi Marecchia-Conca; Autorità di bacino interregionale del fiume Reno; Autorità di bacino interregionale del fiume Tronto; Autorità di bacino interregionale del fiume Sangro; Autorità di bacino interregionale della Puglia; Autorità di bacino interregionale del fiume Sele; Autorità di bacino interregionale dei fiumi Trigno, Biferno e Minori, Saccione e Fortore; Autorità di bacino interregionale della Basilicata; Autorità di bacino interregionale del fiume Lao. Le Autorità di bacino di rilievo regionale sono: Autorità di bacino regionale dell’Abruzzo; Autorità di bacino regionale della Calabria; Autorità di bacino regionale del fiume Sarno in Campania; Autorità di bacino regionale nordoccidentale della Campania; Autorità di bacino regionale sinistra Sele e Autorità di bacino regionale destra Sele in Campania; Autorità dei bacini regionali romagnoli; Autorità di bacino regionale del Friuli Venezia Giulia; Autorità di bacino regionale del Lazio; Autorità dei bacini della Liguria; Autorità di bacino regionale delle Marche; Autorità di bacino regionale della Sardegna; Autorità di bacino regionale della Sicilia; in Toscana Autorità di bacino regionale Ombrone; Autorità di bacino regionale Toscana Costa; Autorità di bacino regionale Toscana Nord; Autorità di bacino regionale del Veneto.
L’archivio delle notizie su inondazioni, piene torrentizie e frane estratte dai giornali valtellinesi per il periodo 1861-1991, realizzato dal CNR-IRPI (Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica) di Torino, contiene oltre 630 riferimenti bibliografici relativi a circa 3000 notizie di eventi. Importante è il contributo di conoscenza fornito dalle elaborazioni dei dati AVI e dalla creazione del Sistema informativo sulle catastrofi idrogeologiche (SICI) dell’IRPI di Perugia (Guzzetti, Tonelli 2004). Va inoltre citato lo studio commissionato dal Consiglio nazionale dei geologi nel 2010 al Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio (CRESME) sullo stato del territorio e dell’ambiente. A partire dal 2014, la responsabilità di produzione dei documenti di pericolosità, e quindi di acquisizione e aggiornamento dati è demandata fondamentalmente ai Distretti idrografici (DI), nati attraverso l’accorpamento e la ridistribuzione delle Autorità di bacino a seguito della direttiva quadro sulle acque 2000/60/CE. Gli otto distretti idrografici (fig. 4) sono stati istituiti con d.l. 3 apr. 2006 nr. 152 e a essi sono stati aggiunti, per ragioni amministrative, il 9, il 10 e l’11: Distretto idrografico Alpi orientali; Distretto Appennino centrale; Distretto Appennino meridionale; Distretto Appennino settentrionale; Distretto pilota del Serchio; Distretto idrografico padano; Distretto della Sardegna; Distretto della Sicilia; Tributario del Danubio; Tributario dell’Inn; Tributario del Reno. In attesa della piena operatività delle Autorità di distretto, il d.l. 30 dic. 2008 nr. 208 convertito con modificazioni in l. 27 febbr. 2009 nr. 13 demanda l’adozione dei piani di gestione ai Comitati istituzionali delle ‘vecchie’ Autorità di bacino di rilievo nazionale, integrati dai componenti designati dalle regioni il cui territorio ricade nel distretto a cui si riferisce il piano. Grazie al complesso dei documenti acquisiti è possibile definire con buona attendibilità la distribuzione degli eventi che storicamente hanno interessato il territorio nazionale, con significative indicazioni sui costi sostenuti per la gestione del postevento. Ciò consente di quantificare il ruolo del dissesto idrogeologico sul tessuto sociale ed economico. Le documentazioni storiche degli eventi alluvionali e di frana, accompagnate da immagini e filmati, sono quindi lo specchio della realtà fisica della nostra penisola.
In Italia, al 2012, sono stati censiti complessivamente 482.508 eventi alluvionali che hanno generato frane, esondazioni, colate di fango e/o di detrito. La genesi, la dinamica e, in particolare, gli effetti che questi eventi producono sul territorio rende difficile una netta distinzione tra i fenomeni di frana e di esondazione, soprattutto per i dati meno recenti, tratti da archivi storici o emeroteche, come è dimostrato dalle banche dati utilizzate. Buona parte dei casi censiti, infatti, è il risultato di eventi alluvionali che hanno generato sia frane sia esondazioni. Se si analizzano solo gli eventi che hanno prodotto danni e vittime e, in particolare, le colate di fango o di detrito, emerge con maggiore chiarezza la difficile distinzione tra i due fenomeni che caratterizzano il rischio idrogeologico. Gli eventi di Stava (1985), Versilia (1996), Sarno (1998) o Messina (2009) sono da assumere, in tal senso, come esempi capaci di spiegare questo aspetto.
