Il diritto omerico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Come in qualunque comunità, anche in quelle descritte nei poemi omerici esistono delle regole che stabiliscono quali comportamenti sono consentiti, quali sono vietati e quali sono obbligatori. Che queste regole siano o meno “giuridiche” è problema la cui soluzione dipende dalla definizione che si ritiene di dare del “diritto”. Ovviamente, se per diritto si intende quello che si intende oggi, la risposta non può essere che negativa, ma altrettanto ovviamente una simile risposta sarebbe sbagliata. Il concetto di diritto va storicizzato e il confine del giuridico va delimitato, nelle diverse situazioni, tenendo conto delle forme e dei modi del controllo sociale che operano all’interno del gruppo: in Omero, dunque, tenendo conto del fatto che le società di cui raccontano l’Iliade e l’Odissea sono delle “culture di vergogna” (shame cultures).
Elaborata dagli antropologi e dagli psicologi sociali americani, la nozione di “cultura di vergogna” viene sviluppata, con particolare riferimento alla cultura giapponese – anche se nel quadro di un più ampio discorso teorico – dall’antropologa Ruth Benedict, inviata dal governo statunitense, durante la seconda guerra mondiale, a studiare la mentalità e i costumi della popolazione in quel momento nemica.
Per shame culture, alla luce di quella e delle successive indagini, devono intendersi le società nelle quali il rispetto delle regole non viene ottenuto attraverso l’imposizione di divieti. Il meccanismo del divieto, infatti, è tipico di culture profondamente diverse da quelle “di vergogna”, che in opposizione a queste vengono definite “culture di colpa” (guilt cultures), perché, in esse, chi tiene un comportamento vietato si sente oppresso da un senso misto di colpa, di rimorso e di angoscia, approssimativamente espresso, appunto, dal termine guilt. Nelle “culture di vergogna”, invece, l’osservanza delle regole è ottenuta attraverso la proposizione di modelli positivi di comportamento, e coloro che non si adeguano a questi modelli incorrono nel biasimo sociale (“vergogna” in senso oggettivo) e in una sensazione soggettiva di inadeguatezza, a sua volta definita vergogna.
In ambedue i tipi di cultura, dunque, il controllo sociale è attuato attraverso sanzioni di tipo esclusivamente psichico, che nel caso delle culture di vergogna è il meccanismo della “voce popolare” (in Omero demou phemis), vale a dire la reputazione, che colpisce con la sanzione sociale della vergogna chi non è all’altezza del modello. E poiché la società omerica è fortemente competitiva, e i suoi valori sono la forza, il coraggio e la capacità di imporsi, la regola fondamentale del comportamento sociale è la vendetta. Come risulta senza possibilità di dubbi dai poemi, infatti, il peso sociale di un individuo e di un gruppo sono legati all’onore (timè): chi subisce un torto senza reagire perde o vede diminuito il suo, perché è un vigliacco. Vendicare i torti subiti non significa solamente soddisfare un bisogno privato di reagire a un torto. È un dovere sociale, un atto non solo lodevole ma inevitabile: quantomeno, per chi vuole mantenere e meritare il rispetto della collettività e non vedere diminuito il suo prestigio sociale.
Quando nell’Odissea Telemaco si reca a Pilo per cercare notizie del padre scomparso, Nestore (il re di Pilo) lo esorta a non subire le prepotenze dei pretendenti. Pensa a Oreste, gli dice, non dimenticare Oreste, che uccidendo Egisto vendicò l’assassinio di suo padre Agamennone. Non essere da meno, “sii forte, che ci sia chi ti lodi tra i tardi nipoti” (Odissea, III, 200). Un’esortazione che Telemaco ha del resto già ricevuto da Atena: “Non senti che gloria ha conquistato fra tutti gli uomini Oreste divino, uccidendo il traditore Egisto, l’assassino del suo nobile padre?” (Odissea, I, 298-300). La vendetta dà la gloria, non vendicarsi porta con sé la vergogna: quando Paride, alla prova della guerra, si rivela pavido, timoroso, non motivato a combattere, Elena rimpiange di non avere accanto a sé un uomo diverso, “sensibile alla vendetta, ai molti affronti” (Iliade, VI, 350-351). Ma chi subisce una vendetta deve a sua volta vendicarsi, se non vuole essere considerato persona dappoco, e poiché alla vendetta partecipano, accanto all’offeso e all’offensore, i rispettivi gruppi familiari, il sistema della vendetta – se incontrollato – rischia di portare con sé una lunga catena di guerre. Per evitare le quali, peraltro, la società omerica ha già sviluppato alcune regole consuetudinarie, nelle quali possiamo rintracciare la genesi delle prime norme giuridiche greche.
A poco a poco, infatti, è entrata nell’uso, anche nel mondo eroico, la prassi di offrire all’offeso una compensazione in natura o in danaro detta poiné (da cui la parola latina poena e quella italiana “pena”), che – se accettata – viene solennemente consegnata dall’offensore all’offeso alla presenza del popolo, e che consente all’offeso, che ha ricevuto pubblica soddisfazione, di rinunziare onorevolmente alla vendetta. A poco a poco, inoltre, si è affermata la regola che l’accettazione della poiné è alternativa alla vendetta: in altre parole, la regola secondo la quale chi ha accettato una compensazione non può vendicarsi per lo stesso torto.
