Il diritto dei Greci
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La radicale diversità diacronica tra l’organizzazione politica micenea, quella delle poleis e quella ellenistica e, al contempo, la distanza sincronica tra i sistemi giuridici delle singole poleis – profondamente differenti tra loro per origini e cultura – ha indotto molti studiosi a dubitare della possibilità di parlare di “un” diritto greco. Tale definizione, tuttavia, può essere ammessa tanto alla luce delle innegabili analogie tra le leggi delle varie città, quanto della continuità che è dato rinvenire nel diritto delle diverse epoche
Il diritto greco è la disciplina che studia le istituzioni giuridiche delle popolazioni elleniche a partire dalla loro formazione storica fino all’età di Giustiniano e alla nascita del diritto bizantino; essa riguarda dunque la storia di una civiltà caratterizzata da dimensioni spaziali e temporali estremamente ampie, e conseguentemente definita, nei diversi periodi storici e nelle diverse aree geografiche, da strutture politiche, sociali e culturali notevolmente distanti tra loro. L’esperienza giuridica dei popoli greci si sviluppa dapprima nei regni micenei; quindi interessa i primi agglomerati urbani destinati a divenire poleis, le città-stato della Grecia tra loro profondamente diverse per stirpi e cultura, e sempre gelose del loro particolarismo; infine – dopo la rivoluzione di Alessandro Magno – riguarda le monarchie ellenistiche e le città greche dell’Egitto.
Proprio tenendo conto di tali differenze – rilevanti, come si è visto, non solo sotto il profilo dell’evoluzione diacronica, ma anche delle distanze sincroniche di tipo etnico e culturale tra le varie poleis – molti giusgrecisti ritengono che non si possa propriamente parlare di un “diritto greco”, bensì, in modo più corretto, di “diritti greci”. In effetti è molto difficile paragonare il diritto di una città micenea e con quello dell’Atene del V secolo a.C., come pure, nello stesso V secolo, il diritto di Atene e quello di Sparta, due poleis non solo politicamente antagoniste, ma anche profondamente diverse per origini (ionica Atene, dorica Sparta) e per sviluppo culturale.
Al di là delle innegabili differenze, tuttavia, pare eccessivo negare del tutto l’esistenza di analogie tra il diritto delle diverse epoche ovvero delle diverse città; al contrario, elementi di contatto e istituti comuni esistono, come è del resto verosimile che sia in città che, comunque, parlano la medesima lingua, venerano i medesimi dèi, praticano gli stessi costumi e si riconoscono tra loro uguali attraverso l’opposizione a chi non è greco ma “barbaro”. È dunque ammissibile parlare di “diritto greco”, purché si presti sempre attenzione a circoscrivere l’istituto che di volta in volta si considera nelle sue opportune coordinate temporali e spaziali.
La Grecia, culla di tutte le arti e le scienze – dalla letteratura alla storia, dalla filosofia alla retorica, dalla tecnica militare alla politica – non è stata però madre della scienza giuridica, la cui invenzione si deve, invece, ai Romani. Nessuna città della Grecia, in effetti, ha avuto dei giuristi, specialisti di diritto che si siano preoccupati di riflettere sulle strutture e di elaborare concetti giuridici generali e astratti.
Ad Atene, per esempio, depositari del diritto sono gli “esegeti”, i quali sono tuttavia innanzitutto sacerdoti, e la loro competenza si limita alle regole del diritto sacrale e religioso; regole che, più che interpretare, essi custodiscono gelosamente.
Né si può dire che siano stati giuristi i logografi giudiziari, attivi ad Atene tra il V e il IV secolo a.C., tra i quali vanno annoverati i più celebri oratori attici, come per esempio Lisia, Demostene, Antifonte, Iperide, Isocrate: costoro, su commissione e dietro pagamento di compensi spesso lauti, compongono le orazioni che le parti coinvolte in un processo reciteranno poi in tribunale – ad Atene, infatti, accusatore e accusato devono sostenere personalmente le proprie ragioni: pertanto, chi può permetterselo affida a uno specialista la stesura del discorso da pronunciare davanti ai giudici. Ora, i logografi non sono esperti di diritto, ma di retorica: loro interesse, pertanto, non è certo quello di interpretare la lettera di una legge, individuare principi astratti o proporre la soluzione di un caso sulla base di un principio giuridico; piuttosto, essi mirano a convincere i giudici, i quali, essendo a loro volta privati cittadini e molto spesso essi stessi digiuni di diritto, sono spesso condizionati nella decisione del caso dagli artifici retorici e dalle efficaci tecniche di persuasione che i logografi mettono in campo.
