Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le riflessioni sulla natura del linguaggio animano la scena culturale tedesca tra la fine Settecento e la metà del secolo successivo. I protagonisti del dibattito si muovono attorno ad alcune questioni cruciali: la ricerca di un’origine comune e “mitologica” del linguaggio ma al contempo la consapevolezza della dimensione storica ed eterogenea delle lingue; la visione del linguaggio come opera collettiva e dinamica; la querelle sulla sua natura acquisita o innata, che si traduce nel dibattito tra i sostenitori della sua genesi divina (Hamann e Fichte) e quelli che ne sottolineano il carattere umano e storico (Grimm e Herder), fino a posizioni mediatrici come quella di Schelling. Non ultimo, è sempre in questo periodo che le ricerche sul sanscrito, sulla genealogia e sulla struttura interna delle forme del linguaggio di Friedrich Schlegel e di Wilhelm von Humboldt aprono la strada agli studi della moderna linguistica storica.
Una storia à rebours
Jacob Grimm
Sull’origine del linguaggio
Se ammettiamo che il linguaggio sia stato creato, allora la sua prima origine rimarrebbe impenetrabile al nostro sguardo quanto il primo albero o animale creato. Ma nel caso che il linguaggio non sia stato creato, e che quindi non sia scaturito dall’immediata volontà divina, bensì prodotto e formato dalla stessa libertà umana, allora dovremmo cercare di comprendere il nostro oggetto d’indagine secondo tale principio, il che ci permetterebbe di risalire lungo tutta la storia del linguaggio, e, persino, partendo dalle più antiche testimonianze linguistiche, di superare col pensiero quell’incolmabile abisso millenario, approdando infine alla riva dell’origine del linguaggio. Il linguista non deve quindi rinunciare al suo intento, ma nelle sue ricerche può anche oltrepassare lo studioso della natura, poiché da un lato egli sottopone alla sua indagine un’opera umana, prodotta non di colpo ma gradualmente, e con radici tanto nella nostra storia quanto nella nostra libertà, e poiché inoltre le creature della natura non sono libere, né conoscono storia alcuna, e mostrano quindi ancora oggi quasi lo stesso comportamento che avevano nel momento in cui vennero plasmate dalla mano del Creatore.
Jacob Grimm e F. W. J. Schelling, Sull’origine del linguaggio, a cura di G. Moretti, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2004
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling
Premesse riguardo al quesito sull’origine del linguaggio
Sull’origine del linguaggio
Che i nostri tempi siano più cauti riguardo al problema dell’origine del linguaggio, o almeno, che non ne abbiano ancora colto la vera profondità, lo possiamo forse interpretare come l’effetto di ciò che riteniamo la conseguenza più felice della filosofia attuale, e cioè che i grandi temi non possono più essere trattati, come prima, capitolo per capitolo, e isolati dal contesto generale; la filosofia deve in tal modo o rinunciare a se stessa, o sforzarsi di diventare in effetti quel capolavoro di tessitura di cui parlava Goethe, dove ogni tratto stabilisce mille rapporti. Come possiamo osservare nei primi, seri tentativi di risposta, il problema in realtà, in tutti i suoi lati, così strettamente connesso con le più profonde domande di ogni speculazione, che chiunque vi sia interessato abbandonerà ben presto il suo intento se non sarà sicuro di aver già dato in precedenza una risposta soddisfacente a quei massimi enigmi.
J. Grimm e F. W. J. Schelling, Sull’origine del linguaggio, a cura di G. Moretti, Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2004
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling
Filosofia della mitologia. Introduzione storico-critica
Se intendiamo la storia nel senso lato del termine, la filosofia della mitologia non è, in quanto tale, che la prima parte, la più necessaria e indispensabile di una filosofia della storia. Non è di alcuna utilità affermare che i miti non contengono nessuna storia, perché, in quanto nati e realmente esistiti in passato, sono essi stessi il contenuto della storia più antica; se anche si volesse circoscrivere la filosofia della storia al periodo della storia propriamente detta, non sarebbe comunque possibile fissare il momento in cui esso ha avuto inizio, né muovere anche un solo passo certo al suo interno, finché resta totalmente celato ai nostri occhi ciò che questo periodo (il periodo della storia) pone a sua volta, come passato. Una filosofia della storia che non conosca l’inizio della storia non può che essere qualcosa di totalmente infondato, qualcosa che non merita neppure il nome di filosofia. Ora, ciò che vale per la storia come totalità, deve valere anche per ogni ricerca storica particolare.
F. W. J. Schelling, Filosofia della mitologia. Introduzione storico-critica, a cura di T. Griffero, Milano, Guerini, 1998
Johann Gottfried Herder
Saggio sull’origine del linguaggio
Se poi trovassimo proprio in questo carattere [del genere umano] la ragione di quelle carenze e proprio nel cuore di esse, nel grande vuoto lasciato dalla privazione di istinti tecnici, il germe per surrogarli, allora questa coincidenza sarebbe la prova genetica che qui è riposto l’autentico orientamento dell’umanità e che la superiorità dell’uomo sugli animali non su differenze di grado bensì di genere.
E se in questa caratteristica umana scoperta trovassimo addirittura il fondamento genetico giustificante la nascita di un linguaggio per questo nuovo genere di creature, come negli istinti degli animali avevamo trovato il fondamento immediato del linguaggio di ogni singola specie, allora saremmo davvero alla meta. In tal caso il linguaggio diverrebbe essenziale all’uomo quanto il suo essere uomo. Come si può notare, nel procedimento mi avvalgo di forze assunte non arbitrariamente o per convenzione, bensì dalla grande economia animale.
E, quindi se l’uomo ha sensi che, applicati a un lembo di terra, al lavoro e al godimento di una spanna del suolo terrestre, non possono competere in precisione con i sensi dell’animale che in quello spazio vive, proprio perciò essi guadagnano la prerogativa della libertà. Proprio perché non destinati a un solo obiettivo, essi sono i sensi più incondizionati dell’universo.
