Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il concetto moderno di coscienza, come spazio interiore di trasparenza, viene costruito in un percorso che va da Descartes al cartesianesimo e trova il suo culmine nella riflessione di John Locke. Tuttavia questo percorso dominante non è privo di oppositori: dal lato materialistico Spinoza che pensa la coscienza come conoscenza inadeguata, dal lato teologico Malebranche che pensa la coscienza come tenebra.
L’invenzione della coscienza
Scrive Étienne Balibar che “l’invenzione della coscienza affonda le sue radici nell’intreccio di eventi intellettuali che inaugurano la modernità. Essa riguarda l’intero campo della teologia, della politica, del pensiero morale e filosofico, delle lettere” (Balibar, Identité et différence. L’invention de la conscience, 1998). In questo senso, uno degli episodi decisivi di questa invenzione furono i dibattiti suscitati dalla Riforma sulla libertà di coscienza, in cui il termine coscienza divenne “l’altro nome dell’individuo singolare”, dando luogo a una qualificazione degli individui rispetto alle loro azioni: “una ‘coscienza nobile’, una ‘coscienza illuminata’, una ‘coscienza ferma’, una ‘coscienza infelice’ ecc.” (Ibidem).
Dal punto di vista strettamente filosofico si può individuare una lunga fase di costruzione del concetto originata dall’idea cartesiana di certezza come garanzia di verità del pensiero. A partire dall’idea cartesiana in cui è presente un’identificazione di immediatezza e riflessività si apre un conflitto filosofico, che con Balibar possiamo schematizzare in questi termini: “da una parte i sostenitori di una concezione affermativa della coscienza, per i quali questo concetto acquista un valore fondatore in quanto riconoscimento di sé dell’anima; dall’altra i sostenitori di una concezione negativa, nei quali il concetto di coscienza è parimenti nominato, ma che vi vedono essenzialmente una funzione di misconoscimento o di errore” (Ibidem).
Descartes: dalla “cosa che pensa” alla coscienza
Al contrario di quello che si potrebbe credere, il termine conscientia è molto raro sotto la penna di Descartes, né fu immediata l’identificazione della cosa che pensa con la coscienza. Nelle Meditazioni (1641) per esempio il termine è assente, benché siano poste le coordinate fondamentali del concetto: interiorità, trasparenza, immediatezza. Come è noto Descartes giunge, attraverso la progressiva desostanzializzazione del mondo (il mondo come sogno o come allucinazione prodotta da un genio maligno), a trovare la certezza su cui sarà possibile conferirgli nuovamente realtà. Questa certezza è l’ego sum, ego existo, spazio di interiorità a cui ineriscono percezioni, sogni o allucinazioni del mondo. Questa certezza è la luce che condurrà Descartes a ritrovare il mondo sub specie geometrica. Ma soffermiamoci su questo interno. Descartes giunge a identificare in questi termini quell’io che è certo di esistere: “[…] che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. Che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, che dubito quasi di tutto, che, nondimeno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed affermo quelle sole esser vere, che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscerne di più, che non voglio essere ingannato, che immagino molte cose, qualche volta anche contro la mia volontà; che molte cose sento come se mi venissero attraverso gli organi del corpo?” (Meditazioni, 1641). Dunque la stessa certezza dell’ego sum, ego existo, si ritrova nell’intuizione della natura della cosa che pensa: quest’intuizione è resa possibile dall’esperibilità immediata di tutte le forme di pensiero da parte dell’io. Nei Principi di filosofia, proprio nel passaggio in cui sono in questione i rapporti nella res cogitans tra l’attributo principale, il pensiero, e i suoi modi (intendere, immaginare, sentire, volere ecc.), Descartes utilizza il termine conscientia: “Che cos’è pensare. – Con il termine pensiero intendo tutto ciò che accade in noi in tal modo che ne abbiamo coscienza in noi (in nobis conscientia est); ecco perché non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare” (Principi di filosofia, 1647). La conscientia è dunque un pensiero che accompagna tutti i modi di pensare e tutte le nostre azioni (non vi sono dunque pensieri inconsci e azioni impensate) inscrivendoli in un Io. Il carattere dell’immediatezza di questa conoscenza, in cui la coscienza consiste, introduce una discontinuità rispetto alla tradizione precedente, in particolare quella aristotelica, che concepiva la riflessione come una operazione mediata. Per Descartes la riflessione è l’immediata, identica, presenza dell’anima in ciascuno dei suoi pensieri. Questa differenza emerge nel Colloquio con Burman (1648): “[Burman:] Ma come si può essere cosciente, se essere cosciente significa pensare? Per pensare questo, che pensate, passate già a un altro pensiero, e così non pensate più la stessa cosa che pensavate prima, e non siete cosciente di pensare, ma di aver pensato. [Descartes:] Esser cosciente, certo, vuol dire pensare e riflettere sul proprio pensiero, ma è falso che questa riflessione sia impossibile sinché persiste il primo pensiero poiché, l’abbiamo già visto, l’anima è capace di pensare a più cose allo stesso tempo e di perseverare nel suo pensiero, capace dunque ogni volta che vuole di riflettere sui suoi pensieri e attraverso ciò di avere coscienza dei suoi pensieri”.