La superficie complessivamente interessata da eventi idrogeologici censiti è di circa 20.591 km2, pari al 6,7% del territorio nazionale. In figura 5 è riportato l’Indice di evento totale (IET%), espresso come rapporto tra area interessata da eventi sull’area totale regionale. L’analisi dell’indice di evento totale, molto articolato su base regionale, mostra come la sua distribuzione non sia solo funzione dell’assetto geologico-geomorfologico-climatico, ma anche di altri fattori, come quello economico-sociale, che è connesso alla capacità di stima e costruzione degli archivi da parte degli enti locali e regionali nonché dalle strutture di ricerca pubbliche e private coinvolte. Il valore di IET attribuito alle regioni Piemonte (10,0%), Lombardia (13,9%), Emilia-Romagna (11,2%), Marche (20,2%), Molise (14,0%), Valle d’Aosta (16,0%), Abruzzo (11,5%) risulta superiore alla media nazionale (6,7%). Ciò non trova completa giustificazione dal confronto tra l’assetto geologico-geomorfologico-climatico presente e la percentuale di area in frana, rispetto ad altre regioni, come la Sicilia, la Campania, la Calabria, la Basilicata, il Friuli Venezia Giulia e il Veneto, dove lo IET assume valori prossimi o inferiori alla media nazionale. Dalle conoscenze acquisite e condivise, questo dato appare non coerente con le caratteristiche fisico-climatiche di questi territori, dove le condizioni sono considerate, viceversa, fattori che favoriscono la genesi di eventi di frana e di esondazione. Per una migliore rappresentazione regionale della distribuzione degli eventi sono stati enucleati, dal contesto nazionale, solo quei fenomeni che hanno prodotto danni e/o vittime. Dalla banca dati risultano 62.957 eventi con danno, pari al 13,05% degli eventi totali censiti.
In figura 6 sono riportati i risultati ottenuti da questa elaborazione. Si evince come la distribuzione dei dati sui territori regionali, espressa come numero di Eventi con danno per 100 km2 (ED/100km2), mostri una più adeguata coerenza con le condizioni geologico-climatiche della penisola. In particolare, le regioni Sicilia (12,57 ED/100km2), Campania (38,78 ED/100km2), Calabria (33,43 ED/100km2), Basilicata (37,82 ED/100km2), Friuli Venezia Giulia (25,41 ED/100km2), Veneto (37,19 ED/100 km2) presentano valori che si pongono in prossimità o al di sopra della media nazionale (20,42 ED/100km2). Una conferma dei dati riportati in figura 6, è stata ottenuta dal confronto tra gli eventi con danno (ED) e quelli totali censiti (ET). La figura 7 mostra i risultati, espressi in percentuale, ottenuti per ogni regione.
La media nazionale del 13,05% e il confronto con i dati regionali conferma quanto sopra affermato e indica che per Sicilia, Calabria, Abruzzo, Campania, Veneto, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Veneto gli eventi totali censiti sono da considerare sottostimati. Per queste regioni si pone quindi il problema di rendere omogenee le loro banche dati con il resto del territorio italiano. Il dato relativo alla Puglia è poco significativo a causa delle particolari condizioni geologiche e geomorfologiche, caratterizzate da vaste aree tabulari con affioramento di rocce carbonati che, con pochi fenomeni di frana e/o inondazione, modificano il rapporto riportato in figura 7.
Il progressivo aumento dei danni e delle vittime che si registrano a seguito degli eventi alluvionali nel nostro Paese impone una riflessione, soprattutto quando si discutono le cause di tale aumento. La diffusa sensazione riscontrata, che trae alimento anche dai media, tende ad attribuire alle condizioni climatiche, ovvero al loro recente e repentino cambiamento, il crescente livello di questi danni.