J. G. Herder, Saggio sull’origine del linguaggio, a cura di A. P. Amicone, Parma, Nuova Pratiche Editrice, 1995
Johann Gottfried Herder
Metacritica
In primo luogo, non si tratta qui d’atra ragione che la ragione umana. Di diverse non ne conosciamo né possediamo; e giudicare nella ragione dell’uomo una ragione più alta e più generale significherebbe trascendere la ragione umana.
In secondo luogo, noi possiamo con il pensiero e con la parola separare per uno scopo determinato la ragione umana degli altri poteri della nostra natura; ma non dobbiamo mani dimenticare che essa non potrebbe, in natura, sussistere avulsa da altri poteri. È una e una sola l’anima che pensa e che vuole, che intende e che sente, che ragiona e desidera. […]
In terzo luogo. L’anima umana pensa con le parole. Non soltanto si esprime, ma designa se stessa e ordina i propri pensieri per mezzo della lingua. La lingua, dice Leibniz, è lo specchio dell’umano intelletto, e – oserei aggiungere – un inventario dei concetti dell’uomo, uno strumento non solo usuale ma indispensabile della sua ragione. Con la lingua impariamo a pensare, a scomporre per mezzo suo e a collegare, spesso in gran numero, i concetti. Nelle cose della ragione, pura o impura, dobbiamo dunque ascoltare questo antico, universalmente valido, indispensabile testimone, e non dobbiamo, quando si tratta di un concetto, vergognarci del suo messaggero e rappresentante, la parola che lo designa.
J. G. Herder, Metacritica, a cura di I. Tani, Roma, Editori Riuniti, 1993
Johann Georg Hamann
Due recensioni con un’aggiunta, circa l’origine del linguaggio
Dopo aver noi quindi con opportuna brevità deciso: “che il primo linguaggio, il più antico.l’originario è stato partecipato all’uomo unicamente alla maniera che ancora oggi è effettiva e quotidianamente accessibile”, si verrebbe non di meno alla domanda: “per quale via ha luogo oggi la partecipazione al linguaggio?”. In base a tutte le informazioni possibili che sono riuscito a ottenere attorno a questo punto, si danno qui al massimo tre strade: la via dell’istinto, la via dell’invenzione, la via dell’insegnamento.
Sia l’esperienza più generale che la garanzia fornita dalle eccezioni più singolari sono dichiaratamente a favore, con la testimonianza più inconfutabile, dell’ultima via, sì che sarebbe fatica sprecata soffermarsi sulle altre due.
J. G. Hamann, Due recensioni con un’aggiunta, circa l’origine del linguaggio, in Scritti sul linguaggio, a cura di A. Pupi, Bibliopolis, Napoli, 1977
Johann Georg Hamman
Ultime volontà del Cavaliere di Rosacroce attorno all’origine divina e umana del linguaggio
Se dunque l’uomo, secondo la testimonianza universale e l’esempio di tutti i popoli, tempi e paesi, non è in grado da sé solo e senza l’influsso sociale dei suoi custodi e tutori – vale a dire se non iussus – di imparare a marciare su due gambe e a spezzare il pane quotidiano senza sudore della fronte, tanto meno allora è in grado di cogliere il capolavoro del pennello del Creatore: come può dunque venire in mente di considerare il linguaggio, cet art leger, volage, demoniacle [a dirla con Montaigne sulla base di Platone] una scoperta autonoma dell’arte e della saggezza umana? […] Ogni manifestazione della natura era una parola: il segno, l’immagine sensibile, il pegno di una unione, partecipazione e comunicazione nuova, segreta indicibile di idee ed energie divine. Tutto ciò che l’uomo in principio udì, vide con gli occhi, guardò e le sue mani tastarono fu una parola vivente: perché Dio era la Parola. Con Questa Parola sulla bocca e nel cuore l’inizio del linguaggio fu naturale, prossimo, facile come un gioco di bambini giacché l’umana natura dall’alba al tramonto rimane simile al regno dei cieli come a un fermento, con la cui piccolezza ogni donna è in grado di fare gonfiare tre misure di farina.
J. G. Hamman, Ultime volontà del Cavaliere di Rosacroce attorno all’origine divina e umana del linguaggio, in Scritti sul linguaggio, a cura di A. Pupi, Napoli, Bibliopolis, 1977
Johann Georg Hamann
Metacritica sul purismo della ragione
Non soltanto l’intera facoltà di pensare poggia sul linguaggio, […] ma il linguaggio è anche il centro del disaccordo del fraintendimento della ragione con se stessa, in parte a causa della frequente coincidenza del concetto più grande con il più piccolo, della sua vacuità e abbondanza di proposizioni ideali, in parte a causa dell’infinità di figure retoriche premesse alle figure del sillogismo, e così via. Suoni e lettere sono dunque pure forme a priori in cui non si incontra nulla che appartenga alla sensazione o al concetto di un oggetto, e i veri elementi estetici di ogni conoscenza e ragione umana. […]
Le parole hanno dunque una capacità estetica e logica. Come oggetti visibili e sonori esse appartengono insieme ai loro elementi alla sensibilità e all’intuizione, ma secondo lo spirito del loro inserimento e significato all’intelletto e ai concetti. Di conseguenza le parole sono tanto intuizioni pure ed empiriche quanto concetti puri ed empirici: empiriche, perché tramite loro agisce la sensazione della vista o dell’udito; pure, nella misura in cui il loro significato non è determinato da altro che da quanto appartiene a quelle sensazioni.
