Il diritto romano tra Oriente e Occidente
Per cercare di comprendere le ragioni delle trasformazioni intervenute nel diritto e nelle conoscenze giuridiche nel periodo successivo all’età costantiniana si deve tener conto da un lato delle vicende complessive dell’Impero nel periodo compreso tra il IV e il V secolo, dall’altro degli spazi riservati al diritto nella società tardo imperiale. Le prime sono segnate dalla progressiva rottura dell’unità interna dello Stato imperiale e dallo spostamento del suo centro verso Oriente, i secondi dall’estendersi della regolamentazione giuridica a sempre nuovi settori in conseguenza della crescente pervasività dello Stato assoluto nella società e nell’economia. E se a quella divaricazione corrisponde un differenziarsi della cultura giuridica, all’estendersi degli ambiti di applicazione del diritto fa riscontro una crescente domanda di conoscenze. Sotto il primo profilo, infatti, mentre l’affievolirsi progressivo in Occidente del senso della romanitas per l’accrescersi delle influenze straniere portava a una difficoltà sempre maggiore a comprendere gli aspetti più intrinsecamente tecnici dell’ordinamento giuridico romano, nella parte orientale la tradizione classica, pur chiamata a una difficile convivenza con pratiche e sensibilità a essa estranee, attirava ancora l’interesse di pratici ed esperti del diritto, e più in generale degli appartenenti alle classi elevate della società1. Ciò determinava un diverso atteggiarsi nei confronti dell’eredità giuridica proveniente dall’età precedente, che finiva per riverberarsi su caratteri e qualità delle opere prodotte. Sul piano viceversa dell’estensione degli spazi del diritto, la crescente domanda di conoscenze, se da un lato importava la necessità di una maggiore e più efficace diffusione del messaggio normativo, dall’altro richiedeva una sempre più adeguata preparazione giuridica.
Se il III secolo aveva visto l’agire di forze centrifughe minaccianti la stessa saldezza e unità dell’Impero, il IV secolo si apriva viceversa con l’affermazione del potere assoluto imperiale, nelle cui mani veniva ad accentrarsi ogni funzione e potestà. Al sovrano spettava organizzare e dirigere la macchina statale, stabilendo compiti e disciplinando l’attività di un apparato burocratico sempre più complesso e articolato, esercitando ogni più disparata funzione pubblica, al punto che il panegirista di Massimiano, con riferimento ai tetrarchi, poteva affermare che da loro «prende avvio anche ciò che è amministrato attraverso altri»2. A lui spettava però anche regolare la vita dei sudditi, disciplinarne le attività socialmente utili, dirigere l’attività economica, intervenire nei rapporti privati. Tutto questo presupponeva l’ampliarsi della regolamentazione giuridica, una sua estensione a nuovi campi di intervento in parallelo con l’allargamento dei settori di ingerenza dell’apparato statale. Naturale che, nella misura in cui il diritto giungeva a regolare i più diversi ambiti della vita pubblica e privata, fosse essenziale per i sudditi poterne conoscere le disposizioni e acquisirne quella sufficiente consapevolezza che sola avrebbe potuto guidare il loro agire. Ma inevitabile anche che, in un Impero assoluto in cui la volontà normativa del sovrano si imponeva con forza, mirando alla realizzazione di un ordinamento certo e uniforme, ai sudditi si facesse carico di un dovere ineludibile di conoscenza. Di questa necessità il legislatore, tanto orientale quanto occidentale, era perfettamente consapevole e non mancava di sottolinearlo nei suoi interventi. In apertura del Teodosiano3? un frammento di una più ampia costituzione emanata da Teodosio I il 27 maggio 391 disponeva a carico di tutti i sudditi dell’Impero, come dovere civile, l’obbligo di conoscenza e di osservanza della legge imperiale4. Di tale provvedimento, più tardi, l’interpretazione visigotica5 ribadiva, in maniera estensiva, il disposto come divieto di ignorare e violare il contenuto giuridico delle disposizioni6. L’obbligo di conoscenza della legge da parte del cittadino lasciava a sua volta presumere l’assunzione di responsabilità da parte del legislatore nel concepire come proprio il compito di fornire i mezzi di realizzazione di tale conoscenza: l’offerta mediante apposita raccolta e sistemazione del ius vetus e la divulgazione, una volta promulgate, delle disposizioni della legislazione corrente. I problemi che si ponevano, insomma, erano quello della stabilizzazione del diritto e quello dell’acquisizione culturale dei provvedimenti legislativi che ne erano la base. A quest’ultimo fine rispondevano i procedimenti diretti alla pubblicazione della legge, che prevedevano articolati meccanismi di trasmissione e comunicazione delle norme7. I destinatari tecnici o gli altri membri della burocrazia provvedevano alla diffusione di esse mediante la loro affissione negli appositi albi, collocati nei luoghi delle città meglio adatti secondo ragioni di visibilità e di concorso di pubblico, per un periodo di tempo determinato e ne curavano l’esecuzione8. In tal modo si raggiungeva la consegna dei testi alla conoscenza sia degli operatori del diritto, che dovevano curarne l’applicazione, sia dei destinatari-fruitori, che dovevano osservarli o utilizzarli. Attraverso la pubblicazione si generava peraltro anche una presunzione assoluta di conoscenza, che fondava un dovere ineludibile di osservanza al quale era possibile sottrarsi solo in presenza di reali e non fittizie circostanze impeditive9. La diffusione ufficiale, promossa dagli organi statali competenti, non precludeva lo svilupparsi di una circolazione privata dei testi legislativi. Si trattava di copie, non ufficialmente controllate, tratte dai testi autentici affissi agli albi a scopo di utilizzazione o personale, come quella di particolari, o professionale, come quella degli avvocati, i quali ne facevano raccolta per necessità di consultazione o per fini soprattutto processuali. Questa abitudine comune di copiare la legislazione è confermata da numerose attestazioni già a partire dall’età del principato10.
A ben considerarlo nel suo complesso, tuttavia, il sistema di pubblicazione delle leggi seguito nel tardoantico non andava esente da problemi sostanziali e formali, riguardanti rispettivamente il grado di conoscenza giuridica raggiungibile dai sudditi cui i provvedimenti erano destinati e la condizione di integrità e di autenticità conservata dai testi nei vari passaggi privati. Nella letteratura patristica si trova testimonianza indicativa delle reazioni sociali che la ricezione delle norme imperiali generava. L’impatto sulla vita di una comunità dell’arrivo di tali disposizioni è vividamente riportato dalla descrizione che Giovanni Crisostomo fa del loro ricevimento in una città. Nelle Omelie sulla Genesi11? egli evoca l’effetto dell’arrivo delle norme imperiali per mostrare ai membri delle comunità cristiane con quanto maggior timore essi dovessero ascoltare la Parola di Dio: «Un silenzio profondo regna quando quelle disposizioni sono lette. Non c’è il minimo rumore; ognuno ascolta con la massima attenzione gli ordini contenuti in esse. Chiunque fa il minimo rumore, interrompendo con ciò la lettura, corre il più grande pericolo. Tutti devono stare in piedi con paura e trepidazione [...] per capire quello che è letto».
Quanto all’ampiezza del suo raggio d’azione e alla sua profondità, la conoscenza giuridica dei testi normativi era destinata a essere, almeno in teoria, generalizzata, nel senso che la possibilità di acquisirla era data alla totalità della popolazione (tale era certamente l’intenzione del legislatore), come lasciano constatare gli epiloghi delle Novelle giustinianee e le fonti letterarie12. Ma per ragioni di tecnica che il grosso pubblico non poteva possedere tale destinazione presupponeva l’intermediazione di esperti del diritto; del resto la stessa pubblicazione del Teodosiano non sembra avesse come obiettivo quello di raggiungere i destinatari ultimi, ossia i sudditi dell’Impero, quanto piuttosto – come è stato sottolineato13 – quello di diffondere un certo numero di copie destinate a restare negli archivi a disposizione degli avvocati. Proprio il fatto che si intendesse assicurare una conoscenza del diritto tendenzialmente generalizzata, e non rivolta a figure specifiche di esperti, dimostra come il livello di alfabetizzazione della popolazione avesse scarsa incidenza sul problema della diffusione delle conoscenze giuridiche. Nella ricerca di mezzi espressivi capaci di veicolare principi e comportamenti, voce, parola scritta e immagine assolvevano, nella visione ideologico-culturale romana, una medesima funzione al tempo stesso narrativa ed ‘epidittico-educativa’, potenziandosi a vicenda negli effetti. E alla lettura pubblica delle costituzioni si ricorreva spesso onde renderne noto il contenuto normativo, come del resto si faceva per altri testi letterari e religiosi.