La resa, o la rassegnazione, delle popolazioni a tutto ciò deve essere fonte di preoccupazione perché potrebbe attenuare la spinta verso quella che, viceversa, è ritenuta la soluzione: la prevenzione. L’eccessiva semplificazione del problema, infatti, tende a rappresentare questo fenomeno con l’equazione ‘modificazione del regime e dell’intensità degli eventi pluviometrici = modificazione del rischio idrogeologico’, attribuendo, di fatto, ai cosiddetti sconvolgimenti climatici una diretta responsabilità dell’aumento di danni economici e perdite di vite umane.
A fronte di queste pericolose ipotesi è doveroso ricordare che la comunità scientifica internazionale nel definire il rischio, ossia il costo dei danni e/o delle perdite di vita connessi a eventi naturali (fig. 7), ha costruito un percorso analitico chiaro e di facile lettura. Il costo dei danni causati da eventi naturali è il prodotto di più fattori, ovvero il risultato dell’interazione tra gli eventi naturali e la presenza sul territorio di soggetti connessi all’attività antropica, come opere, infrastrutture, attività economiche ecc. in assenza dei quali il rischio, ossia il danno, è sempre nullo. Per meglio chiarire questo aspetto, a titolo esemplificativo, sono stati esaminati i dati relativi a due aree, Genova e Messina, note per essere interessate periodicamente da catastrofi idrogeologiche di particolare gravità. È stata esaminata la distribuzione delle piogge in corrispondenza delle quali si sono avuti gravi danni e vittime per Genova e Messina (figg. 8 e 9). L’analisi dei dati mostra, per l’ampio intervallo di tempo considerato, una sequenza senza alcuna variabilità statistica significativa. In sostanza, i dati indicano che per ogni evento considerato i volumi di pioggia caduta nelle dodici ore e l’intensità della pioggia stessa oscillano entro limiti ritenuti coerenti con la sequenza stessa.
Viceversa, l’esame dei danni e delle vittime di questi eventi mostra una forte discontinuità nel tempo. Il loro aumento non può essere quindi correlato agli eventi di pioggia, ma deve necessariamente essere riferito all’altro fattore del rischio: quello antropico. I gravi danni che periodicamente si registrano nelle due località di riferimento trovano nelle attività antropiche specifiche cause. Per Genova, lo sviluppo della città ha comportato nel tempo uno sconvolgimento della naturale rete idrografica. In particolare, l’espansione della città ha via via incluso nel tessuto urbano le vie naturali di scorrimento delle acque meteoriche, modificando la rete idrografica naturale, come, per es., la copertura (tombamento) nel 1928 del torrente Bisagno e del Rio Fereggiano. Le scene di grande impatto che circolano sulla rete web e televisiva, o riportate dai giornali, con le strade trasformate in fiumi e la sommersione dei fabbricati posti a quote inferiori al piano stradale, sono il risultato di queste gravi modificazioni e non dovute all’eccesso di pioggia, come spesso è riportato dal sistema informativo.
Analoga considerazione può essere fatta per Messina, dove a partire dagli anni Cinquanta lo sviluppo urbano è avvenuto in modo disordinato e senza tener conto delle realtà geomorfologiche e climatiche. Tutta la fascia costiera della Calabria tirrenica, a partire da Bagnara Calabra, e l’area dello Stretto tra Messina e Catania è interessata da sistematici eventi (A. Prestininzi, L’illusione dei cambiamenti climatici e le responsabilità verso le nuove generazioni per la mancata prevenzione dei rischi, «Italian journal of engineering geology and environment», 2011, 2, pp. 3-4) con danni gravi, anche alle infrastrutture. La figura 10a mostra gli effetti prodotti dalle colate di fango che, nel 2005, hanno provocato il deragliamento del treno regionale passeggeri e interrotto la strada statale 118, presso Scilla nei dintorni dell’abitato di Favazzina. La figura 10b inquadra il tratto costiero tra le foci dei torrenti Racinazzo e Divieto, e parte della spiaggia, presso Scaletta Marina (Messina), il giorno dopo l’alluvione del 1o ottobre 2009. Queste zone di competenza fluviale sono state trasformate in aree residenziali e sono proprio i luoghi dove sono stati registrati i maggiori danni a persone e cose. Da ciò emerge con chiarezza come, per la realizzazione delle opere o per la costruzione di residenze, i criteri di scelta utilizzati nel nostro Paese quasi mai abbiano seguito quanto previsto dalla normativa, ma siano il risultato di azioni ‘spontanee’ in evidente contrasto con i caratteri di pericolosità naturale presenti.