J. G. Hamann, Metacritica sul purismo della ragione, trad. it. di A. Carrano
Il saggio Sull’origine del linguaggio che Jacob Grimm legge all’Accademia delle Scienze di Berlino nel gennaio del 1851 chiude idealmente il dibattito sul tema che aveva animato la scena filosofica della seconda metà del Settecento. Esso fa seguito alla breve memoria letta due mesi prima da Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, in ricordo del concorso bandito nel 1770 con il quesito: “En supposant les hommes abandonnés à leur facultés naturelles, sont-ils en état d’inventer le langage et par quels moyens parvendriont-ils d’eux même à cette invention?”. All’ultimo esponente vivente dell’idealismo classico risponde così l’insigne lessicologo, il quale non nascondeva la difficoltà insita in una questione che chiedeva, a chi la ponesse, di sprofondarsi fin nell’“abisso temporale”, andando al di là di quanto testimoniavano “i più antichi monumenti del sanscrito e dello zendo”. Il suo enigma resisteva per la “scarsa conoscenza” storica e non per l’“essenza” stessa del linguaggio, risultato dell’incessante “produzione” umana di cui bisognava solo seguire le tracce “lungo tutta la storia”. Dall’assunto del carattere storico e tramandato del linguaggio, Grimm traeva una conseguenza, ossia che il linguaggio si rifrange nella “particolarità di ogni singola lingua”, lungo un processo di “trasformazione” in cui si era attuato il progressivo allontanamento dalla “comune fonte originaria”. Chi lo avesse ripercorso all’indietro avrebbe scoperto nondimeno che l’uomo si è sempre concepito come l’ente che “pensa, e parla perché pensa”, comprendendo che il pensiero dà e riceve impulso dal “lavoro progressivo” del linguaggio. All’interno di un processo (descritto nei tre stadi dell’“attecchimento”, della “fioritura” e “germinazione”) in cui l’attività dello spirito finiva per diventare qualcosa d’inconscio, proteso chi sa come verso il traguardo della “maggiore libertà del pensiero”, secondo una visione informata al principio di economia della natura.
Inavvertitamente, Grimm ricorreva a quelle coppie di concetti (spirito/natura, conscio/inconscio) che Schelling aveva introdotto nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) per conciliare speculativamente gli opposti rappresentati da libertà e necessità. Molti anni erano trascorsi da allora, e ben diversa era la prospettiva da cui muoveva allora il vecchio filosofo, che nelle Premesse riguardo al quesito sull’origine del linguaggio (1850) lamentava anzitutto come da molto la filosofia avesse rinunciato a occuparsi di “questo problema di natura generale”. Nel seguito del suo breve intervento egli aveva ricapitolato i termini del dibattito occorso a distanza, in pieno Illuminismo, tra il vincitore del concorso (Herder) e il suo interlocutore (Hamann). Ma solo per riconoscere al secondo il merito di aver concepito – “nel suo solito modo involuto e diametralmente opposto alla discussione razionale” – un’origine “sia divina sia umana” del linguaggio, volta a integrare le tre opzioni possibili (“quella dell’istinto, quella dell’invenzione e quella dell’insegnamento”) e insieme a dipanare la matassa delle “possibilità secondarie”. Le stesse, poi, che Schelling elencava in quella specie di falso d’autore – composto sulla falsariga di “una poesia didattica e filosofica dell’età romana” ispirata al De rerum Natura di Lucrezio – con cui si chiude il suo scritto. Forse per trarsi d’impaccio da un problema di cui, per sua ammissione, si stentava ancora a cogliere “la vera profondità”. E che non avrebbe trovato adeguata risposta finché non lo si fosse “connesso con le più profonde domande di ogni speculazione”; anzi, se non si fosse “già dato in precedenza una risposta soddisfacente a quei massimi enigmi”. Sicuramente non con l’idea di darsi per vinto e abbandonare una riflessione che egli credeva di aver avviato con profitto nei corsi sulla filosofia della mitologia (Monaco, 1827-1841 e Berlino, 1841-1846): quando, ponendo nel presente la questione del suo significato originario, aveva concepito l’idea di una dialettica storica in rapporto al processo teogonico interno alla “coscienza dell’umanità originaria”, la cui “crisi spirituale” determinò la diversità dei popoli che segnò la rottura dell’“originaria unità linguistica”.
Origine umana e divina del linguaggio
Un filosofo che aveva posto la premessa dell’inizio della mitologia nell’“essere dell’uomo all’interno dell’unità divina” non poteva certo guardare con favore alle tesi espresse da Johann Gottfried Herder. Nel Saggio premiato, infatti, questi aveva esordito affermando: “Già in quanto animale l’uomo ha un linguaggio”, per dire che l’uomo non trattiene le “sensazioni fisiche violente” e le “forti passioni dell’anima”, ma le esprime all’esterno con la voce perché siano intese e condivise dagli altri con cui stabilire “una invisibile catena”. Con quest’affermazione egli non aveva inteso però equiparare l’uomo all’animale, convinto com’era che “nessun animale, neanche il più perfetto, possiede il benché minimo rudimento di un linguaggio umano vero e proprio”, e che l’espressione “linguaggio animale” è un ossimoro che porta a fraintendere la tesi della sua origine naturale. Meglio perciò assumerne una versione moderata, per evitare l’errore di quanti avevano finito per trattare “le bestie da uomini” (Condillac) o viceversa “gli uomini da bestie” (Rousseau), facendo ugualmente delle grida e dei versi i precursori delle parole; ma soprattutto meglio affrontare alla radice il problema, ponendo attenzione sull’elemento distintivo dell’uomo in confronto a ogni altra specie animale. Da questo punto di vista, l’antropologia veniva in aiuto alla riflessione, mettendo in risalto come all’uomo manchino le “attitudini” e gli “istinti tecnici innati”. Sicché, posto che non esiste un linguaggio non “specifico di una creatura”, ossia non “adatto alla sua sfera di bisogni e di occupazioni, all’organizzazione dei suoi sensi, all’indirizzo delle sue rappresentazioni e all’intensità dei suoi impulsi”, la domanda da porsi era se parlare risponde a un bisogno interiore di comunicazione, sconosciuto in forma tanto sofisticata agli animali.