La conoscenza di questa pletorica e pervasiva formazione, e più in generale del diritto nel suo complesso, si rivelava dunque indispensabile qualunque fosse l’attività che si intendeva iniziare, e tanto più lo era per i giovani che volessero intraprendere una carriera di successo. Del resto le concezioni pedagogiche romane includevano la conoscenza del diritto fra i doveri essenziali del cittadino, come per il tardoantico ribadiva, intorno alla metà del III secolo, il maestro di Gregorio Taumaturgo, additandola quale ‘viatico’ indispensabile per un promettente avvenire14. Alle forme aristocratiche della formazione familiare e privata di età repubblicana il tardoantico aveva sostituito, nel quadro di una crescente monopolizzazione della cultura in genere e di quella giuridica in particolare, forme pubbliche di apprendimento organizzate in appositi centri di insegnamento15. Per la parte orientale un ruolo di spicco era rivestito dalla scuola di Berytus, la sede dell’apprendimento di Gregorio Taumaturgo, qualificata «madre del diritto» o «nutrice delle leggi» a sottolinearne la qualità altissima dell’insegnamento e la primazia rivestita rispetto alle altre sedi dell’Oriente16; a essa si affiancava Costantinopoli, la cui scuola, nonostante si trovasse nella capitale, rivestiva minor prestigio e autorità. Per contrapposto, nella parte occidentale il centro di apprendimento più famoso era quello di Roma, il cui successo attirava studenti da diverse parti dell’Impero, invogliati anche da particolari concessioni disposte in loro favore dal potere imperiale, il che ebbe a suscitare le rimostranze di Libanio17. Questi in un suo discorso deplorava che per i suoi studenti «ormai i successi venissero da altro, dalla lingua latina […] e dallo studio della legge»18, e constatava con amarezza che «la presente congiuntura ha concesso ad altri insegnamenti quella primazia che apparteneva al nostro […]. Di qui quelle frequenti traversate di giovani, quelle navigazioni che non conoscono altro tragitto che quello di Roma»19. Ma lo stesso Libanio non mancava di ricordare il successo della scuola di Berytus e non a torto ne sottolineava l’insidiosa concorrenza20. In Oriente, infatti, lo studio del diritto aveva acquistato un’importanza ben maggiore che in Occidente, come effetto di alcune differenze fondamentali nella struttura sociale delle due parti dell’Impero. Mentre in Oriente quegli studi erano imprescindibili per poter accedere ai posti più elevati dell’apparato burocratico, in Occidente, viceversa, le cariche di vertice erano ancora appannaggio degli appartenenti all’ordine senatorio, che, considerando il ricoprirle un privilegio esclusivo, ne escludevano i ceti inferiori. Inoltre il rivestire posizioni di prestigio all’interno dell’apparato burocratico implicava la conoscenza del latino, la lingua dell’amministrazione: di qui l’importanza degli studi di diritto, impartiti in latino, rispetto a quelli di retorica, in greco, e il successo delle prestigiose scuole orientali di diritto. Questo non poteva che comportare un nuovo fervore di studi, una rinnovata attenzione verso il materiale classico, a cui gli antecessores delle scuole orientali si rivolgevano utilizzando il bagaglio delle loro conoscenze retoriche e filosofiche. Un ‘classicismo’, questo delle scuole postclassiche – come è stato definito21 –, che non portò a una rinnovata elaborazione sistematica dei valori contenuti nelle decisioni dei giuristi classici, ma a un lavoro di mera esegesi di quei testi, con un inevitabile irrigidimento dei risultati da essi prodotti. Di tali testi si conservavano le soluzioni, ancorché contrastanti, senza tentare alcuno sforzo di armonizzazione che andasse al di là del semplice richiamo a passi paralleli. Di questo modo di operare sono esempio gli Scholia Sinaitica, raccolta di annotazioni sui libri 35-38 del commentario ad Sabinum di Ulpiano, redatti in greco da un anonimo autore intorno alla metà del V secolo, in cui si sviluppa una mera attività esplicativa del testo classico considerato. In essa, infatti, lo scoliaste commenta il testo ulpianeo avvalendosi dell’apporto fornito da altre opere di Ulpiano o di altri giureconsulti (Paolo, Modestino, Marciano, Fiorentino, a testimonianza dell’ampiezza delle conoscenze possedute) e da costituzioni tratte dai codici Gregoriano, Ermogeniano o Teodosiano22?. Proprio in questa ripresa dello studio diretto delle opere dei classici sta il merito indiscutibile delle scuole orientali. A loro confronto ben diversa era l’impostazione di quelle occidentali: in esse all’utilizzo diretto delle opere classiche si tendeva a sostituire quello di antologie o brevi epitomi, e alla volontà di interpretare e chiarire il contenuto dei testi utilizzati subentrava un intento attualizzante volto ad aggiornare il materiale giurisprudenziale o legislativo con le innovazioni introdotte in età tarda. Qualunque fosse l’attività da loro svolta, sia che si trattasse della compilazione di antologie di brani giurisprudenziali o legislativi, sia che si trattasse della realizzazione di parafrasi o epitomi di testi classici, i giuristi delle scuole occidentali si preoccupavano di riflettere le innovazioni della pratica e della legislazione, e di semplificare il materiale utilizzato al fine di renderlo più facilmente accessibile. Di queste tendenze sono in particolare espressione due opere realizzate nel V secolo nella parte occidentale dell’Impero: l’Epitome Gai e i cosiddetti Fragmenta Augustodunensia (rinvenuti in un palinsesto della biblioteca di Autun). Entrambe costituiscono una rielaborazione delle Istituzioni di Gaio, ma mentre la prima ne rappresenta una rivisitazione sintetica in due libri a uso didattico, aggiornata alle innovazioni del diritto e della pratica (manca infatti la sintesi del IV libro dedicato all’ormai superato processo formulare, limitandosi l’epitome ai primi tre libri dell’opera gaiana), l’altra ne è una semplice parafrasi, ossia un commento realizzato con l’intento di spiegare agli allievi il significato delle Istituzioni, evidentemente ancora in uso nell’insegnamento23. Maggiore originalità dunque della prima rispetto alla seconda, ma sempre avente come punto di riferimento la grande eredità dei giuristi classici. È proprio questa eredità complessa e talvolta soverchiante, difficile in ogni caso da gestire, che genererà quel clima di incertezza e confusione così diffuso nel V secolo da costituire la determinante di alcuni decisivi interventi imperiali.
Se dal piano della formazione del diritto ci si sposta a quello dell’applicazione pratica, non si può non osservare come la considerazione, operante nel tardo Impero, degli uffici come premi e ricompense non potesse non influire negativamente anche sui criteri con cui venivano scelti i loro detentori, cui in linea di massima era riservato l’esercizio della funzione giudicante. Si badava più a motivi d’ordine personale che spingevano all’assunzione delle cariche o a spinte esterne, quali la necessità di fronteggiare le aspettative dei ceti plutocratici, che al possesso da parte dell’aspirante dei requisiti richiesti per il posto da ricoprire. Così negli uffici civili una qualifica precisa non era richiesta (nella legislazione del VI secolo si pretendevano solo generici requisiti morali e sociali): prevaleva ancora il punto di vista romano tradizionale, secondo cui l’amministrazione, anche nel ramo finanziario e giuridico, era alla portata di tutti24. Per alcuni incarichi tuttavia, in relazione alla specificità dei compiti affidati, si era affermata l’esigenza di competenze adeguate: così per il questore e i magistri scriniorum, che si occupavano esclusivamente di questioni legali e della corrispondenza, era invalsa la tendenza a nominare avvocati e retori. E competenze in campo giuridico, almeno a partire dal 460, finivano per possedere coloro che rivestivano il governatorato delle province, essendo di norma la carica rivestita da adsessores che avevano in precedenza esercitato l’avvocatura25. Che la preparazione giuridica potesse incidere sulle capacità di giudizio e di comprensione del funzionario, determinandone la perspicuità delle valutazioni, è indicato con evidenza dal giudizio reso, ancora nel VI secolo, da Giovanni Lido su Pietro Patrizio:
Conoscendo meglio di ogni altra persona le leggi nelle quali era stato istruito fino dalla sua più tenera infanzia, avvocato del popolo in caso di bisogno, egli si rivelò un magistrato veramente grande, mostrando […] una acuta capacità di giudizio che lo rendeva capace di render giustizia con integrità, senza che i capricci della sorte gli facessero mai piegare la schiena26.
Nel brano lo storico sottolinea con evidenza l’acutezza del magister, facendola discendere dalle conoscenze giuridiche possedute: Pietro era infatti avvocato famoso, noto per l’abilità oratoria e per la padronanza e conoscenza delle norme.
E conoscenze professionali non dovevano mancare agli adsessores, che assistevano i magistrati in particolare nell’esercizio delle funzioni giudicanti, e che di norma, almeno in età giustinianea, erano tratti dagli avvocati che avevano conseguito una preparazione giuridica27. Di questa essi dovevano avvalersi nel coadiuvare gli organi ai quali erano affiancati, integrandone le spesso carenti competenze giuridiche con le conoscenze acquisite, che ne rendevano possibile una imprescindibile opera di interpretazione spesso altrimenti preclusa, almeno a quanto sottolineava ancora nel VI secolo Giustiniano28.
Quelle conoscenze giuridiche che tanto rilievo avevano assunto, divenendo elemento portante di una complessiva formazione culturale comprendente letteratura e retorica, e che costituivano il presupposto per aprire le porte di una brillante carriera o dispiegare una più compiuta comprensione della legge, restavano tuttavia, ancora in avvio del V secolo, difficili da acquisire nonostante l’azione formativa delle scuole di diritto e gli sforzi di raccolta e selezione dei materiali compiuti in età dioclezianea. In particolare a porre problemi era anzitutto la condizione dei testi normativi nella fase della pubblicazione e della successiva diffusione. È da ritenere certo che le trascrizioni per così dire ‘ufficiali’, le copie cioè eseguite dai funzionari imperiali, non presentassero veri e propri problemi di autenticità; invece per le trascrizioni eseguite in altra sede e da altri personaggi (avvocati o sudditi che fossero) non si può non constatare che problemi di tal natura esistessero. In questo caso la possibilità di alterazioni era, infatti, tutt’altro che remota, tenuto conto dei vari interessi che le determinavano o contribuivano al loro inserimento: scarsa cultura del fruitore, necessità di parte, finalità processuali. Contro l’uso di rescritti apocrifi, formulati da avvocati senza scrupoli, era già stato costretto a intervenire sul finire del III secolo Diocleziano, imponendo l’allegazione in giudizio dei soli rescritti originali e non delle copie di essi29.
