Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il dibattito medievale sull’infinito fra XIII e XIV secolo si fonda sulla ricezione del pensiero aristotelico espresso nel De Caelo e nella Fisica e si sviluppa in ambito scolastico. Il concetto di infinito viene utilizzato in diverse applicazioni teoriche e dispute filosofiche, come quella sulle dimensioni temporali dell’universo e la sua eternità o quella sulla struttura del continuo e l’infinita divisibilità.
Thomas Bradwardine
Dio contiene tutte le cose
De causa Dei contra Pelagium et de virtute causarum
Quindi dio per natura si trovava là [nel luogo in cui opera] prima di creare e prima che vi fosse la creatura, oppure avvenne il contrario. Se vi fu prima per natura, ciò non fu a causa della creatura né della creazione ma per se stesso e tale sua presenza non ebbe un inizio temporale in quanto dio, in questo caso, avrebbe subito un mutamento. Vi fu dunque eternamente e per se stesso e, per la stessa ragione, fu eternamente per se stesso ovunque nel vuoto o luogo immaginario infinito, e ancora è ovunque al di fuori del mondo.
Quindi dio è necessariamente, eternamente, infinitamente ovunque nel luogo immaginario infinito e per questo può veramente essere detto onnipresente e onnipotente. In certo modo, per un motivo analogo, può essere detto infinito, infinitamente grande o di grandezza infinita, anche se l’estensione deve essere intesa in senso metafisico e improprio. Infatti dio è infinitamente esteso senza estensione e dimensione. Coesiste simultaneamente e interamente alla grandezza infinita, alla estensione immaginaria e ad ogni sua parte, e per questa ragione può essere detto immenso, in quanto non misurato né misurabile con alcuna misura, e incircoscritto, poiché nulla lo abbraccia completamente né può essere circoscritto da qualcosa; egli piuttosto circoscrive, contiene e circonda tutte le cose.
in M. Parodi, Tempo e spazio nel Medioevo, Torino, Loescher, 1981
Il dibattito medievale sul concetto di infinito affonda le sue radici nella ricezione critica della teoria aristotelica, presentata nei primi tre capitoli del I libro del De caelo e nel III e VI libro della Fisica. Se l’esistenza dell’infinito matematico è qui considerata come universalmente ammessa, quella dell’infinito fisico costituisce invece un problema particolarmente spinoso. Così come lo leggono, in latino, i pensatori scolastici, Aristotele insegna che non esistono magnitudines infinitamente grandi perché l’universo è infinito, mentre esiste l’infinitamente piccolo perché ogni quantità continua (quantum continuum) può venire ulteriormente divisa illimitatamente. Nel caso delle grandezze discrete (cioè la serie dei numeri interi) avviene invece il contrario: non esiste un numero infinitamente piccolo ma ne esiste uno infinitamente grande (quelle magnitudines infinitamente piccole che si generano nell’incessante divisione del continuo e il cui numero diventa infinitamente grande). La serie dei numeri è dunque infinita verso l’alto ma limitata verso il basso, mentre il continuo è limitato verso l’alto ma divisibile all’infinito.
L’infinitamente grande dei numeri (infinitum per oppositionem) e l’infinitamente piccolo delle magnitudines (infinitum per divisionem) non sono un infinito attuale ma potenziale: la serie dei numeri cresce infatti all’infinito senza mai raggiungere realmente questo infinito e la divisione del continuo procede verso l’infinitamente piccolo senza mai trovare un termine in grandezze ultime infinitamente piccole. Si tratta dunque di un infinito potenziale che diviene attuale in un processo successivo (successive) ma che non è mai infinito in atto simultaneamente (simul): non è un infinito in facto esse (categorematico, in sensu composito) ma un infinitum in fieri (sincategorematico, in sensu diviso).
I lettori scolastici di Aristotele riformulano questa problematica e chiariscono che l’infinito sincategorematico deve significare, rispettivamente, una grandezza di cui non si può avere la maggiore (tantum quod non maius) nel caso dei continui e una pluralità di cui non si può avere la maggiore (tot quod non plura) nel caso delle grandezze discrete; l’infinito categorematico significa invece, rispettivamente, una grandezza tale da non poterne avere la maggiore (non tot quin plura). Viceversa, l’infinitamente piccolo attuale significa così piccolo che non se ne può avere il minore (ita parvum quod non minus) e quello potenziale significa non così piccolo che non se ne possa avere il minore (non ita parvum quin minus). Il termine “infinito” designa dunque rispettivamente “grande” o “piccolo” a piacere, ma mai “così grande” o “così piccolo” che non esista un valore ancora più grande o ancora più piccolo.