La risposta doveva venire per Herder da una considerazione dell’“economia della natura”, al cui interno sia la differenza tra gli uomini e gli animali sia quella tra i loro rispettivi linguaggi non è una differenza “di grado bensì di genere”. Essa segnalava, infatti, la “prerogativa della libertà”, “il fondamento genetico giustificante la nascita di un linguaggio per questo nuovo genere di creature”: ciò che gli impedisce di essere una “macchina infallibile in mano alla natura” e lo spinge a divenire lo “scopo finale del proprio travaglio”. Gli animali manifestano attitudine tecnica unita all’istinto, non così l’uomo; il quale denota insieme ragione e libertà, ossia quella forza positiva del pensiero composta da “natura sensitiva e cognitiva, cognitiva e volitiva”. Il termine appropriato a sintetizzarla era perciò quello di “sensatezza”, capace di esprimere l’idea di “un essere indipendente e libero, il quale non solo conosce, vuole e opera, ma sa pure di conoscere, volere e operare”; un essere che nel suo esercizio dispiega quella disposizione razionale per fronteggiare il profluvio di sensazioni, e così dispiegare con maggiore libertà la sua energia, “indugiare deliberatamente su una sola immagine, considerarla con pacata lucidità, isolando per sé quei contrassegni che rendono inconfondibile l’oggetto”. Isolare una determinata proprietà fra tante e riconoscerla come un “contrassegno della coscienza”: sono queste le operazioni fondamentali che Herder pone al fondo dell’invenzione del linguaggio, nel presupposto che esso è in principio unicamente una collezione di parole, ognuna delle quali rappresenta un “vocabolo caratteristico interiore”.
A suo giudizio, l’obiezione dei fautori dell’origine divina – Johann Peter Süßmilch (1707-1767) in testa, autore dello scritto dal titolo Tentativo di dimostrare che la lingua prima ha ricevuto la sua origine non dall’uomo, bensì dal suo Creatore (1766) – non è in grado di scalfire quella umana. A quanti ritenevano impossibile che l’uomo avesse inventato il linguaggio, poiché per farlo avrebbe dovuto esercitare la ragione e dunque già possedere il medesimo, egli replica che proprio supporre una forma di apprendimento divino richiede il possesso preliminare della ragione e con essa del linguaggio. Per giunta, se fosse stato inventato da uno “spirito celeste”, il linguaggio sarebbe stato fin dall’inizio perfetto, e quindi qualcosa di ben diverso da quello dell’uomo. Aveva senso perciò richiamare la mitologia, capace di farci addentrare “nei meandri della fantasia e delle passioni umane” appartenute a “un’antica nazione primitiva e schietta”, e così risalire al concetto di un “archetipo sensuoso” attorno al quale era cresciuta come un cespuglio “ogni famiglia di idee”.
Non è un caso se essa ha suggerito “l’affermazione di tanti studiosi antichi” – riproposta da più parti, non ultimo da Johann Georg Hamann – “che la poesia è più antica della prosa”. Un’affermazione che Herder modulava in maniera originale mostrando l’uomo come un essere in ascolto, predisposto all’“imitazione delle voci di una natura incessantemente operosa”, nel cui primigenio vocabolario dell’animo si rispecchia la “collezione di rudimenti della poesia” dove è raccolta la “mirabile epopea dei fatti e degli eloqui di tutti gli esseri”. Attingere dal suo ricco patrimonio dava modo di cogliere il linguaggio esteriore che si è definito nell’infanzia dell’umanità secondo i “modi di sentire di un’anima unica” ancora accertabili nelle lingue originarie.
Sicuro di aver dimostrato l’invenzione del linguaggio per due strade diverse ma complementari, Herder non ha presagito le difficoltà implicate. Infatti, se da un lato la “comparsa interiore del linguaggio”, legata al sorgere della coscienza, non è immediatamente sovrapponibile alla manifestazione storica delle lingue, dall’altro i modi di sentire dei popoli che le parlano non coincidono necessariamente con i modi di rappresentazione dell’anima del singolo da cui derivano i contrassegni che com-pongono il suo linguaggio interiore. A parte questo, rimaneva sospesa la questione del passaggio dalla “genesi intrinseca e necessaria di una parola” all’atto effettivo della sua trasmissione, dalla considerazione del linguaggio come “un vero senso dell’anima umana” a quella come “strumento” necessario ad aprire all’esterno il dialogo interiore, facendo del “vocabolo caratteristico” una “parola di comunicazione” rivolta agli altri e da loro stessi pronunciata. Herder non va oltre la sua attestazione, dedicando la seconda parte del Saggio all’esposizione delle leggi di natura che per lui confortavano una visione collettiva e dinamica del linguaggio. Concernenti la predisposizione del genere umano a svilupparsi, aggregarsi e associarsi in comunità responsabili della formazione delle diverse lingue nazionali, e costitutive di “un insieme globale che da un’origine comune progredisce in seno a una grande economia” fino a creare la catena della cultura, esse sono indicative di tendenze che danno sostegno alla concezione della storia espressa nelle Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1785).
Tornato a distanza di anni a occuparsi del linguaggio nello scritto dal titolo Intelletto ed esperienza (1799), Herder si sforza infine di elaborarne una compiuta filosofia diretta a fornire una versione linguistica dell’a priori contrastante con l’intellettualismo kantiano. A informarla sono per lui i seguenti principi: in generale, che il linguaggio è, nel bene come nel male, funzionale al pensiero e che dunque il pensiero prende forma in una determinata lingua, non inventata a priori prescindendo dall’esperienza o precedendo la medesima (il che giustifica una genealogia dei concetti dell’intelletto). E, più in particolare, che conoscere gli oggetti significa anzitutto riconoscerli come tali, passando dalla loro impressione sensibile alla loro determinazione concettuale attraverso una sorta di tipizzazione (capace di tradurre, schematizzandole, le immagini sensibili in immagini del pensiero, grazie anche alla capacità allegorica del linguaggio che risveglia nell’anima sensazioni e concetti), che le categorie non sono concetti puri dell’intelletto ma frutti dell’attività rivolta alla “registrazione, distribuzione e comprensione del dato”, e infine che così come l’uomo è sempre parte di un tutto, anche ogni sua conoscenza prevede che questo preceda quello, conoscibile solo all’interno di un intero.