Il ricorso a queste forme di trascrizione e alla conseguente formazione di copie private, spesso non esenti dai vizi sopra richiamati, era in particolare richiesta dalle esigenze della adlegatio e della recitatio, la pratica in forza della quale il privato (attore e convenuto), a causa delle difficoltà di reperimento e della contraddittorietà delle leggi imperiali nonché dell’antichità degli scritti dei giuristi, durante il processo si faceva carico di fornire al giudice quei materiali autoritativi che riteneva utili a formarne il convincimento in vista della decisione da assumere30. Ammiano Marcellino ne ha lasciato ricordo tutt’altro che positivo, deplorando questa pratica apertamente31. E in effetti i problemi da evitare che si connettevano alla pratica della adlegatio e della recitatio erano, quanto ai testi proposti, la possibilità di falsificazioni, volontarie o meno, e, quanto ai reali contenuti normativi e ai significati giuridici, i pericoli di distorsioni interpretative, insomma i rischi della non autenticità e di quella che qualche autore definisce «cartolarizzazione» del diritto, ossia la sua sclerosi nella forma impropria della norma, così come allegata.
Già in età dioclezianea i problemi legati allo stato dei testi contenenti regole giuridiche autoritative e alla loro utilizzazione, specie a opera dei privati (recitatio e conseguenti rischi di false allegazioni), avevano portato in primo piano l’esigenza di semplificazione e stabilizzazione di tali testi nei loro aspetti materiali. Alla conservazione e alla tutela dell’autenticità dei contenuti degli scritti giurisprudenziali si cercò di provvedere già in quell’età attraverso un’opera di canonizzazione degli scritti dei giuristi altoimperiali32. Accanto a questa attività di rielaborazione33 l’esigenza di stabilizzazione comportò da un lato un’opera di selezione all’interno della letteratura giuridica classica, a seguito della quale soltanto le opere la cui vitalità si era imposta attraverso la costante utilizzazione nella pratica furono ripubblicate34, e dall’altro la risoluzione in via autoritativa di alcuni problemi di autenticità legati all’utilizzo delle Pauli Sententiae35? e dei commenti di Paolo e Ulpiano alle opere di Papiniano36.
Problemi non minori di autenticità e validità dei testi ponevano le costituzioni imperiali, l’altra fonte del diritto attiva in età tardoimperiale, e in particolare la forma più usata di esse sin dagli inizi dell’età classica: i rescritti. I modi di circolazione e i problemi di applicazione legati alla natura casistica di questo tipo di costituzione favorivano abusi e distorsioni la cui soluzione venne trovata, in ossequio alle tendenze ‘paternalistiche’ del tardo Impero, non in un radicale abbandono, ma in forme di conservazione e controllo da realizzarsi attraverso la compilazione di raccolte (Codex Gregorianus; Codex Hermogenianus) in cui i testi delle costituzioni casistiche vennero trascritti in forma ufficiale e definitiva37. E a questo risultato probabilmente non fu estraneo l’interessamento della cancelleria imperiale (dioclezianea in particolare), che avvertiva con sufficiente chiarezza il problema testuale posto dalla incerta conservazione dei rescritti negli archivi imperiali, specie periferici38.
Nonostante gli sforzi compiuti all’inizio del tardo Impero (attraverso riedizioni e raccolte) per semplificare e stabilizzare lo stato dei testi giuridici, i risultati ottenuti attraverso il processo di canonizzazione non furono sufficienti a migliorarne la circolazione e a risolvere le incertezze derivanti dalla prassi della recitatio, se Ammiano Marcellino, in pieno IV secolo, rilevava la persistente arbitrarietà dell’operato degli avvocati conseguente alla prassi di citare leggi e giuristi così risalenti da poter indirizzare a proprio piacimento la decisione dei giudici39.
Ad aggravare lo stato di decadenza in cui versava la cultura giuridica tra IV e V secolo stava altresì l’abbassamento delle conoscenze professionali di giudici e avvocati. Lo stesso Teodosio II, nella costituzione del 438 con cui pubblicava il Codice, sottolineava come prima della sua riforma la scienza giuridica fosse inesistente40, e nel 451 Valentiniano III ribadiva la costante carenza di personale giudiziario competente, come conseguenza delle devastazioni provocate dall’invasione visigotica41. Ma non era solo la preparazione tecnica dei giudici a difettare42: a venir meno era quella ideologia di fondo che durante la Repubblica e il principato aveva consentito di sopperire alla mancanza di specifica preparazione professionale attraverso la maturazione di una profonda coscienza dell’essenzialità del diritto e della necessità di una sua corretta applicazione. Non era difficile raggiungere cariche d’alto rango, cui fossero connesse importanti funzioni giurisdizionali, in forza di una semplice preparazione retorica senza un’adeguata competenza professionale: Agostino, prima di convertirsi, insoddisfatto dell’attività di retore, riteneva che gli sarebbe stato sufficiente l’appoggio di amici influenti per raggiungere facilmente un governatorato43.
A quelli indicati, tuttavia, un nuovo fattore di incertezza del diritto si aggiungeva sul finire del IV secolo in conseguenza della divisione interna dell’Impero, operata alla morte di Teodosio I con la spartizione dei territori tra i suoi due figli Arcadio e Onorio. Nonostante la normazione restasse formalmente unitaria, continuando a essere emessa a nome dei due Augusti in carica, la determinazione dell’ambito di applicazione dei provvedimenti incontrava difficoltà sempre più gravi, derivanti dalla via via crescente numerosità delle norme a carattere locale, dai precari rapporti di potere tra i due imperatori, che alternavano affermazioni di predominio a fasi di concordia, e da una prassi politica oscillante, che faceva dipendere da circostanze contingenti l’ambito di applicazione dei singoli provvedimenti. Così è noto che nel 398 l’imperatore d’Occidente Onorio risolse negativamente il problema dell’applicabilità ai suoi territori di una norma orientale, invocata dagli ebrei di alcune zone dell’Italia meridionale, che esentava gli appartenenti a quella religione dagli obblighi curiali gravanti su tutti i cittadini, affermando che «quella legge orientale, se pure esisteva, risultava dannosa nei suoi territori»44.
In questa situazione di diffusa confusione e carenza delle conoscenze giuridiche non era peraltro venuta meno la convinzione della necessità della pratica della citazione delle opere giurisprudenziali e del valore da queste rivestito, quali parti integranti del ius prodotto dalle parti in giudizio, ai fini della formazione del convincimento del giudice: ancora nel VI secolo Cassiodoro affermava che si chiamerebbe abusivamente iudicium quello in cui le parti non allegassero i dicta prudentium45. Ma se la percezione della funzione essenziale assolta dalle opere giurisprudenziali come «tessuto connettivo dell’ordinamento»46 era accompagnata negli ambienti ufficiali da un sufficiente grado di conoscenze, ciò non era vero per giudici e avvocati dell’Impero, per i quali non restava che avviare un processo di semplificazione giuridica basato sulla redazione di epitomi e raccolte (Vaticana Fragmenta, Epitome Gai, Consultatio, Scholia Sinaitica) capaci di rendere fruibili per la pratica e l’insegnamento opere che diversamente, per la loro ampiezza e complessità tecnica, non sarebbero risultate più accessibili. Ciò non eliminava peraltro dubbi e incertezze, legati al carattere privato e non ufficiale di tali collezioni, così come delle analoghe raccolte di costituzioni imperiali di età dioclezianea, anch’esse esposte al sospetto di più o meno consapevoli alterazioni e manipolazioni. Documentate già in età costantiniana47, perplessità del genere devono essersi accresciute nel corso del IV e del V secolo fino a indurre il legislatore a intervenire in via autoritativa al fine di fissare quali tra le opere giurisprudenziali e le costituzioni imperiali fossero dotate di valore generale e fossero dunque sicuramente utilizzabili nella prassi forense. Di questa esigenza risulta espressione la legge emanata a Ravenna nel 426 da Valentiniano III, che si propone come disciplina organica volta a superare le perplessità derivanti dalla incerta utilizzazione giudiziale tanto delle costituzioni imperiali quanto degli scritti giurisprudenziali. In particolare in merito alle prime, di fronte alle difficoltà incontrate dalla pratica forense in ordine alla definizione della portata (generale o meno) delle costituzioni imperiali, la normativa valentiniana fissa criteri oggettivi, di facile esperibilità, da cui dedurre, in base a semplici elementi testuali, l’efficacia e l’autenticità dei provvedimenti oggetto di recitatio48.
In questa ottica si colloca anche quella parte della normativa del 426 nota come ‘legge delle citazioni’49, che rappresenta certamente un tentativo di risposta da parte del potere imperiale alla crisi della cultura giuridica e soprattutto alle difficoltà in cui si dibatteva l’attività dei tribunali di fronte alla molteplicità e contraddittorietà delle opinioni giurisprudenziali, ma che costituisce al tempo stesso espressione significativa dell’accentramento del potere normativo nelle mani imperiali. Nel sistema di ‘diritto legislativo’ che si andava affermando in età tardoimperiale, in cui la ricchezza e la complessità del pensiero dei giuristi si stemperava fino a cristallizzarsi nella fissità di un testo scritto la cui applicazione non lasciasse luogo a dubbi interpretativi, anche le opere giurisprudenziali cessavano di essere espressione viva di quel pensiero, per assumere il valore di veri e propri ‘testi legislativi’ capaci di integrare la volontà normativa imperiale nei limiti da essa consentiti50. Da ciò l’intervento estrinseco della normativa valentiniana e la predisposizione di criteri meccanici al fine di orientare la scelta del giudice, la cui applicazione si imponeva in sede di recitatio51. Ne consegue l’acquisizione da parte delle opinioni citate di un rinnovato valore, non più di semplice ausilio alla formazione del convincimento del giudice, ma di veri e propri testi normativi da osservare52. Nella misura in cui questa concezione si fa strada, aumenta corrispondentemente l’interesse del legislatore per la legittimità e l’autenticità dei testi giurisprudenziali producibili in giudizio. E anche in questo caso la scelta della normativa valentiniana si orienta, in sintonia con le esigenze della prassi, verso la fissazione di criteri oggettivi, facilmente praticabili, che fondino sulla reperibilità, confrontabilità e affidabilità della tradizione manoscritta la garanzia di autenticità dei testi giurisprudenziali canonizzati al fine della esperibilità giudiziale. L’utilizzazione di quei criteri porta peraltro all’affermarsi di una nuova considerazione dello ius controversum, che, superata la pari autorità e l’identità di valore tra pareri e opinioni discordanti (considerati nella visione tardoimperiale su un piano di sincronicità), ne propone, in consonanza con la visione unitaria e accentratrice del diritto espressa dal potere imperiale, una scelta che, sia pure attraverso criteri meccanici, punta ormai all’affermazione della prevalenza e unicità della soluzione adeguata53.