Salvo che in quello del continuo, in ogni altro caso l’esistenza dell’infinito in atto è categoricamente esclusa. Nell’universo creato esistono pertanto grandezze infinite solo in potenza e questa potenzialità deve essere correttamente intesa come un fieri infinito che non raggiunge mai il suo termine, oppure come una potenza che non può mai essere completamente realizzata (per esprimere il modo d’essere di questi infiniti la scolastica parla di actus permixtus potentiae).
Se molti maestri del XIII e del XIV secolo evidenziano la contraddittorietà dell’infinito in atto, ci sono tuttavia anche alcuni pensatori che, in rotta con la tradizione aristotelica, difendono l’infinito attuale. Particolare è il caso del francescano Riccardo di Mediavilla, tra i primi ad ammettere che l’universo può espandersi al di là di ogni limite attualmente assegnato, senza che ciò implichi l’idea di un mondo attualmente infinito. Più in là nel tempo e con esiti più radicali, Giovanni di Bassoles, Robert Holkot e Gregorio da Rimini si dichiareranno apertamente sostenitori dell’infinito attuale, interrogandosi circa la possibilità di un infinito in atto rispetto a numeri e quantità (multitudines), grandezze estensive e spaziali (magnitudines), grandezze intensive, grandezze temporali.
Il concetto di infinito trova una delle sue applicazioni teoriche più feconde nel dibattito scolastico sulle dimensioni temporali dell’universo. Fondandosi sulle conclusioni tratte da Giovanni Filopono e sviluppate dal pensiero arabo ed ebraico, Bonaventura ha il merito di valorizzare il concetto di infinito come uno strumento decisivo nella disputa sulla durata del mondo.
I cinque cosiddetti “paradossi dell’infinito”, teorizzati nel suo Commento alle Sentenze (1250-1254), mirano a dimostrare l’incompatibilità fra l’eternità del mondo e gli assiomi aristotelici sull’infinito. Il primo paradosso – “è impossibile portare aggiunte all’infinito” – rimarca che, come insegna il De caelo, l’infinito è una grandezza di cui non si dà il maggiore: se il mondo fosse eterno, la sua durata sarebbe però infinita e tuttavia crescerebbe giorno dopo giorno. Il secondo paradosso – “è impossibile ordinare l’infinito” – sottolinea come per ordinare una serie sia necessario un primo elemento: se il mondo fosse eterno, la serie delle rivoluzioni celesti sarebbe invece infinita e non ordinata. La terza argomentazione – “è impossibile percorrere l’infinito” – è basata sul principio della non attraversabilità dell’infinito: se il mondo fosse eterno, la serie infinita delle rivoluzioni celesti non avrebbe potuto essere attraversata e non si sarebbe mai giunti alla rivoluzione odierna. La quarta argomentazione – “è impossibile che l’infinito venga conosciuto da una potenza finita” – evidenzia come, secondo la cosmologia aristotelica, le rivoluzioni dei corpi celesti siano prodotte da motori identificati con sostanze intellettuali: se il mondo fosse eterno, queste sostanze non potrebbero conoscere la serie delle rivoluzioni da loro causate. Il quinto paradosso – “è impossibile che esistano simultaneamente più infiniti” – è particolarmente degno di nota nella misura in cui stabilisce una connessione tra la difesa dell’eternità del mondo, vari errori in campo psicologico e la negazione dell’economia della salvezza su cui si fonda la religione cristiana. Secondo la quinta ratio, se il mondo fosse eterno, sarebbero infatti esistiti infiniti uomini, e quindi esisterebbe l’insieme infinito delle loro anime immortali.