Come dice anche il titolo della sezione specifica del testo, Metacritica alla critica della ragion pura, Herder sviluppava alcuni argomenti già esposti in forma breve e pungente da Johann Georg Hamann nella Metacritica sul purismo della ragione (1784), per reclamare al linguaggio quella spontaneità che Kant aveva riconosciuto unicamente all’intelletto. Egli citava il passo del Trattato sui principi della conoscenza umana (1710) di George Berkeley, in cui si afferma che le idee, sempre particolari, sono legate a una parola determinata, per denunciare la protervia di chi a-veva voluto operare una triplice “purificazione della filosofia”. Kant, infatti, non si era limitato a sottrarre la ragione a “ogni tramandamento, tradizione e fede in ciò”, ma si era speso per affrancarla dal suo “primo e ultimo organo e criterio”: il linguaggio. Con ciò egli l’aveva portata a smarrirsi, trascurando che il pensiero poggia sul linguaggio e che questo sta al centro degli stessi fraintendimenti della ragione. Piuttosto che far derivare i due tronchi della conoscenza umana (sensibilità e intelletto) da una radice comune, Hamann proponeva pertanto di concepirla come un unico tronco munito di due radici, una rivolta verso l’altro e l’altra verso il basso. Questo, in breve, il suo ragionamento: posto che come “oggetti visibili e udibili” e “in base allo spirito del loro inserimento e significato” le parole mostrano di essere sia “intuizioni pure ed empiriche” che “concetti puri ed empirici” (così da essere pure empiriche nella misura in cui “il loro significato non è determinato da nulla che appartenga a quelle sensazioni”, perché “attraverso di esse opera la sensazione della vista e dell’udito”), se ne può dedurre allora che esse traggono significato dall’unione del segno linguistico (considerato a priori arbitrario e indifferente, a posteriori necessario e indispensabile) con l’intuizione dell’oggetto stesso e che il ripetersi di tale unione consente che il concetto sia “comunicato, impresso e incorporato all’intelletto mediante il segno linguistico come mediante l’intuizione stessa”. Quanto poi alla distinzione tra la forma grafica e fonica della parola e la relativa immagine mentale dell’oggetto, essa vale in astratto e non in concreto, poiché la forma convenzionale del segno interagisce mirabilmente con il contenuto del concetto che si stabilizza nell’uso continuato della parola.
Altre questioni, però, avevano destato in passato l’attenzione di Hamann, prima di esaminare il rapporto tra pensiero e linguaggio dal punto di vista della loro unità funzionale, nella polemica contro i purismi della ragione. Egli aveva compiuto una serie di incursioni, spaziando così dalla differenza tra somiglianze strutturali (fondate sulla natura umana) e somiglianze riferibili alla mentalità (mobile come immobile) tra le lingue (Saggio attorno a una questione accademica, 1760), al rapporto inversamente proporzionale tra purezza e ricchezza in una lingua (Miscellanea di annotazioni sulla struttura della lingua francese messa insieme con patriottica libertà da un illustre dotto franco-tedesco, 1761), al valore della poesia come “lingua madre del genere umano” (Aesthetica in nuce, 1762), fino all’origine naturale e divina del linguaggio. Intervenuto in proposito contro Herder, in difesa “dell’originalità, autenticità, maestà, sapienza, bellezza, fecondità e sovrabbondanza dell’ipotesi superiore” (Due recensioni con un’aggiunta, circa l’origine del linguaggio, 1772), egli l’aveva perfezionata infine in forma di conciliazione attribuendo alla natura quegli strumenti del linguaggio cui il creatore aggiunse le relative istruzioni per l’uso e insieme ravvisando nella prima quella parola vivente, identificabile con la parola di Dio, che l’uomo ebbe sulla bocca e nel cuore appena iniziò a parlare (Ultime volontà del Cavaliere di Rosacroce attorno all’origine divina e umana del linguaggio, 1772).
Citata con favore nella memoria di Schelling, questa “ipotesi superiore” – che in Hamann identifica la ragione con il linguaggio, ed entrambi con il Logos – ha avuto una diversa formulazione nella riflessione di Johann Gottlieb Fichte (1762-1814). Impegnato a “dedurre la necessità” dell’invenzione del linguaggio dalla natura della ragione umana in modo da determinarne “una storia a priori ” (Sulla facoltà e l’origine del linguaggio, 1795), egli ha definito una teoria più comprensiva della sua origine, volta a compendiare le ipotesi tradizionalmente opposte (Sull’origine del linguaggio, Dalle Lezioni di logica e metafisica come introduzione popolare all’intera filosofia. Secondo gli Aforismi filosofici di Platner, 1797). Pertanto, se dal principio di ogni sapere egli ha concluso che neppure la trattazione del linguaggio può prescindere dal fatto della libertà dell’Io, che pone da subito ogni individuo nella relazione di reciprocità con gli altri (a lui uguali), dalla costitutiva intersoggettività degli individui egli ha desunto invece la funzione comunicativa del linguaggio. Subordinando così la designazione operata dai segni alla “mutua azione reciproca dei medesimi pensieri”, egli ha mostrato infine come il linguaggio, oltre a essere innato perché rispecchiante l’essenza dell’uomo, è stato insegnato da Dio quando “sviluppò la ragione della prima coppia di uomini mediante segni”, e altresì inventato dall’essere che è diventato “capace di educare se stesso” all’interno della relazione con i suoi simili.