Ancora nell’età di Valentiniano III, tuttavia, nella cancelleria occidentale a prevalere non era l’idea della raccolta, della riunione e sistemazione organica del materiale giurisprudenziale e delle costituzioni imperiali. Quest’idea si affermerà e sarà propria solo della cancelleria orientale di Teodosio II. Quello che si voleva perseguire con la legge del 426 era un obiettivo più modesto, se si vuole, ma altrettanto efficace: quello di venire incontro nel modo più semplice e pratico possibile ai problemi posti al vertice imperiale dall’utilizzazione giudiziale delle fonti di età precedente. Le modalità adottate certo dimostravano lo scadimento della cultura giuridica e la difficoltà di dominare un materiale immenso e controverso. La stessa scelta di rivolgersi a elaborazioni dottrinali di quasi due secoli prima manifestava l’incapacità produttiva di una giurisprudenza costretta a ripiegarsi su un materiale ormai obsoleto. Ciononostante quelle scelte, rivolgendosi da un lato agli scritti dei giuristi che avevano avuto maggior risonanza per il loro carattere di sistemazione della tradizione precedente, dall’altro alla garanzia della loro autenticità attraverso il sistema pratico ed efficace del confronto testuale, dimostravano un acuto senso pratico e la chiara percezione delle difficoltà in cui si dibatteva l’utilizzo di quelle fonti. Del resto sensibilità non diversa mostrava anche la disciplina dettata circa il valore e l’efficacia delle costituzioni imperiali. In essa si rispecchiava da un lato la necessità di distinguere nettamente le costituzioni casistiche da quelle aventi efficacia generale, limitandone l’applicazione, dall’altro però, e con altrettanta forza, si manifestava l’imprescindibilità di esse come strumento di interazione tra sudditi e potere imperiale. Certo con la ‘legge delle citazioni’ veniva meno quella che era la funzione tipica dell’interprete secondo la tradizione romana, ossia quella «di riconoscere autonomamente nell’ambito di un più ampio materiale […] la regola da elevare a norma giuridica»54. Ma quel che interessava alla cancelleria ravennate di Valentiniano III non era salvaguardare «questo ruolo dell’interprete, che del resto già da tempo era andato svanendo con l’affermarsi della lex imperiale come base unica del diritto, quanto invece tentare di arginare la confusio e la discidia delle fonti», dettando regole pratiche che potessero concorrere a eliminare le gravi difficoltà in cui i dibatteva l’amministrazione della giustizia55.
La tendenza propria del regime tardoimperiale a concentrare nelle mani dell’imperatore, ‘legge vivente’, il monopolio del diritto, e a garantirne «la rigorosa applicazione ed esecuzione» attraverso il processo di codificazione, postula l’identificazione del diritto con la legge e il codice. Le Erotapokriseis, «domande e risposte» che vanno sotto il nome di Cesario di Nazianzo, composte intorno alla metà del VI secolo, probabilmente durante il regno di Giustiniano, trattano temi di astrologia e teologia, ma contengono all’interno del testo un’indicazione significativa di quel mutare delle concezioni giuridiche che vede l’affermarsi prepotente dell’esclusivismo normativo imperiale. All’interno del secondo ‘dialogo’ l’autore sottolinea56: «in ogni paese, fra gli altri popoli come da noi, esistono le leggi dei principi [...] siano affidate o no alla scrittura. In alcuni luoghi vige il testo scritto, in altri la consuetudine. Coloro che non hanno leggi, nel senso stretto della parola, considerano leggi le usanze ancestrali». La legge scritta è per lo Pseudo-Cesario la manifestazione per eccellenza della volontà normativa: contrapposta a essa, ma con ruolo residuale, sta la consuetudine. Rispetto alla concezione classica del diritto e dell’ordinamento si registra un profondo mutamento di prospettiva: ormai per l’autore del dialogo il diritto è legge scritta; la maturazione di una ‘mentalità legalistica’ ha qui la sua affermazione significativa57.
Del resto sul versante della letteratura pagana non diversa concezione esprimeva, intorno alla metà del IV secolo, l’anonimo autore del De rebus bellicis che affermava: ristabiliti, con divina saggezza […] i presidii dello Stato sia all’interno che verso l’esterno, un solo rimedio è ancora affidato alla tua serenità […]: illuminare con il giudizio di un’autorità altissima i precetti confusi e contraddittori delle leggi, allontanando ogni contesa fondata sulla frode58.
Ancora una volta il richiamo è all’autorità «altissima» della legge imperiale: solo essa può fugare la confusione delle norme ridando certezza al diritto. Traspare evidente tra le righe dell’anonimo autore il valore centrale dell’intervento ordinante della volontà imperiale, che sembra prefigurare nel ricorso al Codice lo strumento definitivo di soluzione dell’iniquità della giustizia. A questa esigenza, avvertita come essenziale, la ‘legge delle citazioni’ aveva fornito una risposta solo provvisoria e parziale, indicando alcuni criteri orientativi per l’utilizzo delle norme imperiali e dei brani giurisprudenziali senza proporsi intenti più ampi, che andassero al di là della mera volontà di fronteggiare le istanze immediate della pratica giuridica.
La concezione dell’esclusivismo normativo imperiale, unita alla esigenza di semplificazione giuridica, trova viceversa piena realizzazione all’interno della codificazione teodosiana. La necessità di organizzare secondo uno schema di tipo gerarchico il sistema delle fonti di produzione, già manifesta nella legislazione di Valentiniano III, risulta in piena evidenza dalla stessa sequenza in cui, nei primi titoli del Codice, si susseguono le singole fonti del diritto: la primazia in essi assegnata agli edicta costituisce chiaro segno di una volontà di rottura con il sistema del principato, in vista dell’affermazione piena dell’unicità della fonte di produzione normativa imperiale59. Di essa la codificazione teodosiana vuole fornire un quadro ordinato, all’interno del quale solo un posto secondario e subordinato sia riservato al portato della elaborazione giurisprudenziale. Non per nulla nel progetto iniziale del 42960 Teodosio II si propone anzitutto di raccogliere tutte le costituzioni a carattere generale da Costantino in poi, in vigore e non in vigore, ordinandole in libri e titoli secondo il modello dei codici Gregoriano ed Ermogeniano, ossia secondo lo schema dei Digesta della tradizione classica, che consentiva una trattazione unitaria di tutto il diritto. Questo Codice, che conteneva anche le leggi desuete, non superava però le diversitates, ma anzi le presupponeva, rivolgendosi soprattutto agli esperti del diritto: a eliminare ogni errore e ambiguità avrebbe dovuto provvedere il secondo Codice facente parte del progetto, il cosiddetto Codex magisterium vitae, che avrebbe dovuto contenere solo le leggi vigenti, integrate da brani tratti dalla giurisprudenza romana. Purtroppo il progetto così concepito, che già nella sua complessità dimostrava gli ambiziosi intenti della cancelleria orientale, intenzionata a ricondurre a un tutto unitario, centrato sulla volontà normativa imperiale, l’insieme delle componenti l’ordinamento, doveva cedere nel 435 alla formulazione di un programma più limitato, ma che nella sua concretezza ben realizzava il difficile equilibrio tra le due fonti che del sistema tardoimperiale costituivano elementi essenziali61. Se infatti da un lato esso faceva perno sulle leges generali emanate da Costantino in poi e ne proponeva una compilazione che ne eliminasse le contraddizioni e le ambiguità affinché il diritto «brevitate constrictum claritate luceat», dall’altro conteneva il chiaro riconoscimento della non eliminabilità degli scritti giurisprudenziali, di cui ammetteva l’utilizzo secondo i criteri della legge di Valentiniano III, ma in funzione pur sempre integrativa e subordinata rispetto alle leges imperiali. Una piccola variante introdotta, almeno secondo un’opinione diffusa, nel testo della ‘legge delle citazioni’, riportato nel Codice, dimostrava però quanto di diverso vi fosse nel grado di conoscenze e di cultura tra le due cancellerie. Nel testo recepito nel Teodosiano si ammetteva infatti la possibilità di utilizzare in giudizio, oltre agli scritti dei cinque giuristi i cui testi si erano consolidati nella tradizione tardoimperiale, quelli di altri giuristi (ad esempio Scevola, Sabino, Giuliano, Marcello), purché fossero menzionati da quei cinque e si potesse esibirne i manoscritti onde ovviare a eventuali dubbi di autenticità. Proprio di questi intenti l’opera compiuta62 costituiva espressione e, se da un lato veniva incontro alle esigenze di giuristi e giudici fornendo una raccolta ordinata e rivista della normazione imperiale e dando così «la luce della brevità alle leggi»63, dall’altro confermava il ruolo e il valore normativo ancora rivestito dall’intera letteratura giurisprudenziale.