Queste condizioni sono presenti in molte regioni italiane e gli esempi di Genova e Messina, ma anche di Sarno, delle Cinque Terre, di Soverato o del Piemonte, sono del tutto sovrapponibili per dinamica e disordine urbano. In queste aree si è registrato un drastico cambiamento delle dinamiche antropiche, soprattutto a partire dal dopoguerra, in relazione alla progressiva crescita demografica e alla conseguente richiesta di nuove residenze e nuove aree da destinare alle attività industriali e artigianali produttive. Tutto ciò è avvenuto senza un’adeguata pianificazione territoriale e sotto la continua spinta a ‘occupare’ tali aree, spesso note per la loro elevata pericolosità geologica.
Di fronte a tale spinta il sistema politico-amministrativo non ha dato il giusto indirizzo, come del resto veniva chiaramente indicato nel poderoso lavoro della commissione De Marchi, né applicato le necessarie contromisure. Continui condoni edilizi relativi a opere abusive realizzate in aree geologicamente non idonee, la complicità e l’indifferenza nel veder sorgere nuovi insediamenti, la creazione di infrastrutture senza una corretta pianificazione territoriale, l’occupazione sistematica di aree golenali esondabili utilizzate per espansione sia urbana sia industriale, le profonde modificazioni del sistema idrografico in aree urbane come quelle ricordate per Messina e Genova: sono questi i fattori responsabili dell’aumento del rischio idrogeologico dagli anni Cinquanta in poi.
Sulla base dei dati riportati da Fausto Guzzetti e Gabriele Tonelli (2004), aggiornati per l’intervallo 2008-12 con quelli forniti dal Centro di ricerca previsione, prevenzione e controllo dei rischi geologici (CERI) dell’Università La Sapienza di Roma e dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), i morti e i feriti a causa di eventi alluvionali, frane e/o esondazioni, tra il 1950 e il 2012 sono stati rispettivamente 4141 e 2065. Per l’intervallo di tempo 1900-49 i morti e i feriti erano stati, rispettivamente, 1949 e 406. A questi sono da aggiungere centinaia di migliaia di sfollati e senza tetto. Questi dati sono un’ulteriore conferma della forte crescita del rischio, le cui cause, come sopra ricordato, sono da ricondurre in prevalenza alle gravi carenze di una corretta pianificazione territoriale.
Accanto a questi tragici numeri è importante valutare i costi sostenuti dallo Stato e dalle regioni per gli interventi di emergenza post-evento e, quasi sempre, di ricostruzione. Sono pertanto costi che possono essere addebitati alla mancata prevenzione. Al riguardo giova ricordare che sono stati molti i provvedimenti legislativi, a partire dalla l. 9 luglio 1908 nr. 445 e passando per la l. 27 dic. 1953 nr. 938 e la l. 9 apr. 1955 nr. 279, che hanno assegnato risorse per lo studio dei centri abitati instabili e per il loro spostamento, provvedimenti questi che raramente hanno trovato concreta applicazione. Il grafico di figura 11 mostra l’andamento dei costi sostenuti dal 1910 al 2012 per interventi emergenziali a seguito di alluvioni, per frane, erosione ed esondazioni. I dati riportati sono ampiamente sottostimati, non comprendendo le risorse, forse mai assegnate, per i danni avvenuti nei periodi bellici, relative alla Prima e alla Seconda guerra mondiale. Questi dati non risultano infatti disponibili e, per quelli noti, le informazioni sono incerte e poco sicure. Si evince dunque che nell’intervallo di tempo 1910-2012 il costo medio sostenuto per le cosiddette catastrofi idrogeologiche è stato di 730 milioni di euro/anno. Se, viceversa, si considera l’intervallo 1987-2012, il costo medio sale a 1263 milioni di euro/anno, confermando quanto emerso per morti, feriti e dispersi, ovvero la significativa tendenza all’incremento negli ultimi decenni. Appare abbastanza chiaro che una politica di mitigazione dei rischi e, in particolare del rischio idrogeologico, debba essere ancorata a solide basi incentrate sulla ricerca e sulla conoscenza.