Ancora una volta la questione dell’origine del linguaggio toccava la linea di confine della storia. In essa Fichte vedeva compiersi il miracolo dell’“inizio di una nuova serie”, essendo esclusa la possibilità di “comprendere la cultura del genere umano a partire dalla storia”, perché “là dove troviamo uomini, li troviamo con livello di formazione superiore, e tuttavia non troviamo alcuna traccia di un popolo originario nel quale l’umanità si sarebbe formata”. Anni dopo, nei Tratti fondamentali dell’epoca presente (1806), egli avrebbe corretto questa posizione, ricorrendo al “filosofema” di un “popolo normale” esistente “nello stato della perfetta cultura razionale” (opposta a quello in cui vissero, “dispersi sulla terra, dei mortali selvaggi, timidi e rozzi”). Tornato sull’argomento nei Discorsi alla nazione tedesca (1808), egli ne ha trattato dalla prospettiva dettata dal particolare frangente storico, dopo che le rovinose sconfitte inflitte dalle armate napoleoniche avevano allontanato l’idea di una soluzione militare al problema della sua indipendenza e unione: quando, per prepararlo all’ineluttabile confronto, egli invitò il popolo tedesco a costruire sulla lingua (e sull’istruzione) la propria identità spirituale, nella convinzione che “gli uomini vengono formati dalla lingua molto più di quanto la lingua venga formata dagli uomini” e che solo il persistere della sua forza simbolica decide se essa sia una lingua “viva” o “morta”.
Origine una e molteplice delle lingue
Johann Gottlieb Fichte
Scritti sul linguaggio (1795-1797)
Sulla facoltà e origine del linguaggio
In un’indagine sull’origine del linguaggio non possiamo cavarcela né con ipotesi né con un elenco arbitrario delle particolari circostanze in cui un linguaggio poté forse sorgere. Infatti i casi che poterono guidare l’uomo nell’invenzione e nella formazione del linguaggio sono così disparati che nessuna ricerca può realmente esaurirli, onde per questa via otterremmo, per quante ricerche avviassimo, altrettante soluzioni parzialmente vere del problema. Non ci si può quindi accontentare di mostrare che e come un linguaggio poteva essere inventato: si deve dedurre la necessità di questa invenzione dalla natura della ragione umana; si deve dimostrare che e come il linguaggio doveva essere inventato. […] Chi indaga sull’origine del linguaggio deve fare come se esso non fosse stato inventato: deve immaginare di doverlo inventare per la prima volta con la sua ricerca.
Dalle Lezioni di logica e metafisica come introduzione popolare all’intera filosofia. Secondo gli Aforismi filosofici di Platner, 1797.
Si tratta di un problema particolarmente toccato negli ultimi tempi, essendo stato posto come quesito a premi da varie dotte accademie. Sull’argomento sono apparsi molti scritti.
La domanda è: com’è sorto il linguaggio? Alcuni hanno affermato che il linguaggio è innato nell’uomo, altri che gli è stato dato da uno spirito superiore mediante un miracolo; una terza opinione è che l’uomo l’abbia inventato da sé. Tutt’e tre queste opinioni sono state negate o sostenute da uomini di stima, ma in questo caso, come in altre questioni che hanno analoga sorte, troviamo che ogni partito ha per metà ragione e l’altra metà torto. Noi scopriremo che il linguaggio è in parte innato, in parte dato e in parte inventato dagli uomini stessi.
J. G. Fichte, Scritti sul linguaggio (1795-1797), a cura di C. Tatasciore, Milano, Guerini, 1998
Karl Wilhelm Friedrich Schlegel
Sulla lingua e la saggezza degli Indiani
Le ipotesi sull’origine del linguaggio sarebbero interamente invalidate o avrebbero guadagnato tutt’altro aspetto se, anziché abbandonarsi a finzione arbitraria, le si fosse fondate sulla ricerca storica. In particolare, è un presupposto del tutto arbitrario ed erroneo ritenere che il linguaggio e lo sviluppo spirituale abbiano avuto inizio dappertutto allo stesso modo. Al contrario, anche riguardo a ciò, la varietà è tale che quasi per ognuna delle ipotesi sull’origine del linguaggio escogitate finora si potrebbe agevolmente trovare tra la quantità delle lingue una che valga da esempio a conferma.
[…] Come ora l’uomo sia giunto nella sua origine a questo dono ammirevole della lucida capacità di riflessione, e se ciò non avvenne gradualmente ma d’un sol colpo, qualora possa essere spiegato unicamente da quel che chiamiamo ora le sue capacità naturali, su ciò il libro successivo darà occasione di più ampia riflessione, rivelando il modo di pensare che noi troviamo come il più antico, fin dove arriva la ricerca storica, per considerare se si possano additarvi tracce per così dire inequivocabili di ciò che è ancora antico e primo. Quanto al linguaggio, è assolutamente superfluo volerlo spiegare altrimenti che come del tutto naturale; o almeno non sussiste in esso alcun motivo per presupporre un ausilio estraneo. Noi non avversiamo l’origine naturale delle lingue ma unicamente quella dell’uguaglianza delle medesime, giacché si afferma che esse sono state all’inizio ugualmente selvagge e rozze; un’affermazione confutata a sufficienza da così tanti dei fatti addotti.
Chiedersi come l’uomo giunse dunque a quella capacità di riflessione è un’altra questione; con quella però, unitamente al sentimento profondo e alla chiarezza dello spirito con cui noi la intendiamo, è dato altresì il linguaggio; e certo una lingua tanto bella e ingegnosa quanto quella di cui qui si parla.
K. W. F. Schlegel, Sulla lingua e la saggezza degli Indiani, trad. it. di A. Carrano
Karl Wilhelm von Humboldt
Scritti sul linguaggio
Su pensare e parlare
Il linguaggio pertanto ha inizio in maniera immediata e diretta con il primo atto della riflessione; e proprio come l’uomo dall’oscurità del desiderio in cui il soggetto consuma l’oggetto si desta all’autocoscienza, così c’è anche la parola – il primo impulso, per così dire, che l’uomo si dà ad arrestarsi subitaneamente, guardarsi attorno e orientarsi.