Quanto alle esigenze di semplificazione, unificazione e conoscibilità dei materiali giuridici precedenti, oltre alle numerose indicazioni ricavabili dalle costituzioni introduttive e di pubblicazione64 e dal confronto con le costituzioni Sirmondiane65, fornisce ampia attestazione il verbale della seduta del Senato romano del 25 dicembre 438; in esso per ben ventitré volte i senatori con ripetute acclamazioni esprimono il loro apprezzamento per il realizzato superamento delle ambiguità delle leggi («constitutionum ambiguum removistis»), insistendo sulla chiarezza e sulla stabilità dei testi ottenute mediante la revisione del diritto imperiale. Non manca peraltro un’attenzione dei senatori agli aspetti materiali della stabilizzazione giuridica, come risulta dalle acclamazioni che chiedono la capillare diffusione del Codice e si preoccupano di suggerire i mezzi per garantire l’autenticità delle copie da predisporre66. Ma dalle stesse acclamazioni emerge una diversa e più rilevante valenza ideologica testimoniata dal Codice trasmesso, che ha radici in fondamenti culturali e moventi di pensiero ampiamente diffusi negli ambienti dell’aristocrazia pagana e della cultura cristiana del tardo Impero. In quegli ambienti, sia pure per ragioni diverse, si era affermato il principio della reverenza e del rispetto verso l’autorità del testo. Ciò era frutto da un lato dell’ideologia conservatrice, espressione degli interessi antiquari e classicisti dell’aristocrazia senatoria romana, e dall’altro della concezione cristiana dell’autorità intrinseca della scrittura fondata sulla rivelazione e dell’importanza riservata da quella cultura alla ricerca antiquaria e all’indagine archivistica. Di questi presupposti ideologici il Codice Teodosiano appare espressione, determinando, in uno con l’affermazione dell’ideologia dell’imperatore come unico creatore e interprete del diritto, il principio dell’autorità del testo legislativo in quanto tale, essenziale presupposto della indefettibile applicazione e dell’assoluta osservanza che a esso deve essere assicurata67.
Il completamento del percorso intrapreso verso l’unificazione del diritto e il superamento delle diversità si realizza infine con Giustiniano e con il suo tendenziale proposito di eliminare tutte le ripetizioni e le contraddizioni di iura e leges, tanto in sé quanto nei rapporti reciproci, nella prospettiva della realizzazione di un ordinamento costituito da un complesso unitario di proposizioni normative tutte ugualmente espressione della volontà imperiale. Come ogni dubbio e antinomia doveva essere bandito dal Codice nella prospettiva della realizzazione di una raccolta ordinata ed esaustiva della legislazione imperiale, così nel Digesto le figure dei singoli giuristi, la peculiarità e originalità del loro pensiero si stemperano in un’unica «consonantia» o «symphonia, ut nihil neque contrarium, neque idem, neque simile in ea inveniatur»68; ciò che conta in questa raccolta non è la posizione del singolo, per autorevole e giustificata che sia, ma il sistema giuridico nella sua unità. A integrarlo potrà provvedere solo un nuovo intervento della volontà normativa imperiale, perché la natura è mutevole e possono emergere nuovi rapporti «non ancora trattenuti dai lacci delle leggi»69. Ma anche le costituzioni novelle, che consentiranno di ovviare alla fissità della legge scritta, intervenendo a «correggere, ricomporre e consegnare a misure e regole idonee ogni nuovo accadimento», non staranno a sé, ma, nella visione imperiale, concorreranno con le compilazioni a formare un ordinamento unitario affinché «una deo volente facta republica, legum etiam nostrarum ubique prolatetur auctoritas»70.
Non c’è dubbio che la funzione principale cui il lavoro tardoimperiale di codificazione ha corrisposto sia la collectio in unum: la raccolta e l’accessibilità dei testi normativi. Per il Teodosiano gli intendimenti collettanei sono chiaramente denunziati nei Gesta senatus Romani («ut in unum collectis legum praeceptionibus sequenda per orbem sedecim librorum compendio […] constitui iuberet»71), e per l’età giustinianea sono di poi ribaditi nelle costituzioni introduttive e di pubblicazione delle diverse parti della compilazione72, con riferimento non solo ai materiali, bensì soprattutto ai contenuti sostanziali: un solo Impero, un solo diritto, una sola legislazione.
Naturalmente l’intento unitario presupponeva, assieme alla funzione di raccolta del materiale normativo, il fine della sua accessibilità al pubblico tanto degli esperti quanto degli illetterati. La prima misura non poteva dunque che essere un fine per così dire non antiquario, bensì di profferta di contenuti, qualunque ne fosse la risalenza nel tempo. Certo, nonostante i propositi di sistemazione e riordino che ispiravano i compilatori, ben diversa dalla nozione moderna era la fisionomia dei codici tardoantichi. Mancava in questi ultimi il carattere di insiemi normativi unitari e coerenti, privi di lacune, omogenei nei materiali raccolti73. All’interprete si poneva dunque il problema di come individuare il diritto concretamente applicabile. L’esame condotto per l’età mediobizantina sul ruolo assolto da giudici e giuristi ha consentito di evidenziare come la funzione da essi svolta non fosse quella di conoscere e ordinare i concetti secondo categorie e schemi, esulando dall’attività dell’interprete il lavoro di sistemazione concettuale. Il loro operare era in relazione alla soluzione del singolo caso, il diritto nel suo complesso rimaneva estraneo alla loro prospettiva, le norme, spesso in contrasto tra loro, costituivano un argomento, anzi «il più forte degli argomenti possibili» da utilizzarsi in chiave «retorica», la «stabilità delle decisioni e l’uguaglianza del trattamento giuridico» costituivano finalità difficilmente perseguibili74.
Costituito il corpus, era compito dell’autorità politica e amministrativa assicurargli adeguata pubblicazione e distribuzione nel territorio perché il pubblico ne acquisisse conoscenza e lo applicasse. Ne furono incaricati, per quanto riguarda il Teodosiano, appositi funzionari (constitutionarii), e per quanto riguarda il Codice giustinianeo il funzionario (prefetto del pretorio) cui era normalmente affidata la trafila della pubblicazione delle nuove leggi75. E ai prefetti d’Oriente, dell’Illirico e della Libia fu affidata la diffusione del Digesto. Lo scopo primario era dunque quello di diffondere e ampliare, attraverso la pubblicazione e la conseguente pubblicizzazione delle norme, la conoscenza di un diritto ormai finalmente esistente e unitario, per poter provvedere alla sua corretta applicazione.
Sotto questo profilo l’opera di codificazione nel suo complesso e le altre compilazioni di leges sono quindi anzitutto da considerare strumento di conoscenza del diritto perché questo, mediante le trascrizioni e la distribuzione territoriale delle copie ‘ufficiali’, raggiungesse una effettiva diffusione76. Ma, considerando che attraverso il controllo degli organi preposti essa offriva sufficienti motivi di certezza dei contenuti normativi, si può asserire senza timore di andar lontani dal vero che nel contempo costituiva un sistema di autenticazione del diritto stesso e quindi serviva, seppure non esclusivamente, a stabilire il diritto ufficiale. Perciò in tal senso è da intendere quanto si è detto in dottrina sulla «corretta utilizzazione dello ius principale, diversamente soggetto a distorte interpretazioni»77.
Nel Teodosiano i Gesta Senatus asseverano la correttezza giuridica, la perfezione formale e la funzione di guida esistenziale dei testi presentati («Noster codex erit alius, qui nullum errorem, nullas patietur ambages, qui nostro nomine nuncupatus sequenda omnibus vitandaque monstrabit»), e ne garantiscono l’autenticità («communi studio vitae ratione deprehensa iura excludant fallacia»). L’inaccessibilità delle fonti normative, causa di distorsioni interpretative, e l’alterazione, per lo più deliberata e pretestuosa, della documentazione giuridica attraverso la prassi della recitatio restavano relegate a una visione ormai superata.
Il diritto elaborato nei codici, a parte la preterizione dei superflui rivestimenti espressivi («inanem verborum copiam») e il rifiuto della diversità dei contenuti («omni iuris diversitate exclusa»), rappresenta l’impreteribile e perenne essenzialità ed esso non può esser conosciuto che nelle forme idonee di pubblicità per esso previste.
1 In proposito cfr. L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, p. 258.
2 Paneg. 2,11,5: «a vobis proficiscitur etiam quod per alios administratur». Su questa affermazione, e più in generale sui riflessi delle trasformazioni intervenute all’inizio del IV secolo sulla scienza giuridica, cfr. L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica codici, cit., pp. 164-165.
3 Sotto il titolo I del libro I: De constitutionibus principum et edictis.
4 Cod. Theod. I 1,2 = Cod. Iust. I 18,12: «Perpensas serenitatis nostrae longa deliberatione constitutiones nec ignorare quemquam nec dissimulare permittimus».
5 Int. ad Cod. Theod. I 1,2: «Leges nescire nulli liceat aut quae sunt statuta contemnere».
6 Alcuni anni più tardi, precisamente nel 454, il principio della legge quale regola di vita che dev’essere da tutti compresa onde evitarne i divieti e seguirne le prescrizioni positive trovava conferma nella legislazione di Marciano (Novell. Marc. 4 = Cod. Iust. I 14,9). E nel 538, infine, Giustiniano, con lucida sintesi sulle metodiche della diffusione del diritto, ribadiva l’inefficienza scusante dell’ignorantia iuris, riaffermando l’imprescindibilità delle usuali forme di pubblicità (Novell. Iust. 66,3).
7 Sull’argomento cfr. S. Puliatti, Le costituzioni tardoantiche: diffusione e autenticazione, in Studia et documenta historiae et iuris, 74 (2008), pp. 99-133.