La formulazione dei paradossi ad opera di Bonaventura non è esente da critiche. Numerose obiezioni vengono sollevate da Tommaso d’Aquino. Circa l’esistenza di serie infinite i due autori difendono posizioni alternative: laddove il francescano rifiuta qualsiasi serie infinita, il domenicano ammette invece serie infinite i cui elementi non esistano o non agiscano simultaneamente e ritiene quindi possibili il compimento di un’azione con infiniti strumenti, la generazione successiva di infiniti uomini, il susseguirsi infinito delle rivoluzioni celesti, il rincorrersi infinito degli istanti, successivamente attuali nell’eterno flusso del tempo.
L’eternità del passato che per Bonaventura costituisce un’infinità attuale, per Tommaso è invece solo potenzialmente infinita. Fedeli all’impostazione bonaventuriana, anche altri maestri francescani (Guglielmo di Baglione, Guglielmo de la Mare, Giovanni Pecham, Matteo d’Acquasparta, Pietro di Giovanni Olivi) ripensano criticamente l’eventualità che si dia nella realtà un infinito attuale (come l’eternità del mondo ex parte ante), rimettono in discussione l’agnosticismo tomista e rimarcano il fallimento di Tommaso nel suo tentativo di superare i paradossi dell’infinito.
Se nel corso del XIII secolo l’uso crescente di argomenti antieternalisti costruiti a partire dagli assiomi aristotelici sull’infinito conduce a un approfondimento di questo stesso concetto, nel Trecento si assiste a un compiuto superamento della teoria aristotelica. Le riletture critiche dei maestri scolastici riguardano soprattutto quella sezione del VI libro della Fisica dedicata alla struttura del continuo. Esso è infinitamente divisibile nel senso che ogni sua parte, per quanto piccola, è sempre ulteriormente divisibile all’infinito – e il continuo è quindi composto da parti sempre divisibili (semper divisibilia) – oppure la divisibilità trova un termine nell’infinito e dunque il continuo consiste di punti (indivisibilia)? Fedeli alla soluzione aristotelica, la maggior parte dei filosofi del XIII e XIV secolo (Ruggero Bacone, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Sigieri di Brabante, Egidio Romano, Riccardo di Mediavilla, Duns Scoto, Walter Burley, Guglielmo di Ockham, Giovanni Buridano, Nicola Oresme, Alberto di Sassonia, Tommaso Bradwardine, Guglielmo di Heytesbury, Marsilio di Inghen) ritengono che il continuo sia effettivamente divisibile all’infinito e che quindi lo compongano semper divisibilia e non indivisibilia. Altri maestri si pronunciano invece a favore della compositio ex indivisibilibus. Alcuni affermano (sulla scia di Platone) che il continuo corporeo consiste di superfici, le superfici di linee, le linee di punti: in ultima analisi, ogni continuo è quindi fatto di punti (è il caso di Roberto Grossatesta, Enrico di Harclay, Gerardo di Odone, Walter Chatton, Nicola di Autrecourt). Altri invece (al seguito di Democrito) sostengono che il continuo corporeo deve consistere di corpi ultimi indivisibili, la superficie di superfici indivisibili, la linea di linee indivisibili, e che quindi ogni continuo è costituito di grandezze della stessa specie dell’intero, quantitativamente non ulteriormente divisibili (è il caso di Gregorio da Rimini, Richard Kilvington, Nicola Boneto).
Gli anni 1315-1335 sono i più fervidi del dibattito sulla composizione del continuo. Enrico di Harclay non è il solo rappresentante della tradizione finitista: come lui, anche Walter Chatton (pesantemente attaccato da Adam Wodeham nel De indivisibilibus), Gerardo Odone, Nicola Boneto e Nicola d’Autrecourt ritengono che il continuo sia composto da un numero finito di indivisibili. Contro tutti costoro (e non contro Guglielmo di Ockham) è diretta la critica di Thomas Bradwardine, che nel Tractatus de continuo (1328-1335) si avvale di modelli matematici per dimostrare la fallacia degli argomenti degli atomisti contro la divisibilità dell’infinito. Nel De causa Dei contra Pelagium et de virtute causarum (1338-1344) Bradwardine propone invece una concettualizzazione teologica del concetto di infinito.