[…] Tali suoni non esistono normalmente nel resto dell’intera natura, perché nessuno al di fuori dell’uomo invita i suoi consimili al comprendere attraverso il pensare comune, ma tutt’al più all’agire attraverso il sentire comune.
Sulla natura del linguaggio in generale
L’idea angusta che il linguaggio sia risultato di una convenzione da una convenzione e che la parola non sia altro che il segno di una cosa indipendentemente da esso o il segno di un concetto parimenti indipendente ha esercitato l’influsso più nocivo sull’interessante trattazione di ogni studio linguistico. Questa opinione di certo innegabilmente giusta fino a un dato punto, ma anche erronea, se spinta troppo oltre, sopprime ogni spirito ed esilia ogni vita appena inizia a diventare dominante. […] A un più preciso esame ora però appare l’esatto contrario di tutto questo. In quanto viene impiegata in luogo di una cosa o di un concetto la parola è certamente un segno, ma secondo la specie della sua formazione e del suo effetto è un essere originale e autonomo, un individuo. La somma di tutte le parole, il linguaggio, è un modo che sta tra ciò che si manifesta esteriormente e ciò che agisce in noi; esso si fonda senza dubbio su di una convenzione, in quanto tutti i membri di una stirpe si comprendono, ma le singole parole sono state formate in principio dal sentimento naturale di chi parla e comprese dall’analogo sentimento di chi ascolta. Pertanto, oltre all’uso della lingua stessa, lo studio della lingua insegna anche l’analogia esistente tra l’uomo e il mondo in generale e ciascuna nazione in particolare che si esprime nella lingua; e poiché lo spirito che si manifesta nel mondo non può essere conosciuto esaurientemente attraverso nessuna quantità data di punti di vista, ma ogni nuovo punto di vista scopre sempre qualcosa di originale, così sarebbe bene moltiplicare le differenti lingue quanto lo consente il numero degli uomini che abitano la terra.
K. W. von Humboldt, Scritti sul linguaggio, a cura di A. Carrano, Napoli, Guida, 1989
Karl Wilhelm von Humboldt
La diversità delle lingue
Ma l’individualità definita va ancor più scomparendo se si risale più indietro. Una lingua levigata come quella omerica deve essere stata a lungo sospinta qua e là sulle onde del canto, per epoche delle quali non ci è rimasta notizia alcuna. Ancora più distintamente ciò si rivela nella forma originaria delle lingue stesse. Il linguaggio è profondamente intrecciato allo sviluppo spirituale dell’umanità, lo accompagna per ogni grado di progresso o regresso locale, di modo che lo stato di cultura di ogni epoca è riconoscibile anche in esso. Vi è tuttavia un’epoca in cui non scorgiamo che il linguaggio, dove esso non accompagna semplicemente lo sviluppo spirituale, ma ne prende interamente il posto. È vero che il linguaggio scaturisce da un recesso così profondo dell’umanità, tale da impedire ovunque di considerare una vera e propria opera e una creazione dei popoli. Il linguaggio possiede un’attività spontanea che si rende a noi visibilmente manifesta, benché inesplicabile nella sua essenza, e, considerato da questo lato, non è un prodotto dell’attività, ma un’emanazione involontaria dello spirito, non un’opera delle nazioni, ma un dono che ad esse è toccato per il loro intimo destino. Esse si servono delle lingue senza sapere come le abbiano formate. Ciononostante le lingue debbono pur sempre essersi sviluppate con e nei popoli, seguendoli nel loro fiorire, e debbono essersi svolte dalla peculiarità spirituale di questi, la quale ha imposto ad esse alcune limitazioni. Non è un vano gioco di parole affermare che il linguaggio è un’attività spontanea che scaturisce solo da se stessa ed è divinamente libera, mentre le lingue sono legate e dipendenti dalle nazioni cui appartengono, poiché si sono poste dei limiti ben determinati. Mentre la parola e il canto fluivano dapprima liberamente, il linguaggio si formò secondo il grado dell’entusiasmo e della libertà e secondo l’intensità delle forze spirituali cooperanti. Questo non poteva però che derivare da tutti gli individui congiuntamente, ogni singolo doveva in ciò essere trasportato dall’altro, poiché l’entusiasmo acquista nuovo slancio solo dalla sicurezza di essere compresi e sentiti dagli altri. Si dischiude qui pertanto una prospettiva, per quanto incerta ed oscura, su di un’epoca in cui gli individui si perdono nella massa dei poli e dove il linguaggio stesso è l’opera della forza intellettuale creatrice.
K. W. von Humboldt, La diversità delle lingue, a cura di D. Di Cesare, Roma-Bari, Laterza, 1991
Tanto i Discorsi di Fichte puntavano a rafforzare nell’uditorio la speranza in un mondo nuovo, quanto il coevo libro di Karl Wilhelm Friedrich von Schlegel, Sulla lingua e la saggezza degli Indiani, mirava a introdurre il lettore nel santuario della lingua più antica: il sanscrito. Il suo testo segna un momento importante per l’avvio della linguistica storica, indicando nella genealogia delle lingue l’obiettivo da realizzare attraverso il rilievo delle mutazioni intervenute nella loro struttura interna. La fiducia nella ricerca storica è pari in esso alla diffidenza per le ipotesi fantasiose del passato sull’origine del linguaggio: tutte accecate dal presupposto erroneo e arbitrario che “il linguaggio e lo sviluppo spirituale abbiano avuto inizio ovunque allo stesso modo”, e di conseguenza incapaci di vedere come, “anche a questo proposito, la varietà è al contrario tanto grande”. Pensare tuttavia che si possa trovare una lingua che valga da esempio, a conferma quasi per ogni ipotesi circa l’origine del linguaggio, era cosa altrettanto temeraria. Perché non si fermava a contestare l’ipotesi della “uguaglianza originaria” delle lingue, ma fissava – ferma restando quella della loro “origine naturale” – una rigida relazione tra lingua e cultura che poteva prestarsi a forzature e fraintendimenti.