8 Nov. 82 epil.
9 Sul valore della pubblicazione in particolare S. Puliatti, E. Franciosi, Legem ne quis se ignorasse confingat. Osservanza e applicazione del diritto in età tardoimperiale, in Legal Roots, 1 (2012), pp. 43-67.
10 Per l’età di Caligola cfr. Svet., Cal. 41,1, e più tardi, per il periodo tardoimperiale, Eus., h.e. IX 7,1 e 7,2, con riferimento a Massimino, e Lact., mort. pers. 48,1 per Costantino e Licinio.
11 PG 53, c. 112.
12 Eus., h.e. X 5,14. Cfr. pure Cod. Theod. XVI 5,37.
13 D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, in E. Gabba, D. Foraboschi, D. Mantovani, et al., Introduzione alla storia di Roma, Milano 1999, pp. 533-534.
14 Gr. Thaum., pan. Or. 5,60, ove Gregorio, riportando le esortazioni del maestro, ricorda che questi lo spronava con il dirgli che «la conoscenza del diritto sarebbe stata il miglior viatico, sia che volesse diventare un retore di quelli che patrocinano nei tribunali, sia che scegliesse un altro mestiere». In proposito cfr. D. Mantovani, Il diritto da Augusto, cit., p. 526.
15 Che il tardo Impero avesse percepito l’importanza della cultura giuridica come instrumentum regni e ne perseguisse un crescente controllo è sottolineato da G. Coppola Bisazza, Sui rapporti tra intellettuali e potere nella tarda antichità, in Iura, 57 (2008-2009), pp. 93-119.
16 In proposito N. van der Wal, J.H.A. Lokin, Historiae iuris graeco-romani delineatio. Les sources du droit byzantin de 300 à 1453, Groningen 1985, pp. 20-24. A testimoniare l’attrazione esercitata dall’insegnamento impartito nella scuola di Berytus e la volontà del potere imperiale di favorirne l’attività stanno le immunità concesse da Diocleziano agli studenti frequentanti i suoi corsi, attestate in Cod. Iust. X 50,1.
17 Una costituzione di Caracalla aveva concesso l’immunità a quanti risiedessero in città per seguirne gli insegnamenti (cfr. Frg. Vat. 204), e ancora nel 370 una costituzione di Valentiniano, Valente e Graziano attestava l’alta affluenza di giovani attirati dalla fama dei suoi studia (Cod. Theod. XIV 9,1). In proposito D. Mantovani, Il diritto da Augusto, cit., p. 527.
18 Lib., Or. 2,44.
19 Lib., Or. 43,4-5. Si sofferma in particolare sui rapporti tra insegnamento tradizionale e cultura cristiana Y. Modéran, L’empire romain tardif. 235-395 ap. J.-C., Paris 2006², pp. 228-231.
20 Un quadro dell’insegnamento giuridico in età tardoimperiale e della sua evoluzione in J. Gaudemet, La formation du droit séculier et du droit de l’Église aux IVe et Ve siècles, Paris 1979², pp. 86-90.
21 M. Talamanca, Il diritto nelle epoche postclassiche, in Collatio iuris romani. Études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65e anniversaire, Amsterdam 1995, pp. 541-548.
22 Così in tema di rottura degli sponsali e di restituzione delle arre Sch. Sin. 1,2 richiama un provvedimento del Codice Teodosiano inserito in Cod. Theod. III 5,14. In proposito cfr. D. Mantovani, Il diritto da Augusto, cit., p. 527.
23 Che la prima opera riflettesse uno sforzo maggiore di elaborazione, sensibile a nuove esigenze e concezioni che si andavano affermando, è testimoniato dalla nuova classificazione delle cose che le distingue in «res nostri iuris, divini iuris et publici iuris» (Epit. Gai II 1,1) in contrapposizione a quella gaiana che le divideva in «res divini iuris et humani iuris», escludendo dalle res divini iuris, per farle rientrare in quelle publici iuris, le mura e le porte della città, forse in ossequio all’influenza delle nuove concezioni cristiane. È inoltre testimoniato dalla netta decisione assunta, in confronto alle perplessità ancora manifestate da Gaio («dubitari potest»), con lo stabilire all’atto della cattura (e non a quello della morte) il momento dell’assunzione dello status di sui iuris del figlio di un pater familias deceduto in prigionia, questo in riconoscimento di una più ampia autonomia giuridica dei sottoposti a potestà. In tal senso con altri esempi J. Gaudemet, La formation du droit séculier, cit., pp. 100-102.
24 Cfr. in argomento A.H.M. Jones, Il tardo impero romano. 284-602 d.C., II, Milano 1974, pp. 727-736.
25 Cod. Iust. II 7,11 di Leone. Cfr. pure Cod. Iust. II 7,17 praef., II 7,22,4 e II 7,24,4.
26 Lyd., De magistratibus II 26.
27 In proposito, per le competenze degli adsessores presso la prefettura del pretorio, cfr. anche Lyd., De magistratibus III 11, e Cassiod., var. IV 19.
28 Novell. Iust. 82, praef. Lo stesso disposto novellare sottolinea peraltro, con altrettanta chiarezza, l’esigenza di preparazione professionale in capo agli organi giudicanti con il promuovere una significativa riforma del corpo dei giudici pedanei della Capitale, in cui il fermo richiamo al criterio della competenza e di una adeguata preparazione professionale costituisce, come è stato sottolineato, «il primo tentativo, nel mondo romano, di creare un corpo di giudici ‘di professione’». Così F. Goria, Il giurista nell’Impero romano d’Oriente (da Giustiniano agli inizi del secolo XI), in Fontes minores XI, hrsg. von L. Burgmann, Frankfurt 2005, p. 176.
29 Cod. Iust. I 23,3 a. 292, su cui L. Maggio, La funzione normativa imperiale, in N. Palazzolo, Storia giuridica di Roma. Principato e Dominato, Perugia 1998, pp. 248-249, e più in particolare N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province (II-III sec. d.C.), in Iura, 28 (1977), pp. 40-94.
30 Per il principato attestazione delle distorsioni cui poteva portare la pratica della recitatio si trova nell’epistolario di Plinio, che di fronte alla produzione di costituzioni di dubbia autenticità si era visto costretto a interrompere il giudizio, instaurato davanti a lui come governatore della Bitinia, per attendere il chiarimento imperiale: Plin., epist. 10,65,3. Con riferimento all’età postseveriana chiare indicazioni della diffusione di questa prassi in Cod. Iust. VI 37,12, un rescritto di Gordiano III in risposta alla petizione di un privato che riportava un responso di Papiniano, e in Cod. Iust. V 71,14 di Diocleziano. Sull’argomento V. Marotta, Ulpiano e l’impero, II, Napoli 2004, pp. 29 e 91-98, con ampi ragguagli bibliografici, e per l’età tardoantica F. De Marini Avonzo, Pagani e cristiani nella cultura giuridica del V secolo, in Id., Dall’impero cristiano al medioevo. Studi sul diritto tardoantico, Goldbach 2001, pp. 23-28.
31 Amm., XXX 4,11: «e, per apparire profondi nel diritto, citano Trebazio, Cascellio, Alfeno e le leggi già da tempo dimenticate degli Aurunci e dei Sicani, sepolte ormai da molti secoli […]. Se tu fingi d’aver ucciso volontariamente tua madre, qualora s’accorgano che hai quattrini, ti promettono che i loro numerosi e profondi studi ti garantiscono l’assoluzione»; e 4,18: «E, per produrre un’inutile citazione di una ben nota legge, preparano sette preamboli acquistabili a scelta e in questa maniera provocano uno sciame di lunghe dilazioni». In proposito D. Mantovani, Il diritto da Augusto, cit., pp. 529-530, che ritrova nell’immagine tracciata da Ammiano alcuni tratti essenziali dell’operare del giurista di età tardoromana, in particolare «la contraddittorietà, ossia gli inconvenienti del ius controversum», l’ampia informazione, che dimostra come «i iuris periti di quest’epoca continuavano a sfruttare la letteratura classica nella sua ampiezza», e la «subalternità del iuris peritus di questo tempo, non più investito dell’interpretatio creativa», rispetto ai predecessori.
32 Della formazione di modelli o ‘archetipi’, da cui sarebbe poi derivata tutta la successiva tradizione dei testi, parla, con significative esemplificazioni, F. De Marini Avonzo, Critica testuale e studio storico del diritto, Torino 1973, pp. 69-70. Dubbi sulla rilevanza e incisività degli eventuali «interventi editoriali tardoantichi», con particolare riferimento ai libri de officio proconsulis di Ulpiano, da ultimo in V. Marotta, Ulpiano e l’impero, cit., p. 118.
33 Si trattava di un’attività che aveva portato a risultati diversi, concretantisi in alcuni casi in un’opera di epitomazione, come nel caso dei Digesta di Alfeno, conosciuti, oltre che nell’epitome di Paolo, in un’epitome anonima della prima età postclassica, in altri nell’edizione come opere autonome di singole parti di un’opera più vasta, come nel caso dei libri singulares, e in altri ancora nella riunione sotto un unico titolo di opere diverse, come le Variae lectiones e le Epistulae di Pomponio, raccolte nelle Epistulae et variae lectiones o semplicemente Epistulae.
34 In particolare opere istituzionali e commentari ad edictum e ad Sabinum dei grandi maestri severiani, in cui era depositato tutto il portato del sapere giuridico precedente.
35 Cod. Theod. I 4,2.
36 Cod. Theod. I 4,1.
37 In tal senso F. De Marini Avonzo, Critica testuale, cit., pp. 71-74.
38 In proposito D. Liebs, Hermogenians iuris epitomae, Göttingen 1964, pp. 23-26. Della conservazione presso gli archivi periferici anche di copie di testi giurisprudenziali sembrerebbe invece fornire attestazione l’epistola del proconsole d’Asia alla città di Efeso tramandata da Inschr. von Ephesos II 217, che ha fatto pensare al deposito presso l’archivio del governatore di una copia dei libri de officio proconsulis di Ulpiano: sul punto V. Marotta, Ulpiano e l’impero, cit., pp. 37-42.
