Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sia il pensiero di Freud che l’opera letteraria di autori come Proust hanno portato alla riconsiderazione in termini contemporanei della memoria. Le drammatiche esperienze della prima guerra mondiale e, soprattutto, della seconda, con lo sterminio di massa degli ebrei, hanno poi innescato un vivace dibattito che riguarda la riflessione sulla natura stessa della storia e il suo rapporto con la memoria.
Le origini del dibattito novecentesco sulla memoria
Si deve essenzialmente alla psicologia del Novecento, nel suo movimento di definizione quale disciplina autonoma per oggetto e per metodologie di indagine, la riconsiderazione in termini contemporanei del problema della memoria. Basterà in questo senso ricordare il costante interesse che, dai suoi primi scritti degli ultimi anni del XIX secolo fino alle note sui disturbi della memoria nel 1936, Sigmund Freud porta a questo tema, per comprendere quanto la riflessione novecentesca sulla memoria abbia a suo imprescindibile fondamento la conoscenza dei meccanismi di ordine neurobiologico o di ordine più strettamente psicologico che ne sono all’origine.
L’interesse che Marcel Proust porta alle novità che emergono in questo ambito nei primi anni del Novecento spiega, dunque, in qualche misura l’irruzione del tema della memoria nella cultura del secolo avvenga attraverso la scrittura letteraria. La ricerca del tempo perduto (concepita probabilmente già a partire dal 1908 e il cui primo volume, Dalla parte di Swann, esce nel 1913) si nutre di una dimensione della memoria, e particolarmente della memoria dell’infanzia, quale esperienza costitutiva della vita individuale, che accoglie e riflette alcuni significativi elementi dell’impianto esplicativo dei comportamenti umani che Freud stava elaborando in quegli stessi anni. Allo stesso modo può osservarsi che la lezione di Jung si ritrova lungo il percorso intellettuale dello storico dell’arte, e particolarmente dell’arte italiana del Rinascimento, Aby Warburg. Nel caso di Warburg, infatti, la sua ricerca delle costanti archetipiche che spiegano l’opera d’arte e l’arricchiscono di significati, per così dire, sotto traccia, che una superficiale lettura non arriverebbe a cogliere, propone un modello di memoria collettiva frutto della ripetuta e ripetitiva elaborazione nel corso del tempo di costanti formali e concettuali che appartengono alle origini della civilizzazione umana.
La memoria collettiva
La memoria collettiva è il titolo dell’opera fondamentale (uscita postuma nel 1950) del sociologo francese Maurice Halbwachs nella quale il tema del rapporto tra memoria individuale e memoria collettiva viene vigorosamente affrontato e risolto attraverso l’analisi della genesi e dei condizionamenti sociali della formazione del ricorso individuale alla memoria. A differenza di Warburg, infatti, che preferiva utilizzare la cultura del Rinascimento per rinvenirvi le prime consapevoli tracce del debito che la memoria dei singoli ha in rapporto alle forme generalizzate e condivise della memoria, Halbwachs insisteva (particolarmente nel suo lavoro del 1924 I Quadri sociali della memoria) sulle radici contemporanee del fenomeno della “memoria moderna” caratterizzata, appunto, in una emergente società di massa dal formarsi di una rete di pensieri collettivi relazionati tra loro.
Più esattamente, la riflessione di Halbwachs doveva molto all’esperienza della prima guerra mondiale, una esperienza che aveva fatto emergere – non aveva tardato ad accorgersene anche uno storico come Marc Bloch – il fenomeno del condizionamento psichico collettivo tra soldati ammassati nelle trincee. In una maniera profondamente diversa è poi la seconda guerra mondiale a fare da matrice di una rinnovata riflessione sui caratteri della memoria e sul rapporto tra memoria collettiva (e pubblica) e memoria individuale (e privata). A differenza della guerra del 1914 nella quale – come si è detto – l’epicentro del tema rammemorativo è rinvenuto nella esperienza collettiva dei soldati al fronte, la seconda guerra mondiale ha nell’Olocausto, nello sterminio di massa degli ebrei, la sorgente generatrice del dibattito sulla memoria.
Memoria e Shoah
Si tratta, dunque, di un dibattito intrecciato di necessità con l’ebraismo che recupera, come è il caso di Walter Benjamin o di Hannah Arendt, autori recenti di una tradizione culturale e religiosa, quella ebraica appunto, in cui il tema della memoria è fortemente sentito e vissuto. Si può, anzi, osservare come la Shoah si trovi a essere, nella seconda metà del Novecento, al punto di origine di due distinte modalità di riflessione collettiva, l’una più interna all’ebraismo nella quale il carattere storico del dramma della seconda guerra mondiale tende a essere letto alla luce, per dir così, della lunga durata del pensiero filosofico e religioso – si pensi a scrittori e pensatori come Elie Wiesel, Yosef Haym Yerushalmi, Emanuel Levinas (1906-1995) – del popolo di Israele, e l’altra che investe, invece, la totalità del mondo contemporaneo della responsabilità di governare la memoria di quanto è accaduto con l’Olocausto, impedendo che esso possa mai essere dimenticato.