Contrapponendosi alla dottrina aristotelica, che non ammette luogo e vuoto alcuno fuori dal cielo, Bradwardine ipotizza l’esistenza di un luogo immaginario al di fuori del mondo, che, privo di qualsiasi natura positiva, è occupato ovunque (necessario, actualiter e infinite) da Dio, onnipresente e onnipotente. Nella dimostrazione emerge una concezione tipicamente matematica dello spazio: il vuoto immaginario al di là dello spazio finito del mondo è uno spazio perfettamente attuale e in cui già prima della creazione vi erano luoghi tra loro differenti. In conformità alla tradizione geometrica euclidea, questo spazio è considerato infinito.
Per la sua risonanza storica la tesi di Enrico di Harclay merita particolare attenzione. Nel Commento alle Sentenze (1310) egli propone un’attenta analisi del problema della possibile eternità del mondo, afferma che non esiste alcun motivo di negare l’infinità attuale del tempo passato né che esso sia stato attraversato, e divulga una convinta difesa dell’infinitismo. Nella questione se “il mondo potrebbe durare in eterno nel futuro (a parte post)?” Enrico sostiene che il continuo si compone di un infinito numero di indivisibili che sono immediatamente successivi l’uno all’altro. Pur ritenendo più persuasivi quelli contrari, egli non nega che gli argomenti aristotelici sulla composizione del continuo abbiano una qualche validità: pensa ciononostante che valgano per le quantità naturali, comprensibili all’uomo, ma che siano da rimettere in discussione quando si ragioni sugli infiniti che possono essere creati dall’onnipotenza divina. Giocando con insistenza sulla nozione di potentia Dei absoluta, Enrico conclude infatti che le tipologie di infinito che per noi sono inconcepibili non lo sono per un Dio che ha una conoscenza perfettamente determinata dell’infinito stesso.
Sempre nel Commento alle Sentenze Enrico difende inoltre la convinzione che esistano alcune forme di infinito attuale e sostiene infine una tesi, quella della disuguaglianza degli infiniti, destinata a sollevare forti obiezioni e resistenze. Secondo il ragionamento di Enrico, data una quantità infinita, è sempre possibile aggiungerle o toglierle quantità finite: l’infinito è pertanto suscettibile di aggiunte, sottrazioni, moltiplicazioni, eccessi e difetti. In altri termini, una quantità infinita può essere maggiore di un’altra e può contenerla in una relazione inclusiva tutto/parte; tra quantità infinite possono inoltre sussistere rapporti di proporzionalità. L’ipotesi della disuguaglianza degli infiniti si fonda su una riformulazione del principio euclideo secondo il quale il tutto è maggiore della parte. Questo assioma, agli occhi di Enrico valido solo nel finito, non sarebbe altro che una versione particolare di un principio più generale, alla luce del quale occorre pensare l’uguaglianza tra gli infiniti: ciò che contiene qualcos’altro, e qualcosa oltre o in addizione a quel qualcos’altro, è rispetto a quel qualcos’altro il tutto.
Se Thomas Wylton, pur dichiarandosi alquanto perplesso circa le conclusioni di Harclay, lo contesta garbatamente, Guglielmo di Alnwick nelle Determinationes avvia invece una polemica ben più radicale, colpendo in particolare proprio l’interpretazione che Harclay aveva dato dell’assioma euclideo sul tutto e le parti. A suo avviso, onde evitare pericolosi equivoci, i termini “oltre” e “in addizione” non possono essere usati come sinonimi: una quantità infinita può infatti contenere alcuni elementi “in addizione” a un’altra senza perciò essere necessariamente più numerosa di quest’altra, e dunque senza “oltrepassarla”. Nel distinguere tra insiemi infiniti che contengono elementi in addizione rispetto ad altri insiemi infiniti senza però oltrepassarli e insiemi infiniti che invece si oltrepassano, Guglielmo anticipa un’idea che, più in là nel tempo, si rivelerà assolutamente decisiva: la relazione che sussiste tra un insieme infinito e un suo sottoinsieme anch’esso infinito non è la stessa che si dà tra due insiemi infiniti che non stiano fra loro in un rapporto di inclusione. L’infinitista più radicale del XIV secolo, Gregorio da Rimini, propone una faticosa ma compiuta formulazione di questa stessa idea. Nel suo Commento alle Sentenze (1343-1344), egli cerca inoltre di spiegare come alcuni infiniti possano esistere come parte di altri infiniti e ammette, come Enrico di Harclay, l’infinito in atto.