39 Amm., XXX 4,5-19. D’altronde ormai la figura orgogliosa del giurista interprete creativo del diritto svaniva sullo sfondo e a lui si sostituiva una figura nuova di iuris peritus – attestato ancora nel V secolo in funzione di consulente da Novell. Theod. 1,1 per l’Oriente e dalle lettere di Agostino (epist. 24), oltre che dalla Consultatio, per l’Occidente – privo di autonoma capacità di rielaborazione, mero tramite espressivo di quel passato che, cristallizzato nelle opere dei giuristi classici, egli faceva oggetto di arbitraria recitatio nel corso del dibattito processuale. In proposito A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, pp. 249-258.
40 Novell. Theod. 1: «Saepe nostra clementia dubitavit, quae causa faceret, ut tantis propositis praemiis, quibus artes et studia nutriuntur, tam pauci rarique extiterint, qui plene iuris civilis scientia ditarentur, et in tanto lucubrationum tristi pallore vix unus aut alter receperit soliditatem perfectae doctrinae».
41 Novell. Val. 32,6: «Notum est post fatalem hostium ruinam, qua Italia laboravit, in quibusdam regionibus et causidicos et iudices defuisse hodieque ignaros iuris et legum aut raro aut minime repperiri».
42 Sullo stato della cultura giuridica in età tardoimperiale e in particolare sulla formazione di una classe di avvocati tecnicamente preparati: J. Mélèze Modrzejewski, Gregoire Le Taumaturge et le droit romain, in Droit impérial et traditions locales dans l’Egypte romaine, Aldershot 1990, pp. 313-324; Amministrazione della giustizia ed esperienze processuali nella tarda antichità, XI Convegno internazionale in onore di Félix B.J. Wubbe (Perugia, Spello, Gubbio 11-14 ottobre 1993), Napoli 1996: A. Smodlaka Kotur, Avvocati nell’antica Salona, ivi, pp. 397-418; L. De Salvo, Giudici e giustizia ad Antiochia. La testimonianza di Libanio, ivi, pp. 485-507.
43 Aug., conf. 6,11,19. Ma ancor più difettava la presenza di informazione giuridica e la possibilità di corretta applicazione della legge nelle sempre più numerose corti privilegiate; a parte i conflitti di giurisdizione, che spesso penalizzavano il funzionamento della giustizia, non era infrequente che l’ignoranza dei giudici operanti in queste corti provocasse il rinvio all’imperatore anche di controversie relativamente semplici, come attestato da Symm., rel. VII 9. Per questi aspetti F. De Marini Avonzo, Critica testuale, cit., pp. 78-82.
44 Cod. Theod. XII 1,158. Il problema dell’efficacia delle norme a seguito della divisione dell’Impero operata già a partire dai figli di Costantino e poi definitivamente con i discendenti di Teodosio I ha conosciuto soluzioni differenti in dottrina e tuttora appare incerta la possibilità di una sua definizione univoca. Se infatti da una parte si è posto l’accento sul riferimento (costantemente osservato nelle inscriptiones) dei provvedimenti emanati a entrambi gli Augusti in carica e sulla più frequente utilizzazione del termine partes, indicante le varie regioni dell’Impero, in luogo del più raro pars (che peraltro sottenderebbe anch’esso una indiretta valenza unitaria, come evidenziato da Cod. Theod. I 1,5 di Teodosio II), per sottolineare il mantenimento di una unità legislativa, dall’altra a sostegno dell’idea dell’affermarsi di un dualismo normativo si sono addotte l’esistenza di differenze tra le due parti dell’Impero in relazione ad alcuni istituti, la resistenza degli imperatori di una parte ad accogliere e applicare normazioni provenienti dall’altra, la normale destinazione dei provvedimenti di una parte a funzionari appartenenti alla medesima. Al di là di questi contrasti, tuttavia, attestazione di una precisa tendenza all’unificazione è fornita dalle scelte di politica legislativa operate da Teodosio II prima con Cod. Theod. I 1,5 del 429, che fissava i requisiti formali richiesti perché le norme di una parte avessero efficacia nell’altra (invio all’altro Augusto con una pragmatica sanctio e accettazione da parte di quest’ultimo), poi con l’emanazione e l’invio in Occidente del Codice Teodosiano. Su questi problemi cfr. in particolare D. Mantovani, Il diritto da Augusto, cit., pp. 523-526, e più di recente F. Pergami, Considerazioni sui rapporti legislativi fra Oriente e Occidente: unità normativa o partage législatif?, in Studi in onore di A. Metro, IV, Milano 2010, pp. 527-535, che sottolinea l’impossibilità di una soluzione univoca.
45 Cassiod., var. VI 8,2. Per parte sua l’imperatore Leone nel 473, a riprova del valore annesso alle opinioni giurisprudenziali, preferiva appoggiare su un’opinione di Giuliano la decisione di un disputato problema di interpretazione giuridica, piuttosto che formulare una regola autonoma: Cod. Iust. VI 61,5.
46 Così D. Mantovani, Il diritto da Augusto, cit., p. 508, che ricorda lo spazio privilegiato riconosciuto ai veteres iuris conditores da Giustiniano in Cod. Iust. I 14,12,5, pur nel quadro dell’affermazione dell’ideologia dell’imperatore come unico creatore e interprete del diritto.
47 Cod. Theod. I 4,1 e I 4,2, già ricordate nelle note 35 e 36, e Cod. Theod. I 1,1 di Costantino, riguardante l’efficacia delle costituzioni imperiali sine die et consule.
48 Cod. Iust. I 14,2-3 e Cod. Iust. I 19,7 e I 22,5. In tali disposizioni si indicavano come criteri per individuare il carattere generale di una lex l’invio al Senato per mezzo di una oratio; la denominazione come editto; la pubblicazione in tutte le province per mezzo di un programma del magistrato preposto all’amministrazione; la presenza dell’ordine di estenderne l’applicazione alle questioni simili; la denominazione di ‘generali’; l’indicazione dell’applicabilità alla generalità dei sudditi. Quanto ai rescritti, onde limitare gli inconvenienti derivanti da una loro incongrua utilizzazione la normativa di Valentiniano III stabiliva l’inutilizzabilità di quelli contra ius, la necessità, ai fini della validità, della rispondenza a verità delle preces avanzate, l’inapplicabilità a casi analoghi. Parla di «notevole prammaticità» delle scelte legislative operate dalla normativa di Valentiniano III G. Barone-Adesi, Ricerche sui corpora normativi dell’impero romano, I, I corpora degli iura tardoimperiali, Torino 1998, p. 17, con bibliografia ulteriore.
49 Cod. Theod. I 4,3; questa disposizione doveva in origine costituire un frammento di un testo molto più ampio, di cui avrebbero fatto parte anche le disposizioni relative alle costituzioni imperiali, predisposto dalla cancelleria di Valentiniano III e inviato al Senato di Roma.
50 Il rilievo in C.A. Cannata, La giurisprudenza romana, Torino 1974, p. 75; L. Vacca, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano. Corso di lezioni, Torino 1989, pp. 136-137.
51 La legge stabiliva che potessero essere utilizzati in giudizio, per farli oggetto di recitatio, solo brani tratti dalle opere di cinque giuristi: Gaio, Papiniano, Paolo, Ulpiano e Modestino, di cui in conseguenza confermava la forza normativa. Fissava inoltre criteri quantitativi per superare le problematiche nascenti dallo ius controversum, stabilendo che in caso di opinioni contrastanti tra quelle esibite dalle parti dovesse prevalere quella della maggioranza, in caso di parità quella di Papiniano, e se questo non si fosse espresso disponeva che il giudice riprendesse la sua libertà di giudizio, potendo seguire quello tra i diversi pareri da lui preferito.
52 Che «già nell’immediato seguito del periodo Severiano» si fossero manifestati «sintomi eloquenti del valore normativo riconosciuto dagli imperatori ai responsa dei giuristi» è affermato da D. Mantovani, Il diritto da Augusto, cit., p. 521; in proposito, nel quadro di una più ampia analisi degli orientamenti della cultura giuridica tardoantica, sottolinea l’uso come ‘fonti normative’ degli iura rappresentati dalle opere dei prudentes M. Talamanca, L’esperienza giuridica romana nel tardo-antico fra volgarismo e classicismo, in Le trasformazioni della cultura nella tarda antichità, Atti del Convegno (Catania 27 settembre-2 ottobre 1982), a cura di C. Giuffrida, M. Mazza, I, Roma 1985, pp. 27-70.
53 M. Talamanca, Il «corpus iuris» giustinianeo fra il diritto romano e il diritto vigente, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, II, Padova 1995, pp. 780-786 (ora in Strutture e forme di tutela contrattuali, a cura di V. Mannino, Padova 2004, pp. 1-33). Se poi si riflette sul clima sociale e culturale di cui la legge di Valentiniano III è espressione, non si può non porre l’accento su un dato estrinseco, ma di grande rilievo al fine di determinarne genesi e motivazione: la sua destinazione al Senato romano. È noto il ruolo assolto dai destinatari come promotori degli stessi provvedimenti imperiali a essi indirizzati: questo dato deve indurre a individuare il collegamento tra la legge di Valentiniano e gli indirizzi in materia di politica legislativa maturati all’interno dell’aristocrazia senatoria occidentale. Sotto questo profilo non v’è dubbio che il Senato romano d’età tardoimperiale, oltre che sollecitare interventi normativi rivolti alla tutela dei propri privilegi di classe, fosse particolarmente sensibile, sia per tradizione culturale, sia per il ruolo assolto per tramite dei suoi membri in seno all’amministrazione imperiale (specie nell’esercizio di funzioni giurisdizionali), a promuovere riforme volte a favorire una migliore conoscenza del diritto. In proposito F. De Marini Avonzo, La politica legislativa di Valentiniano III e Teodosio II, Torino 19752, pp. 71-91.
