Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In una direzione diversa dalle poetiche postmoderne il decostruttivismo in architettura si impone come una ricerca verso forme e strutture liberate dai precetti del moderno e sensibili piuttosto a esasperare in spettacolari incrinature, decentramenti e vistose dissimetrie le forme di un’architettura considerata come espressione di una sensibilità contemporanea definitivamente instabile.
Non uno stile
Jacques Derrida
La Chora
Ricche, numerose, inesauribili, le interpretazioni informano, insomma, la significazione o il valore di chora. Esse consistono sempre a dare forma ad essa, determinandola, essa che, tuttavia, non può offrirsi o promettersi se non sottraendosi ad ogni determinazione, a tutte le marche o impressioni alle quali noi la diciamo esposta: a tutto ciò che vorremmo darle senza sperare di ricevere niente da essa... Ma quanto avanziamo in questa sede intorno all’interpretazione della chora - del testo di Platone sulla chora - parlando della forma data o ricevuta, di marca o impressione, di conoscenza come informazione, etc., tutto ciò attinge già a quanto il testo stesso dice della chora, al suo dispositivo concettuale ed ermeneutico. [...]
Delle interpretazioni darebbero, dunque, forma a “chora”, lasciandovi la marca schematica della loro impronta e depositandovi il sedimento del loro apporto. E, tuttavia, “chora” sembra non lasciarsi neanche raggiungere o toccare, ancor meno scalfire, soprattutto sembra non farsi esaurire da questi tipi di traduzione tropica o interpretativa. Non si può neanche dire che essa fornisca loro il supporto d’un substrato o d’una sostanza stabile. Chora non è un soggetto. Non è il soggetto. Né il supporto [...]. Ma se Timeo impiega il nome di ricettacolo (dechomenon) o luogo (chora), questi nomi non designano un’essenza, l’essere stabile di un eidos, giacché chora non è ne dell’ordine dell’ eidos, né dell’ordine delle mimesi, delle immagini dell’eidos, le quali si imprimono in essa - che così non è, non appartiene ai due generi d’essere conosciuti o riconosciuti. Essa non è e questo-non-essere non può che annunciarsi, vale a dire non lasciarsi prendere o concepire, attraverso gli schemi antropomorfici del ricevere o del dare. Chora non è, soprattutto, un supporto o un soggetto che darebbe luogo ricevendo o concependo, anzi lasciandosi concepire. Come negarle questa significazione essenziale di ricettacolo dal momento che questo nome le è stato attribuito da Platone? È difficile. Forse non abbiamo ancora pensato ciò che vuol dire ricevere, il ricevere da questo ricettacolo, ciò che dice dechomai, dechomenon. Forse è questo di chora che cominceremo ad apprendere- a riceverlo, a ricevere da essa ciò che il suo nome chiama. À riceverlo, se non a comprenderlo, a concepirlo.
J. Derrida, Il segreto del nome, Milano, Jaka Book, 1997
Quando nell’estate del 1988 Philip Johnson e Mark Wigley allestiscono al Museum of Modern Art di New York una piccola mostra dal titolo Deconstructivist Architecture, il termine “decostruzione” circola da tempo nelle frange più intellettuali delle comunità architettoniche, sia in Europa sia negli Stati Uniti. Tuttavia è l’esposizione dei lavori di Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid , il gruppo Coop Himmelb(l)au e Bernard Tschumi il grande evento mediatico che sancisce l’affermazione di quella che di fatto è l’ultima corrente culturale dell’architettura del Novecento: un fenomeno tanto scarico ideologicamente quanto sorprendentemente efficace nel rispecchiare le modalità espressive di progettisti, teorici e critici della disciplina che più di altri hanno voluto interpretare, esaltandolo, lo spirito incerto e mutevole del proprio tempo.