I cartesiani e la scienza della coscienza
L’uso raro del termine conscientia in Descartes divenne invece sistematico nei cartesiani . Louis De La Forge, che scrisse un Trattato dello spirito dell’uomo (1666) inteso come una continuazione del Trattato dell’uomo (1662) di Descartes , si poneva, nel designare la conoscenza di sé, sotto la duplice egida di Agostino e di Descartes (la cui conformità su questo aspetto riteneva totale), definendola come un modo dello spirito “di ritirarsi presso di sé per osservarsi senza testimoni”. De La Forge chiama questa conoscenza di sé “coscienza” o “sentimento interiore”: “Io prendo qui il Pensiero – scrive – come questa percezione coscienza, o conoscenza interiore che ciascuno di noi sente immediatamente attraverso se stesso quando si rende conto di ciò che fa o di ciò che accade in lui. […] Che cosa sarà dunque questa ammirevole funzione la cui essenza sembra così nascosta? […] Se tutte le funzioni della conoscenza sono delle operazioni che non hanno nulla a che fare con la materia e che non escono dall’anima, è commettere un errore grossolano cercare in altro luogo dallo spirito per scoprirne le competenze. […] Non abbiamo appena provato che la natura dello spirito è di essere una cosa che pensa, e abbiamo detto che l’essenza del pensiero consiste in questa coscienza (conscience) e questa percezione che lo spirito ha di tutto ciò che accade in lui” (Trattato dello spirito dell’uomo, 1666). Nello stesso senso va Pierre-Silvain Régis, che nel suo Sistema di filosofia contenente la logica, la metafisica e la morale (1690), riprende il celebre testo cartesiano delle Meditazioni in questi termini: “Sono dunque sicuro che io esisto tutte le volte che credo di conoscere qualche cosa; e sono convinto della verità di questa proposizione, non per un vero ragionamento, ma per una conoscenza semplice e interiore, che precede tutte le conoscenze acquisite e che io chiamo coscienza (conscience)”.
Spinoza e l’opacità dell’immediato
Se nel cartesianesimo la coscienza diviene il luogo originario della verità, in Spinoza essa è il nome di una conoscenza inadeguata: non “conoscenza semplice e interiore”, ma effetto complesso e opaco, luogo d’origine di una illusione necessaria, l’illusione finalistica. Nella celebre appendice alla prima parte dell’Etica (1677) Spinoza scrive: “[…] gli uomini nascono ignari delle cause delle cose, e […] tutti hanno l’impulso a ricercare il proprio utile, del che sono consci (sunt conscii). Da questo infatti deriva […] che gli uomini si ritengono liberi, perché sono consci (sunt conscii) delle proprie volizioni e del proprio desiderio, mentre delle cause, dalle quali sono indotti a desiderare e a volere, neppure si sognano perché ne sono ignari”. L’uomo dunque è conscius sui et ignarus causarum rerum: proprio questa ignoranza della causa delle cose, questa opacità dell’immediato, conduce la coscienza a immaginarsi come luogo della trasparenza e della libertà, centro di un universo preparato da un Dio per l’utile umano, essendo invece strutturalmente esclusa dalla conoscenza delle cause tanto della natura quanto delle azioni umane. In questa prospettiva risulta manifesto il radicale anticartesianesimo di Spinoza: la scienza non si fonda infatti in alcun modo sulla coscienza, ma di contro sulla rottura con questo mondo illusorio del pregiudizio finalistico di cui essa è il centro immaginario.