54 G. Bassanelli Sommariva, La legge di Valentiniano III del 7 novembre 426, in Labeo, 29 (1963), pp. 280-313, in partic. 312.
55 Così L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica codici, cit., p. 341.
56 Ps. Caesarius 2,109 (PG 38, c. 980,17-38).
57 Più ampiamente in proposito M. Bretone, Storia del diritto romano, Bari 20007, pp. 359-364.
58 Anon. de reb. bell. 21,1-2.
59 Nel libro primo i titoli segnano chiaramente nel loro susseguirsi la diversa valenza riconosciuta alle varie fonti del diritto: I. De constitutionibus principum et edictis; II. De diversis rescriptis; III. De mandatis principum; IV. De responsis prudentium.
60 Cod. Theod. I 1,5.
61 Cod. Theod. I 1,6.
62 Promulgata con Novell. Theod. 1 del 438.
63 Novell. Theod. 1,1. In proposito, con ampia bibliografia e un quadro sintetico delle diverse problematiche affrontate dalla dottrina, L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica codici, cit., pp. 341-356.
64 Certamente depone in questo senso lo stesso ordine impartito, anche se non sempre rispettato, di servirsi in giudizio del solo testo delle costituzioni emendato e inserito nel codice, evitando così, a fini di chiarezza e certezza normativa, le contraddizioni derivanti dal possibile ricorso ai testi originali o alle costituzioni abrogate in quanto non inserite nella raccolta.
65 L’esame dei risultati di tale raffronto rende evidente quale sia stato lo sforzo dei compilatori per corrispondere a quei propositi: i testi raccolti furono fortemente abbreviati, non solo nei preamboli e negli epiloghi, ma anche nel contenuto normativo, senza peraltro alterarne la sostanza; il dettato delle costituzioni fu spesso riformulato con lo scopo di semplificarne la scrittura, rendendola più conforme al linguaggio comune e quindi, ove possibile, più comprensibile. In proposito J.E. Matthews, Laying Down the Law. A Study of the Theodosian Code, New Haven-London 2000, pp. 121-167.
66 Gesta senatus 5: «Plures codices fiant habendi officiis. Dictum X»; «In scriniis publicis sub signaculis habeantur. Dictum XX»; «Ne interpolentur constituta, plures codices fiant. Dictum XXV»; «Ne constituta interpolentur, omnes codices litteris conscribantur. Dictum XVIII»; «Huic codici, qui faciendus a constitutionariis, notae iuris non adscribantur. Dictum XII». Insiste sulla «centralità dell’evento-Teodosiano» e sul carattere pacificatore e «conchiusivo» della compilazione realizzata E. Dovere, «Ius principale» e «Catholica lex». Dal Teodosiano agli Editti su Calcedonia, Napoli 1995, pp. 51-119; Id., Stabilizzazione giuridica e acquisizione culturale del Teodosiano: spunti in Socrate ‘Scholastikòs’, in Amministrazione della giustizia ed esperienze processuali nella tarda antichità, cit., pp. 593-613, ove l’autore sottolinea come all’effetto ordinante e unificante sotto il profilo giuridico dell’opera codificatoria si associ nella considerazione dei contemporanei un più vasto, stabilizzante effetto d’ordine politico-sociale avente il proprio fulcro nella rappresentazione di un diritto unitario come base per la realizzazione di un imperium che si voleva pur esso unitario.
67 F. De Marini Avonzo, Critica testuale, cit., pp. 94-99; G. Cavallo, Libri, editori e pubblico nel mondo antico, Bari 20023, pp. 126-132. Autenticità testuale e vigenza generale delle disposizioni citate costituiscono pertanto gli obiettivi perseguiti e raggiunti dalla compilazione teodosiana sulla scia della normazione valentiniana, ma con ben più ampia vastità di progetto e avvertita sensibilità scientifica. Nuova ne risulta in conseguenza – come osservato da G.G. Archi, Teodosio II e la sua codificazione, Napoli 1976, p. 54 – la fisionomia dei destinatari: non si tratta più dei «buoni sudditi» cui si rivolge l’imperatore benefattore del Codex magisterium vitae del 429 per insegnare le regole di condotta da osservare, ma «di destinatari sufficientemente educati nel diritto, per discernere nel susseguirsi cronologico dei vari interventi imperiali i principi normativi validi e, eventualmente, la loro formazione storica».
68 Const. Tanta praef. = Cod. Iust. I 17,2 praef.
69 Const. Tanta 18 = Cod. Iust. I 17,2,18. In proposito G. Lanata, Legislazione e natura nelle Novelle giustinianee, Napoli 1984, pp. 165-187.
70 Novell. Iust. App. 7,11. In questo quadro, di fronte all’unicità della fonte normativa imperiale, pur in un contesto di spiccato classicismo, anche il ruolo dell’interpretazione cambia. Essa – come sottolinea D. Simon, Aus dem Kodexunterricht des Thalelaios. A: Methode, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, 86 (1969), pp. 380-383 – non tende più «a fornire uno strumentario ben congegnato e praticamente adoperabile di regole giuridiche, con il cui aiuto il giurista pratico possa ordinare e dominare i rapporti della vita»: la sua funzione è ora quella di spiegare e rendere accessibile il materiale ricevuto.
71 Gesta Senatus 2.
72 In particolare nelle costituzioni del 528 al Senato Haec quae necessario («in quem [Codicem] colligi tam memoratorum trium codicum quam novellas post eos positas constitutiones oportet»), del 529 a Mena Summa («magnum laborem commisimus, per quem tam trium veterum Gregoriani et Hermogeniani et Theodosiani codicum constitutiones quam plurimas alias post eosdem codices […] positas in unum codicem […] colligi praecipimus»), del 530 Deo auctore («colligere […] et tot auctorum dispersa volumina uno codice indita ostendere») e del 534 al Senato di Costantinopoli Cordi («Cordi nobis est […] sacratissimas constitutiones, quae in diversa volumina fuerant dispersae […] in unum corpus colligere»).
73 In tal senso D. Mantovani, Il diritto da Augusto, cit., p. 512.
74 D. Simon, Rechtsfindung am byzantinischen Reichsgericht, Frankfurt a.M. 1973, pp. 18-28. Meno libero apparirebbe il ruolo dell’interprete in relazione all’età giustinianea se, come ha sottolineato una apposita indagine (F. Sitzia, Norme imperiali e interpretazioni della prassi, in Il diritto fra scoperta e creazione. Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile, Atti del Convegno internazionale della Società italiana della storia del diritto (Napoli 18-19 ottobre 2001) Napoli 2003, pp. 275-324), «nel mondo giustinianeo, evidentemente, specie quando si tende nella sostanza a contraddire la volontà del legislatore, occorre motivare le proprie decisioni con minuziosi e sottili riferimenti alla legge». Ciò ripropone il problema di come l’interprete abbia operato di fronte a un sistema tendenzialmente chiuso e ordinato, eppure contraddittorio e spesso disarmonico come quello tardoimperiale, spingendo a ricercare quali criteri egli abbia seguito per individuare il diritto concretamente applicabile: in proposito, con specifico riferimento al Codice Teodosiano, U. Vincenti, Codice Teodosiano e interpretazione sistematica, in Index, 24 (1996), pp. 111-131.
75 Nel 443 ai constitutionarii teodosiani fu dato l’ordine esclusivo di eseguire le opportune trascrizioni del testo sotto il controllo del praefectus urbis, ma non ne fu permessa la vendita. Nel 529 fu conferito al prefetto del pretorio il compito di provvedere alla pubblicazione, «edictis ex more propositis», del Codice, inviandone nelle province copie controfirmate dall’imperatore («Illustris igitur et magnifica auctoritas tua […] ad omnium populorum notitiam eundem codicem edictis ex more propositis pervenire faciat»).
76 Quanto alla reale penetrazione e circolazione dei testi della compilazione giustinianea nei vari territori dell’Impero, alcune indicazioni si possono trarre, oltre che da posteriori accenni della legislazione novellare (Novell. Iust. 66), da talune considerazioni contenute nel paragrafo 14 della costituzione Tanta, ove si sottolinea tra i pregi della Compilazione quello di essere contenuta in pochi volumi di mole ragionevole e di prezzo contenuto, accessibili alle borse dei ricchi come dei meno abbienti. Ciò lascia immaginare l’intento di pervenire alla redazione di un numero congruo di copie, tale da soddisfare le esigenze di una diffusione «non limitata all’invio di copie ufficiali nelle sedi periferiche, ma estesa al possesso e all’uso privato» (così G. Lanata, Legislazione e natura, cit., p. 19). Del resto le testimonianze documentarie e soprattutto i ritrovati papirologici attestano una discreta circolazione dei manoscritti della Compilazione tanto in Occidente quanto in Oriente e specie nel territorio egiziano. Nonostante però la volontà di assicurare ampia circolazione ai testi di diritto, varie costituzioni del Codice e alcune Novelle mostrano chiaramente come la diffusione a essi assicurata fosse largamente disomogenea nei vari territori dell’Impero, e in particolare concentrata nelle città e negli accampamenti militari, ove d’altra parte più diffusa era la conoscenza della scrittura (Cod. Iust. VI 23,31).
77 G. Barone-Adesi, Ricerche sui corpora, Torino 1998, p. 62.