“Il decostruttivismo non è uno stile”, chiarisce infatti Johnson nella prefazione del catalogo della mostra. All’opposto della storica esposizione del 1932, nella quale Henry Russel Hitchcock (1903-1987) e lo stesso Johnson, allora giovanissimo, lanciano l’etichetta dello stile internazionale attraverso le opere dei maestri europei, Deconstructivist Architecture vuole raccogliere esperienze estremamente diverse, aliene al fervore messianico del movimento moderno e anzi inclini a intaccarne il rigore funzionalistico e il nitore formale. Ma, dal momento che “nessuna forma viene dal nulla”, le opere dei sette protagonisti sono ricondotte al comune referente linguistico delle avanguardie russe del primo Novecento, osservandone le geometrie caratterizzate da forme pure disarticolate e da assialità prive di gerarchie immediatamente riconoscibili. I lavori di Leonidov , Rodčenko, El Lissitzky, Tatlin, Malevič, dei fratelli Vesnin vengono presi a riferimento per valorizzare positivamente l’atteggiamento decostruttivista. Sfidando i valori dell’armonia, dell’unità, della stabilità, l’architettura decostruttivista propone, sostiene Wigley, “una diversa visione della struttura secondo la quale le incrinature sono intrinseche alla struttura stessa [...] L’architetto decostruttivista mette in questione le forme pure della tradizione architettonica e identifica i sintomi di un’impurità repressa. L’impurità viene portata alla luce tramite una combinazione di gentile coazione e violenta tortura. La forma è letteralmente interrogata.”
I risultati di questa “interrogazione” appaiono evidenti non solo nell’aspetto delle architetture esposte in mostra, ma anche nel programma: l’abitazione che Frank O. Gehry progetta per sé a Santa Monica, in California, tra il 1977 e il 1988, apre emblematicamente il catalogo della mostra e mette in scena l’instabilità della più tradizionale delle tipolgie architettoniche: la casa. La realizzazione dell’opera si compie attraverso un bric-à-brac di materiali diversi (cemento, reti metalliche, lamiere ondulate e pannelli di legno laminato) assemblati nel corso degli anni, che ampliano e insieme scompongono la struttura di quella che era, in origine, una anonima abitazione suburbana.
Sul versante opposto si colloca il progetto di Zaha Hadid, irachena formatasi all’Architectural Association di Londra e vincitrice del concorso per l’albergo The Peak a Hong Kong (1982). Più strategica e insieme più rigorosa, negli esiti formali, la proposta riflette il debito verso le tecniche compositive suprematiste, qui utilizzate per sovvertire e riassemblarne lo stesso programma architettonico e forzare i limiti di un modernismo ritenuto ancora gravido di potenzialità inesplorate. Al di là delle questioni di forma, va sottolineato che i due progetti si attestano geograficamente e concettualmente agli estremi di una tendenza che ancora una volta trova il suo baricentro culturale e mediatico negli ambienti architettonici newyorkesi. Come già la mostra del 1932 celebrava negli spazi del MoMA gli europei Le Corbusier, Gropius, Oud e Mies van der Rohe, mettendoli a confronto con le case di Richard Neutra in California o quelle di Wright in Colorado, anche nell’esposizione del 1988 si scorge un malcelato interesse di rivendicare il primato culturale della prestigiosa istituzione di New York come il luogo ove i più fecondi e aggiornati filoni di ricerca europei vengono accreditati.
La matrice europea: Derrida negli Stati Uniti
E non vi è dubbio che anche il decostruttivismo, nella sua matrice teorica e filosofica, sia di importazione europea. La figura chiave è quella del filosofo francese Jacques Derrida, che, nel suo Della grammatologia (1967), introduce il concetto di decostruzione come critica del logocentrismo, ovvero come contestazione del legame prioritario tra l’essere e la parola, chiave di volta dell’intera struttura del pensiero occidentale. Riportando l’attenzione alla scrittura come terreno operativo della decostruzione, Derrida offre una potente sponda filosofica per l’interpretazione dell’architettura come testo, ovvero come infinita concatenazione di rimandi nella quale si attesta l’impossibilità di risalire a una piena origine delle cose. Centrale nel dibattito filosofico e architettonico americano, Derrida – che insegna a Yale dal 1975 al 1977 e alla Cornell University di Ithaca dal 1982 al 1988 – si avvicina all’arte nel 1978 con il libro La verità in pittura (1978), per poi occuparsi direttamente di architettura a partire dai primi anni Ottanta grazie agli interessamenti di Bernard Tschumi e Peter Eisenman. Da quest’ultimo Derrida viene infatti invitato nel 1985 a collaborare alla stesura del progetto Choral Work, un piccolo giardino collocato all’interno del Parc de la Villette a Parigi, che proprio Tschumi sta elaborando in quegli anni. Mentre Eisenman riprende l’uso della griglia e la tecnica dello scaling (già impiegati nel progetto per l’area di San Giobbe a Cannareggio del 1978) per immaginare un paesaggio di geometrie irregolari che rimanda alla configurazione stessa del parco pensata da Tschumi – tra i due si protrarrà a lungo una disputa sulla paternità della griglia per punti (point-grid) ritenuta una figura tipica del decostruttivismo –, Derrida contribuisce con una personale lettura del Timeo di Platone dove compaiono il “demiurgo architetto” artefice del mondo e la chora, lo spazio in cui il mondo si inscrive, ripreso nel titolo del progetto.