Malebranche e la coscienza come tenebra
Come Spinoza, anche Malebranche (1638-1715) identifica la coscienza con il luogo di un misconoscimento necessario. A differenza di Spinoza egli ritiene che questo misconoscimento sia originato dal rapporto che l’anima intrattiene con il corpo e che la stessa rappresentazione confusa che l’anima ha di se stessa sia generata da questa compromissione con il corpo (dogma della caduta). Nella Ricerca della verità (1674-1675) egli distingue quattro maniere di conoscere: “La prima è di conoscere le cose per loro stesse; la seconda, di conoscerle per le loro idee, cioè […] come qualcosa che sia differente da loro; la terza, di conoscerle per coscienza o per sentimento interiore; la quarta, di conoscerle per congettura”. A queste quattro maniere di conoscere corrispondono quattro oggetti: Dio, che si dà a conoscere per se stesso come “maestro interiore”, come “luce del nostro proprio spirito”; le verità della ragione e della scienza che noi vediamo attraverso le idee (che sono in Malebranche archetipi e rappresentazioni) in Dio; l’anima che conosciamo in modo immediato, ma oscuro e confuso; infine le anime degli altri uomini che noi possiamo solo congetturare simili alla nostra. La conoscenza dell’anima come tenebra (“non sono che tenebra per me stesso” – scrive Malebranche) ha l’evidente scopo apologetico di reinstaurare contro Descartes il primato epistemologico della conoscenza di Dio su quella del cogito: “IV Come si conosce la propria anima. — […] l’anima non la conosciamo in Dio, non la conosciamo per la sua idea; non la conosciamo che per coscienza, ed è per questo che la conoscenza che ne abbiamo è imperfetta; non sappiamo della nostra anima se non ciò che sentiamo accadere in noi. Se non avessimo mai sentito dolore, calore, luce ecc., non potremmo sapere se la nostra anima ne sarebbe capace, poiché non la conosciamo affatto per la sua idea. Ma se noi vedessimo in Dio l’idea che corrisponde alla nostra anima, noi conosceremmo allo stesso tempo o noi potremmo conoscere tutte le proprietà di cui essa è capace; come noi conosciamo tutte le proprietà di cui l’estensione è capace, poiché noi conosciamo l’estensione per la sua idea” (Ibidem).
Locke e l’identità della coscienza
La negazione lockiana di ogni forma di sostanzialità della mente, della res cogitans cartesiana, apre su un problema i cui risvolti non sono solo ontologici, ma giuridici, politici e teologici. Se infatti la mente non è sostanza, come potrà essere affermata la sua identità, l’identità cioè di quello che Locke (1632-1704) chiama “persona”? La risposta lockiana è costruita a partire dalla centralità del concetto di coscienza, intesa come la “la percezione di ciò che accade nella nostra mente” (Locke, Saggio sull’intelletto umano, 1690). La “cosa che pensa” permane identica nel tempo non in quanto sostanza, ma in quanto coscienza di sé. Scrive Locke nel capitolo XXVII della seconda parte del Saggio, che egli aggiunse nella seconda edizione dell’opera (1694): “[…] per trovare in che consista l’identità personale, dobbiamo considerare per cosa sta il termine persona: il quale, penso, sta per un essere intelligente e pensante, che possiede ragione e riflessione e può considerare se stesso, cioè la stessa cosa pensante che egli è, in diversi luoghi e tempi; il che esso fa soltanto mediante quella coscienza (consciousness) che è inseparabile dal pensare, e, a quanto mi sembra, essenziale ad esso: essendo impossibile per chicchessia percepire senza percepire che percepisce. Quando vediamo, udiamo, odoriamo, gustiamo, tocchiamo, meditiamo, o vogliamo alcuna cosa, noi ci accorgiamo di farlo. Altrettanto accade sempre nel caso delle nostre sensazioni e percezioni attuali: e in tal modo ognuno è a se stesso ciò che egli chiama se stesso (self): e in questo caso non si prende in considerazione il fatto che il medesimo io si continui nelle stesse sostanze o in sostanze diverse. Poiché, la coscienza (consciousness) sempre accompagnando il pensiero, ed essendo quella che fa sì, che ciascuno sia ciò che egli chiama se stesso (self), e in tal modo distingua se stesso da tutte le altre cose pensanti, in ciò solo consiste l’identità personale: ossia il fatto che un essere razionale sia sempre il medesimo; e di quel tanto che questa coscienza (consciousness) può venire portata al passato, a qualunque passata azione o pensiero, fin là giunge l’identità di quella persona; è lo stesso io, ora, che era allora; e quell’azione fu compiuta dal medesimo io che attualmente se la rappresenta nella riflessione” (Ibidem). Vi è identità personale là dove la coscienza, coestensiva in Locke con la memoria, ripercorrendo a ritroso la linea tempo, è in grado di riconoscere il proprio sé nel passato: questione fondamentale dal punto di vista giuridico e teologico, perché fonda l’imputabilità (e dunque la responsabilità) della persona rispetto alle proprie azioni e ai propri pensieri.