Non vi è dubbio che, anche se non redatte da giuristi, le orazioni giudiziarie scritte dai logografi siano per noi un’importantissima fonte di conoscenza del diritto dell’Atene del V e IV secolo. Tuttavia, proprio per il fatto che i logografi sono retori e il loro fine è persuadere, le informazioni che provengono dalle loro orazioni devono essere di volta in volta vagliate con estrema cautela.
Non è raro, infatti, che il logografo, approfittando da un lato della propria abilità e dall’altro dell’incompetenza giuridica dei giudici, forzi il senso di una legge vigente, interpretandola in modo più o meno arbitrario a favore del proprio cliente, ovvero a sfavore della controparte; oppure, addirittura, giunga a fare riferimento a leggi inesistenti.
L’attenzione da usare nell’esame dei dati di interesse giuridico presenti nelle orazioni giudiziarie è peraltro necessaria per tutte le opere che, al pari di quelle dei logografi, devono essere considerate fonti di cognizione “atecniche” o “extragiuridiche”: espressione con la quale si fa riferimento alle opere di carattere letterario, storico, filosofico, linguistico o erudito da cui solo indirettamente si evince l’esistenza di regole giuridiche, e che vengono pertanto contrapposte alle fonti di cognizione “tecniche” o “giuridiche”, rappresentate dai documenti e dalle opere degli esperti di diritto in cui sono riferite in modo diretto leggi e istituti giuridici.
È indubbio che l’inesistenza di una classe di giuristi in Grecia riduca la quantità di fonti tecniche di conoscenza a nostra disposizione; tuttavia, la grande mole di epigrafi contenenti testi di legge e l’abbondanza delle informazioni ricavabili dalle fonti atecniche rendono tutt’altro che impossibile la ricostruzione del diritto greco, sin dai momenti più remoti della sua formazione, ossia sin dall’epoca micenea (tra il XVI e il X sec. a.C.).
Nel 1952 un architetto inglese appassionato di antichità greche, Michael Ventris, annuncia alla BBC di essere riuscito in un’impresa nella quale molti grecisti e glottologi insigni hanno fallito: egli ha decifrato la scrittura che compare sulle tavolette di argilla rinvenute in molti antichi palazzi della Grecia peninsulare (Pilo, Micene, Tirinto) e di Creta (Cnosso), e collocabili – sulla data precisa non vi è accordo – tra il 1350 e il 1250 a.C. Contrariamente a quanto fino a quel momento si è creduto, la scrittura sillabica delle tavolette – denominata lineare B – sottende la lingua greca; e la comprensione di quel che su di esse è scritto – sostanzialmente operazioni finanziarie e contabili dei palazzi, dal momento che le tavolette sono dei registri ufficiali compilati annualmente dagli scribi del regno – getta notevole luce sulla struttura gerarchica, il sistema politico e l’organizzazione economica del mondo miceneo.
La società micenea è una sorta di società feudale a struttura piramidale, al vertice della quale sta un sovrano, chiamato wanax – in greco anax – affiancato dal lawagetas (forse da identificare in un comandante militare) e dai sacerdoti.
Al potere del wanax sono soggetti – in una condizione di quasi sudditanza – gli abitanti del palazzo e il resto della popolazione che abita nelle campagne circostanti, tutti tenuti a prestare al sovrano delle corvée in cambio della protezione che questi garantisce loro.
Costoro possono avere a loro disposizione un appezzamento di terra da coltivare, dato loro in concessione dal damo, “popolo”, dietro pagamento di un corrispettivo; del fondo, tuttavia, essi non divengono proprietari, dal momento che non possono disporne né mortis causa né inter vivos. Una sorta di diritto di proprietà, esente dalla necessità di una controprestazione – ma con caratteristiche per il resto diverse rispetto a quelle che noi siamo soliti attribuire a esso – è invece appannaggio di alcune categorie sociali privilegiate, come i sacerdoti.
Qualche tempo dopo l’improvvisa distruzione dei palazzi – dovuta a cause non ancora del tutto chiarite – e la conseguente scomparsa della civiltà micenea, si sviluppa una nuova civiltà, con caratteristiche strutturali ben diverse – e solo qualche sporadico elemento di continuità – rispetto a quella precedente. La sua realtà politica, sociale e giuridica può essere ricostruita grazie ai poemi omerici, Iliade e Odissea, la cui importanza è fondamentale non solo per i filologi e gli storici, ma anche per gli storici del diritto. Omero , infatti, riferisce informazioni preziosissime sulle regole di comportamento universalmente rispettate nel mondo che egli descrive; regole che, benché non scritte e non imposte autoritariamente da una struttura statale forte, vanno tuttavia riconosciute come pienamente “giuridiche”.