Non dimenticare è, in effetti, l’imperativo che fa da congiunzione tra questi due percorsi, tanto più a partire dagli anni Sessanta quando, con il processo ad Adolf Eichmann, il tema del genocidio ebraico diventa (forse assai più di quanto era accaduto nei giorni del processo di Norimberga) acquisizione generalizzata. Questa saldatura è, a sua volta, matrice di un’ulteriore biforcazione del discorso novecentesco sulla memoria. Laddove, infatti, si insiste sulla assoluta specificità della Shoah, sulla sua irriducibilità a qualsiasi altro evento tragico, si sviluppa il motivo della sua indicibilità e, dunque, di una memoria che per il carico di sofferenza e, ancor, più per lo straordinario segno testimoniale di cui questa sofferenza è caricata, non può che essere pratica dell’individuo, negandosi a ogni uso pubblico. All’opposto, dove l’Olocausto si è, per così dire, aperto pienamente, anche se non esclusivamente, alla dimensione storica ed è, dunque, entrato in rapporto con i drammi del proprio tempo, e particolarmente con quelli coevi del secondo conflitto mondiale, la questione della conservazione della memoria nella forma di una memoria pubblica e condivisa si rivela fondamentale.
Storiografia e memoria
È, del resto, a partire da questa seconda modalità di discorso che la riflessione sulla memoria è diventata anche (o sotto certi aspetti è tornata a essere) oggetto di dibattito tra gli storici. È un dibattito nel quale si ritrovano, peraltro, elementi significativi della riflessione psicologica e sociologica della prima metà del secolo soprattutto intorno al nodo decisivo del rapporto tra memoria e oblio. Appare, infatti, sempre più evidente che la costruzione di uno spazio pubblico della memoria avviene assai più per dimenticanze che per rammemorazioni ed è una operazione altamente selettiva che chiama in causa tutti i fattori e tutti i protagonisti della scelta. L’imperativo etico del non dimenticare si trasforma, così, nella questione epistemologica del cosa e come ricordare.
Nell’ambito del discorso propriamente storico, dunque, la riflessione sulla memoria non tarda a diventare una riflessione sulla natura stessa della storia, quale forma non accumulativa ma selettiva di sapere. Si è aperta una vivace discussione sui caratteri socialmente determinati di questo sapere che si è tradotta nella individuazione di fonti alternative (storia orale, storia di genere) a quelle consuete come possibilità di costruzione di una storia diversa da quella “ufficiale”. Si sono utilizzati i nuovi strumenti della semiologia (si veda, per tutti, il tema della invenzione della tradizione) per una decriptazione del discorso storico che togliessero a esso la patina di una presunta oggettività e lo riconducessero a quegli elementi di contesto materiale e sociale che determinano la scelta di ciò che si conserva e ciò che si perde nel circuito storia-memoria.
È, tuttavia, difficile affermare che pure in tanta ricchezza di apporti il tema della memoria moderna giunga, con la fine del secolo, a una definitiva sistemazione. L’adozione del “giorno della memoria” fissato al 27 gennaio, data strettamente legata alla Shoah (fu, infatti, il 27 gennaio 1945 che le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz rendendo a tutti visibile l’enorme tragedia del genocidio ebraico), non ha chiuso il dibattito sul rapporto tra memoria ed ebraismo e anzi, per il suo carattere istituzionale, sembra destinata a rinnovare i termini della riflessione su quel paradigma ineludibile della memoria novecentesca che è la Shoah. Nello stesso tempo il rinnovamento storiografico di fonti e metodi non sembra aver sciolto in maniera soddisfacente il nodo storia-memoria. A stare alle osservazioni di un pensatore come Zygmunt Bauman – figura, peraltro, tra le più rilevanti della cultura ebraica alla fine del XX secolo – si ha, anzi, l’impressione che nell’affermarsi di nuovi canoni di lavoro si sia riprodotta l’ambiguità di una storia oggettivata accumulativa, opposta a una memoria ridotta a spazio privato della selezione, mentre rimane ancora auspicabile un incontro tra grande e piccola storia, tra memoria e storia capace di riconoscere che la memoria è storia in atto.