A dimostrarlo, in un celebre passaggio dell’Iliade, sta una delle scene scolpite sullo scudo di Achille, che torna a combattere dopo un lungo, tragico periodo nel quale si era ritirato dal combattimento, per vendicarsi dell’offesa fattagli da Agamennone, quando gli aveva sottratto la schiava di guerra Briseide. Durante uno scontro, scambiandolo per Achille, Ettore ha ucciso Patroclo. Achille deve vendicare l’amico, le armi sono pronte. Sullo scudo, sono scolpite scene di vita di una città in pace e di una in guerra. Tra le scene di pace, un processo, il primo processo della storia occidentale: ““C’era del popolo raccolto nella piazza” – racconta Omero – “e qui nasceva una lite, due uomini litigavano per il compenso (poiné) di un uomo ucciso. Uno diceva di aver dato tutto, dichiarandolo in pubblico, l’altro negava d’aver ricevuto alcunché… Il popolo acclamava a entrambi, difendendoli di qua e di là; gli araldi trattenevano il popolo. Gli anziani (gerontes) sedevano su pietre lisce, in sacro cerchio, avevano tra mano i bastoni degli araldi voci sonore, con questi si alzavano e uno dopo l’altro emettevano la sentenza (dikazon” (Iliade, XVIII, 497-507). Gli eventi descritti sono chiari: un uomo è stato ucciso; sulla pubblica piazza, due persone discutono: una (evidentemente l’assassino) sostiene di aver pagato la poiné per quell’omicidio; un altro (evidentemente un parente del morto) lo nega e pretende di vendicarsi su di lui.
Ad accertare se la poiné è stata o meno pagata sono chiamati gli anziani della comunità, che sediono su pietre lisce, disposte in circolo: sedili appositamente predisposti, dunque. Sulla piazza, insomma, vi è già una sorta di “locale” adibito alla risoluzione delle liti e forse anche ad altre occasioni pubbliche. Gli anziani, dopo aver ricevuto dalla mano degli araldi lo scettro simbolo del potere, stabiliscono chi, tra i due litiganti, ha detto la verità. La questione è di grande rilevanza per l’intera comunità. L’esistenza di un organo giudicante incaricato di risolvere una lite di questo tipo significa che si è affermata una regola secondo la quale chi ha accettato la poiné non può più vendicarsi. Evidentemente, il rispetto della norma che stabilisce l’alternatività tra vendetta e riscatto è considerato imprescindibile. Per questo gli anziani sono stati chiamati a garantirne il rispetto. Con quali conseguenze? Se il verdetto è che la poiné è stata pagata, esso contiene un tacito ma perentorio invito ai parenti del morto a non usare la forza, e la implicita dichiarazione che, se usata, questa forza è arbitraria: di conseguenza, essa legittima una controvendetta, in riposta. Se invece il verdetto è che la poiné non è stata pagata, il tribunale riconosce implicitamente la legittimità della vendetta in corso. A questo punto, la forza fisica di cui gli anziani autorizzano la prosecuzione non è più un fatto privato: è un uso della forza “legittimo”, esercitato, anziché dalla comunità (che si assumerà solo molto più tardi questo compito) da un “agente socialmente autorizzato”, rappresentato dai membri del gruppo della parte lesa. La funzione giurisdizionale dei gerontes è chiaramente la risposta a un’esigenza nuova di giustizia, della quale, nell’epoca che vede il progressivo emergere dei valori collaborativi, il potere collettivo si fa carico, per la prima volta nel mondo omerico. Siamo in un’epoca, ormai, in cui a una consuetudine secolare, ispirata al riconoscimento del privilegio derivante dalla forza e che sancisce la legittimità sociale di questo privilegio, si affiancano valori ispirati a una etica cooperativa, e la corrispondente necessità, sempre più sentita, di garantire la pace sociale. In questo quadro, il comportamento di chi viola la regola dell’alternatività tra vendetta e riscatto, approfittando della sua forza e del suo prestigio, deve essere sanzionato.
La collettività non può più restare semplice spettatrice di iniziative private riprovevoli e riprovate. La sanzione della “vergogna” continua ad agire e colpisce chi viola il comando implicito nella pronunzia dei gerontes. Ma non basta più: assumendosi un potere che sino a quel momento non ha avuto, la collettività interviene per imporre l’osservanza di una regola che autorizza l’uso della forza fisica. Alla sanzione della vergogna si aggiunge una sanzione più concreta, non ancora affidata a organi pubblici, ma non per questo, certamente, meno “pubblica”. Anche a voler ricorrere a una definizione universalmente valida di diritto (pur senza essere convinti della necessità di farlo), possiamo ben dire che con l’uso della forza da parte di un “agente socialmente autorizzato” la Grecia omerica entra nel mondo del diritto.