Nella società omerica, animata da valori competitivi piuttosto che collaborativi e nella quale è importantissimo dare continua dimostrazione sociale del proprio onore (in greco timè), una regola fondamentale del comportamento sociale è la vendetta: chi subisce un torto deve vendicarsi, se non vuole dare pubblica dimostrazione di debolezza ed essere quindi fatto bersaglio di nuovi attacchi.
Ma già Omero attesta che, per porre fine alle faide determinate dalle continue vendette, inizia a diffondersi la prassi di offrire all’offeso un prezzo di riscatto, chiamato poiné, che questi è libero di accettare o di rifiutare, e la cui accettazione comporta però la definitiva rinuncia alla vendetta. Proprio in tale consuetudine, che ha consentito il superamento dell’etica della vendetta, può essere individuata la genesi delle prime regole giuridiche di età successiva.
A partire dall’VIII secolo a.C. le diverse città della Grecia diventano poleis e pertanto assumono la forma e le caratteristiche tipiche che i Greci – e noi dopo di loro – attribuiscono alla loro forma più alta di organizzazione statale. La maggior parte delle poleis greche è inizialmente retta da monarchie, a cui si sostituiscono poi regimi di stampo aristocratico; ben presto, tuttavia, la pressione del popolo che lamenta ingiustizie e soprusi da parte dei detentori del potere causa pesanti tensioni sociali, e ogni polis sente presto l’esigenza di nominare un individuo super partes, un legislatore e mediatore, incaricato di scrivere leggi a garanzia di una maggiore equità sociale.
La tradizione indica il più antico legislatore greco in Zaleuco di Locri Epizefiri, il quale, nel dare leggi alla sua città, stabilisce pene fisse per ogni reato previsto.
Proprio le colonie della Magna Grecia e della Sicilia sono state le prime ad avere leggi, evidentemente perché lì, ove popolazioni diverse e tradizioni diverse si mescolano, è più fortemente sentita l’esigenza di fissare una volta per tutte delle regole certe. Così, dopo Zaleuco, nel corso del VII secolo a.C. opera a Catania Caronda, lodato da Aristotele per la sua acribia, le cui leggi sono poi adottate da molte altre città magnogreche e siceliote. Probabilmente egli è anche autore di una legge sull’omicidio, della quale, forse, si conservano tracce in un’iscrizione bustrofedica riportata su alcune lamine bronzee oggi conservate al Museo Archeologico di Siracusa. Da Reggio Calabria proviene poi Androdama, che viene chiamato come legislatore dalle città calcidesi della Tracia.
Nelle colonie orientali, una singolare legge di Cuma eolica stabilisce che chi sia accusato di omicidio venga giudicato colpevole se il suo accusatore produce un certo numero di testimoni; e una legge in vigore a Mitilene, la cui paternità va attribuita a Pittaco, fissa una pena doppia per i reati commessi in stato di ebbrezza.
Nella madrepatria, il movimento di codificazione riguarda moltissime città, tra cui Tebe – ove autore delle leggi è Filolao di Corinto – e, soprattutto, Sparta e Atene. Quest’ultima, nel 621/620 a.C., riceve da Draconte le prime leggi scritte, tra le quali grande fortuna ha quella che disciplina l’omicidio: abolendo la vendetta privata, Draconte stabilisce che l’omicida sia giudicato da un tribunale e punito diversamente a seconda che il suo reato sia stato ritenuto volontario – nel qual caso la pena prevista è la morte – o involontario – per cui la condanna è l’esilio.
Dopo Draconte, molti statisti concorrono con apporti importanti e sostanziali alla formazione del diritto ateniese di età classica; tra loro vanno ricordati almeno Solone, che abolisce la schiavitù per debiti e le ipoteche sui terreni, migliorando notevolmente in questo modo le condizioni di buona parte della popolazione contadina di Atene; Clistene, autore di una fondamentale riforma costituzionale, che garantisce la partecipazione del popolo alla cosa pubblica; e Pericle, la cui legge più importante (del 451 a.C.) riguarda l’accesso alla cittadinanza, alla quale possono da quel momento in poi partecipare solo coloro che siano nati da genitori entrambi ateniesi (in precedenza, invece, sono Ateniesi anche i figli di matrimoni misti). È l’opera di questi legislatori a fare di Atene la patria della democrazia e, al contempo, il regno della isonomia, ossia dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.
Caratteristiche molto diverse rispetto a quelle di Atene ha il diritto della città dorica di Sparta. La paternità di tutte le leggi spartane è ascritta a Licurgo, legislatore a cui la tradizione attribuisce tratti ampiamente leggendari.