Condannata a restare prigioniera di un orizzonte altamente intellettualizzato, la verifica della teorizzata interrelabilità delle “due scritture, la verbale e l’architetturale” rimane di fatto sulla carta, giacché il progetto non viene realizzato e solo nel 1997 un libro omonimo ne raccoglie tutti i disegni e le trascrizioni dei testi.
Tuttavia il rapporto con Eisenman e Tschumi porta Derrida a prendere posizioni sempre più precise in merito alle relazioni tra architettura e filosofia. Nel saggio Point de Folie - Maintenant l’architecture (1982) l’architettura, proprio perché attraversa tutti gli aspetti dell’esperienza umana di cui rappresenta la componente più solida, consistente e legata alla tradizione, è definita da Derrida come “l’ultima fortezza della metafisica” e come tale è un terreno di lavoro privilegiato per la decostruzione. Tale decostruzione porterebbe a una sorta di “grado zero” dell’architettura, inteso non nostalgicamente come purezza originaria, ma come scrittura che lascia tracce architettoniche senza origini o fini specifici, che si sovrappongono senza gerarchie e che neutralizzano ogni rapporto tra figura e sfondo. In questa chiave si possono leggere i progetti teorici Micromegas (1978) e Chamber Works (1983) di Daniel Libeskind, vertiginosi esercizi di scomposizione dei canoni grafici del disegno moderno – da Piranesi a Kandinskij – che evocano quel torturato immaginario spaziale poi concretizzato nell’edificio più celebre dell’architetto polacco: l’ampliamento del museo ebraico di Berlino (1989-1998). Attraverso una sorta di spezzata che scompone la sagoma della stella di Davide, il progetto vuole dimostrare l’impossibilità stessa di storicizzare il dramma della Shoah, consegnando alla città di Berlino non un consolatorio contenitore di ricordi ma una drammatica sequenza di vuoti programmaticamente inutilizzabili come reali spazi espositivi, potenti evocazioni della tragedia ebraica e forme di una scrittura architettonica intensa ma non priva di tonalità retoriche.
Un’architettura di star
Già durante la prima metà degli anni Novanta, la ripetitività inizia a essere il tratto saliente dei percorsi progettuali di molti tra i protagonisti della (in fondo breve) stagione decostruttivista. Riconoscibili cifre stilistiche si fanno evidenti nei lavori di Libeskind e Coop Himmelb(l)au, di Zaha Hadid e dei californiani Morphosis; ma è con la silhouette neoespressionista del museo Guggenheim di Bilbao (1997) che Frank O. Gehry realizza la saldatura tra l’atteggiamento dissacratore del primo decostruttivismo e un formalismo appena eccentrico, innocuo e spesso popolare, che sarà in grado di intercettare allo stesso tempo l’interesse della critica più benevola e il gusto di un pubblico più vasto.
Così alla conclusione della vicenda decostruttivista la forma, ultimo baluardo di una visione che potremmo considerare classica dell’architettura, non è più un problema. Se lo stile internazionale aveva annullato il tema della funzione (ovvero l’utilitas vitruviana) rinchiudendosi nel rapporto tra tecnologia costruttiva e composizione, se il postmoderno aveva eluso l’argomento della costruzione (la firmitas) prediligendo la dimensione simbolica e comunicativa dell’architettura, con il decostruttivismo anche la bellezza (la venustas), cioè l’aspetto, e dunque la forma, cessa di essere un valore riscontrabile e dunque potenziale oggetto di critica. Asserendo l’equivalenza e dunque l’indifferenza della forma, il formalismo che caratterizza la stagione post-decostruttivista sancisce il sostanziale slittamento del valore dell’architettura dalle qualità intrinseche dell’edificio al prestigio del suo autore e alla fama del committente.
Alla fine del millennio di decostruttivismo infatti non si parla più. Consunto dalle esasperate esercitazioni stilistiche dei suoi epigoni, superato anche sul piano della pura riflessione teorica dall’affacciarsi di nuovi territori di ricerca (dalle trasformazioni delle metropoli contemporanee all’avvento della cosiddetta architettura digitale), il movimento lascia in eredità null’altro che le cifre personali dei suoi protagonisti, ormai tutte figure di spicco dello star system dell’architettura.