Nel campo della gestione dei rischi naturali le attività di prevenzione viaggiano su due diverse linee, tra loro distinte per finalità, metodologie e modalità operative: la linea della prevenzione del tempo reale e la linea della prevenzione del tempo differito. Per una certa area, definito il livello di pericolosità (frana, inondazione ecc.) e accertata la presenza in quell’area di uno o più elementi a rischio (fabbricato, struttura strategica, infrastruttura, attività economica ecc.), la prevenzione del tempo reale si occupa della gestione e mitigazione del rischio ‘incombente’, cioè della sicurezza dei residenti che si trovano a convivere con i fenomeni di frana o inondazione certi e non probabili. L’obiettivo pertanto è quello di gestire la salvaguardia della vita umana attraverso l’evacuazione e/o la delocalizzazione dei residenti, utilizzando sistemi di monitoraggio, con preallertamento e/o allarme. Appartiene alla prevenzione del tempo reale anche tutta la gestione delle emergenze. Queste attività, insieme al controllo del post-evento, sono affidate alla Protezione civile, nazionale, regionale e locale e, in linea generale, hanno come finalità la salvaguardia non delle cose ma della vita umana, compreso il sostegno logistico e sanitario alle popolazioni che subiscono danni da questi eventi. La prevenzione del tempo differito ha, viceversa, il compito di programmare le attività antropiche, coinvolgendo in questa attività: lo Stato cui spetta il ruolo di indirizzo generale; le regioni che hanno il compito di legiferare e programmare le attività territoriali; i comuni che devono definire la destinazione d’uso del territorio attraverso il loro piano regolatore generale.
Lo sviluppo di questa attività deve partire dalla conoscenza di uno dei fattori del rischio: la pericolosità, che rappresenta la misura in termini probabilistici degli eventi di frana e di inondazione che possono interessare una determinata area. Dall’entrata in vigore della l. nr. 183 del 1989 sulla difesa del suolo, il compito di definire la pericolosità spetta alle Autorità di bacino. Per ogni bacino idrografico esse devono redigere e aggiornare periodicamente i PAI, documenti di pericolosità idrogeologica che definiscono la probabilità di evento e la relativa intensità. È sulla base di questi documenti che devono essere programmate le scelte urbanistiche, infrastrutturali e, in generale, di gestione del territorio. I PAI sono pubblicati sulla Gazzetta ufficiale dello Stato (dal 2014 tale compito viene svolto dalle Autorità di distretto) e assumono il rango di leggi ‘sovraordinate’. Ciò comporta che tutte le scelte di pianificazione regionale e comunale devono essere prese in relazione ai livelli di pericolosità riportate nei PAI. L’obiettivo fondamentale è quello di operare scelte, per realizzare opere, infrastrutture e attività economiche, compatibili con i livelli di pericolosità, assicurando che i sistemi antropici che si vanno a creare abbiano una vulnerabilità tale da generare rischi ritenuti accettabili, per le persone e le cose.
Risulta chiaro come gli obiettivi e i metodi utilizzati siano molto diversi tra le due linee della prevenzione. La prevenzione del tempo reale rivolge la propria attenzione alle popolazioni che vivono in quelle porzioni di territorio ove le opere e le strutture sono state realizzate in passato, quando è ragionevole ipotizzare l’assenza della necessaria programmazione, mentre la prevenzione del tempo differito dovrebbe essere applicata a tutte le aree non ancora urbanizzate e/o a nuove opere. Ma, nonostante il mondo della ricerca continui a mettere a disposizione nuove conoscenze e tecnologie innovative, l’attività di prevenzione, soprattutto quella del tempo differito, stenta ad assumere un ruolo centrale nella gestione del territorio. Se nel nostro Paese, geologicamente giovane e con livelli di pericolosità geologica, come frane, inondazione e terremoti, tra i più alti del mondo, la prevenzione continua a non occupare un ruolo centrale nelle azioni dello Stato, i costi e le vittime di eventi idrogeologici sono destinati ad aumentare, come testimoniato dal trend evolutivo dei dati esposti. Del resto, le condizioni socioeconomiche, insieme alla necessità di assicurare affidabili condizioni di sicurezza alle popolazioni, rendono indispensabile una programmazione pluriennale che preveda lo spostamento verso le azioni di prevenzione, di un’aliquota del costo medio annuo stimato in 1263 milioni di euro, che il Paese è costretto a spendere per la gestione del postevento. Solo attraverso una programmazione pluriannuale di questo tipo, basata sulla prevenzione del tempo differito, il Paese potrà raggiungere in un periodo di 15-20 anni un migliore equilibrio, che dovrà comportare una drastica riduzione di costi e perdite di vite umane per ogni evento critico, evitando così di lasciare in eredità alle generazioni future un patrimonio ambientale e territoriale poco sicuro e gravato da costi di gestione non sostenibili.
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