La costituzione di cui si dice essere stato autore ci è per buona parte tramandata da Plutarco in quella, tra le Vite Parallele, a lui dedicata; tale costituzione, comunemente denominata “grande rhetra” o eunomia, “buona costituzione”, rappresenta il fondamento dell’ordinamento aristocratico e militare spartano; in esso la posizione di preminenza assoluta spetta agli Spartiati, gli homoioi, ossia gli “uguali” di Sparta, gli unici a cui è consentito l’accesso alle assemblee cittadine del popolo (apella) e del senato (gerusia), gli unici che partecipano alla vita pubblica di Sparta tramite i sissizi – pasti comuni tipici riservati ai soli Spartiati –, gli unici a cui è consentito accedere alla rigida educazione spartana, la agogè, che inizia a sette anni e serve a formare il perfetto guerriero spartano. Sparta non è peraltro l’unica città dorica del cui ordinamento siamo a conoscenza.
Infatti, nel 1884 un fortunato ritrovamento della scuola archeologica italiana ha riportato alla luce, nella città cretese di Gortina, una grande epigrafe, ancora oggi visibile in situ e nota con il nome di Codice di Gortina. Si tratta di una cospicua iscrizione che risale alla metà del V secolo a.C. e che contiene una ricca serie di disposizioni, soprattutto relative al diritto di famiglia. È proprio la dettagliata disciplina contenuta in questo codice ad autorizzare il confronto tra diritto attico e diritto dorico, che, se da un lato mette in luce l’esistenza di indubbi punti di contatto tra i due ordinamenti, d’altro canto fa risaltare anche la notevole distanza tra le leggi delle due città: a Gortina, e in generale nell’area dorica, per esempio, le donne godono di una libertà molto maggiore rispetto alle loro colleghe ateniesi, tanto che, almeno in alcuni determinati e circoscritti casi, è addirittura loro accordata la facoltà di sposare uno schiavo, fatto che ad Atene sarebbe semplicemente impensabile.
Il tracollo di Atene dopo la sconfitta nella guerra del Peloponneso – il conflitto che la vede protagonista insieme a Sparta tra il 431 e il 404 a.C. –, il conseguente venir meno della sua leadership tra le città democratiche di Grecia e le sempre più frequenti discordie tra le diverse poleis greche, permettono ai sovrani macedoni, nel corso del IV secolo a.C., di affermarsi sullo scenario politico e militare ellenico: le vittorie belliche e le conquiste di Filippo II di Macedonia prima, e di suo figlio Alessandro poi, causano la definitiva scomparsa delle città – stato, al posto – delle quali sorgono – a brevissima distanza dalla morte di Alessandro Magno – i regni ellenistici: Egitto, Siria e Asia Minore, Macedonia.
Ogni comparto della cultura, ovviamente, risente in modo notevole dei bruschi e radicali cambiamenti di questo periodo, che investono tanto la dimensione pubblica quanto la vita privata dei singoli. Da tali cambiamenti non può essere esente il diritto, se solo si pone attenzione al fatto che perde completamente importanza l’opposizione, fondamentale nel diritto dell’età precedente, tra il cittadino libero, partecipe della vita politica, e lo schiavo, al quale quella partecipazione è negata; e che la morte della polis sminuisce, anche, la centralità dell’oikos, la “famiglia”, che della polis è ritenuta cellula fondante e costitutiva.
Questo non comporta, tuttavia, stravolgimenti radicali rispetto al passato: i cambiamenti politici e costituzionali non fanno altro se non accelerare la crisi che già molte poleis stanno vivendo; né questo comporta un’involuzione in senso deteriore del diritto, che, al contrario, si arricchisce di molti elementi nuovi: infatti, non più limitato ai confini ristretti di una sola polis o di un’unica stirpe, esso può assorbire e inglobare le abitudini di popoli molto diversi tra loro per estrazione e provenienza, e di fatto muta la sua sostanza perché si diffonde su un terreno molto più ampio rispetto all’età precedente.
In effetti, proprio il venir meno del particolarismo a cui le città -stato non hanno mai voluto rinunciare permette al diritto di acquisire tratti di forte omogeneità e unitarietà: l’incontro tra le consuetudini degli immigranti greci che giungono, e spesso si stabiliscono, nelle più lontane province orientali conquistate da Alessandro, e le tradizioni locali, che tendenzialmente vengono preservate e protette, contribuisce alla formazione di un diritto nuovo.
Un diritto che è stato definito “comune”, una koinè, e che per questo si inscrive perfettamente nel clima dell’ellenismo, nel quale molte differenze tipiche dell’età della polis – non solo sul piano giuridico, ma anche, per esempio, su quello linguistico – vengono superate.