Sotto quest’aspetto, la riflessione compiuta da Wilhelm von Humboldt ne La diversità delle lingue – la famosa Introduzione allo studio della lingua Kawi (pubblicata postuma nel 1836) – offriva un contributo di chiarezza. Ugualmente esperto di “cose indiane”, egli diffidava dall’attribuire “alla civiltà e alla cultura ciò che non può assolutamente trarre origine da esse e che è invece prodotto da una forza alla quale anche queste devono la loro esistenza”. Chi avesse interrogato la storia, avrebbe scoperto infatti che non si può dire costante il potere esercitato dalla cultura e dalla civiltà, sulla lingua così da determinarne la natura colta o incolta. Anzi, avrebbe capito che non esiste nessuna legge al riguardo, giacché “lingua e civiltà non sono sempre correlate allo stesso modo”. Non mancavano per lui esempi in merito, in un senso come nell’altro. Perché non solo l’India, “per quanto antica e originale sia stata la sua civiltà”, non dovette a questa il sanscrito, ma anche la lingua peruviana, parlata dagli antichi Incas, “probabilmente il paese più civilizzato dell’America”, appariva assai inferiore a quella messicana. Pure in tal caso Humboldt raccomanda di non assumere una visione unilaterale giudicando il pregio di una lingua in base al numero di concetti designati, per comprendere invece che ognuna esercita a suo modo la sua creatività nel pensare manifestando un’efficacia immanente e costitutiva. Di fatto, egli non nega che si possano valutare i pregi della lingua secondo i criteri della chiarezza concettuale, dell’evidenza intuitiva e sensibile delle rappresentazioni che vi sono trasferite dalla visione del mondo e della capacità di presa sull’affettività e sulla mentalità da parte del suo sistema fonetico. Così come non nega che ogni lingua possa progredire nel processo della sua formazione. E però suggerisce che ogni progresso della lingua per il contributo fecondo di civiltà e cultura può avvenire esclusivamente “nei limiti prescritti dal suo assetto originario”, in cui è riposto l’“insieme delle [sue] disposizioni originarie” e sono fissate per sempre la sua struttura organica e forma individuale.
Humboldt conia l’espressione “forma linguistica interna” per esprimere questo tratto distintivo delle lingue, la cui varietà più che ammettere richiede l’idea di una individualità spirituale (individuo, popolo, nazione), da intendere come “una limitazione della natura universale” tendente a manifestare un’esclusività che, a sua volta, in quanto diretta da un principio di totalità, accresce la forza e le dà maggiore tensione invece di diminuirla o disperderla. Ricorrente nella tradizione filosofica tedesca (in Leibniz e nello stesso Herder), quest’ultimo concetto era usato da lui in forma non solo plurale (come forze umane e motrici della storia) ma anche singolare (come forza spirituale), per indicare “il vero principio creatore nel segreto e, per così dire, misterioso processo di sviluppo dell’umanità”. In questo specifico senso, esso denotava per lui “l’eccelsa peculiarità dello spirito”, quale si manifesta nell’attività in cui si amplia il concetto di intellettualità umana condensato di volta in volta in opere capaci di produrre qualcosa di nuovo, proveniente “da una pienezza di vita”. A ciò non fa eccezione il linguaggio nella forma individuata della lingua, di cui Humboldt invita a cogliere l’essenza come produzione o attività (energheia) invece che come morto prodotto o opera (ergon), “astraendo preferibilmente dal suo operare come designazione degli oggetti e mediazione del comprendere, per risalire invece più attentamente alla sua origine, strettamente intrecciata con l’attività interna dello spirito, e al loro influsso reciproco”. Perché solo con tale astrazione si può giungere a una definizione propriamente genetica della lingua in grado di coglierla come “qualcosa di continuamente, in ogni attimo transeunte”, e perciò nella sua viva dizione, nell’atto del suo reale prodursi come discorso. Una definizione che, perfezionata dal richiamo al “lavoro eternamente reiterato dello spirito, volto a rendere il suono articolato capace di esprimere il pensiero”, non si applica al solo atto locutivo individuale ma si estende la totalità del parlare in virtù del parallelo che istituisce tra il darsi dello spirito in attività e come attività e il procedere concatenato del discorso.
Comprensibilmente il curatore dell’edizione delle opere complete di Humboldt ha intitolato Sul pensare e parlare (1795-1796) il suo primo scritto sul linguaggio. Nella formula del doppio infinito, egli cercava di cogliere la sua idea fondamentale – tante volte ripresa e approfondita in seguito – secondo cui nell’esercizio di quelle attività complementari non solo si esplica una medesima forza spirituale nella molteplicità delle diverse lingue (correlata alla peculiarità delle nazioni), ma ovunque si manifesta il proprio dell’uomo: l’unico essere in natura che “invita i suoi consimili al comprendere attraverso il pensare comune” (Sul pensare e parlare) e ha nel linguaggio “un mondo tra ciò che si manifesta esteriormente e ciò che agisce in noi” (Lazio ed Ellade, 1806). Posto “tra l’universo e l’uomo”, così da rappresentare “il primo secondo il modo dell’altro” (Saggio sulle lingue del nuovo continente, 1812), il linguaggio descrive un cerchio che non può essere trasceso (Introduzione allo studio generale del linguaggio, 1810-1811). Come mostra anche l’enigma della sua origine, in rapporto alla quale Humboldt non si è limitato a sostenere che storicamente incontriamo sempre “l’uomo che fa già uso del linguaggio” perché quest’ultimo “possiede un’attività spontanea che si rende a noi visibilmente manifesta, benché inspiegabile nella sua essenza”, ma si è spinto ad affermare che, “considerato da questo lato, [il linguaggio] non è un prodotto dell’attività, ma una emanazione involontaria dello spirito, non un’opera delle nazioni, ma un dono che ad esse è toccato per il loro intimo destino” (Sulla diversità delle lingue).