Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Affacciatosi alla fine del Seicento come possibile alternativa al concerto grosso, il genere del concerto solistico, all’interno del quale dominano le composizioni per violino, caratterizza l’intero Settecento strumentale italiano, culminando nella produzione di Viotti. Nel corso del secolo il concerto per violino diviene musica strumentale professionistica destinata a un pubblico pagante.
Il concetto di concerto
Nell’accezione diffusasi all’inizio del Seicento il termine “concerto” indica la caratteristica di conciliare gruppi differenziati di esecutori; in particolare, è un termine diffuso per indicare la presenza di strumenti accanto agli esecutori vocali. In Germania, con Michael Praetorius, si pone l’accento sulle implicazioni dell’etimologia, ribadendo l’idea di una “contrapposizione”. Nella seconda metà del XVII secolo il termine diventa dunque quanto mai appropriato per indicare la differenziazione dei ruoli fra i due settori dell’orchestra: il concertino (in genere due violini e basso continuo), al quale sono affidati i passi più difficili, e il ripieno, ossia l’insieme degli archi che realizzano le sezioni di “tutti”. È questo l’organico su cui si sviluppa la forma del concerto grosso, attestata compiutamente nei dodici Concerti grossi op. 6 di Arcangelo Corelli, editi per la prima volta nel 1714, ma composti diversi decenni prima.
Il concerto solistico, il violino, Vivaldi
A cavallo del XVII e del XVIII secolo si fa strada anche la possibilità che il ruolo del concertino sia svolto da un unico esecutore; significativo, in tal senso, è il gruppo dei sei concerti per violino contenuti nella raccolta postuma op. 8 (1709) del bolognese d’adozione Giuseppe Torelli. Da allora il genere del concerto solistico si diffonde sempre di più e, nella grande maggioranza dei casi, il ruolo del solista spetta al violino.
Il compito di dare una forma compiuta al concerto per violino spetta a un virtuoso di questo strumento, Antonio Vivaldi.
Con lui si definisce il ruolo del solista nei confronti dell’orchestra e si fissano alcuni moduli melodici e virtuosistici di riferimento. Inoltre, Vivaldi stabilisce in modo deciso la forma da dare alla successione del materiale musicale nell’ambito della dialettica fra il “solo” e il “tutti”. In particolare, il contributo vivaldiano è determinante per quanto concerne l’articolazione del primo allegro, nei casi (che non sono la totalità) in cui il concerto adotti la struttura complessiva in tre movimenti mosso-lento-mosso.
Nel corso del Settecento si registra una progressiva contaminazione della forma vivaldiana a episodi e ritornelli con due dei principi fondamentali che caratterizzano la cosiddetta forma-sonata: il confronto diretto fra due diverse aree tonali e la contrapposizione fra materiali tematici differenziati. Intorno agli anni Settanta si stabilizza un’articolazione formale del primo tempo di concerto, che può essere così riassunta (in corsivo, tra parentesi, si indicano le eventuali corrispondenze con le sezioni della forma-sonata): 1) primo “tutti”, contenente temi differenziati (almeno due), ma impostato interamente nella medesima tonalità; 2) primo “solo”, dove alla contrapposizione tematica, non necessariamente impostata sui temi del “tutti” precedente, corrisponde un contrasto tra due diverse tonalità (esposizione); 3) secondo “tutti”, nella nuova tonalità (coda dell’esposizione); 4) secondo “solo”, che esplora ulteriori tonalità (sviluppo); 5) terzo “tutti”, che riporta alla tonalità dell’inizio (transizione alla ripresa); 6) terzo “solo” che riespone liberamente il materiale principale nella tonalità dell’inizio (ripresa); 7) “tutti” conclusivo (coda).
Il finale adotta una versione più snella della forma del primo movimento; più tardi prevale in esso il rondò. La struttura complessiva in tre tempi, due allegri che racchiudono un movimento lento di carattere cantabile, finisce per prevalere di gran lunga.
Il concerto violinistico settecentesco è caratterizzato da un crescente virtuosismo: al solista si chiede di mettere in luce le proprie capacità mediante l’esplorazione di registri difficili e inconsueti per lo strumento, come le posizioni acute, e mediante l’esibizione di una grande disinvoltura nell’impiego di tecniche particolari, tanto dell’archetto quanto della mano sinistra. Non tutto ciò che il solista deve fare è scritto dal compositore (che spesso è il solista medesimo): i modi di abbellire una melodia o di realizzare un passaggio di bravura sono concepiti all’impronta nel momento dell’esecuzione. Lo straordinario impegno richiesto al virtuoso ha, d’altro canto, una motivazione precisa nel tipo di fruizione di cui è oggetto in modo prevalente il concerto dell’età classica. In questo caso, infatti, non si tratta più, come per altri generi strumentali, di musica di corte, o destinata a nobili esecutori dilettanti: il concerto solistico è un genere inteso per professionisti che intrattengono il pubblico e, nel caso delle istituzioni concertistiche che fioriscono in grandi capitali come Parigi o Londra, si tratta di un pubblico pagante.
La scuola italiana tra Vivaldi e Viotti
Un contributo decisivo all’evoluzione del virtuosismo violinistico arriva dal bergamasco Pietro Locatelli (1695-1764). Nella raccolta di concerti L’arte del violino, op. 3, pubblicata ad Amsterdam nel 1733, sono contenuti 24 capricci, da inserire ad libitum nei “solo”, che presentano le maggiori difficoltà richieste a un violinista dalla letteratura barocca.
Il massimo esponente della generazione di violinisti che segue immediatamente Vivaldi è l’istriano Giuseppe Tartini, attivo a Padova e noto anche per la scoperta del fenomeno acustico del “terzo suono”. La sua produzione di concerti per violino, che comunemente si suddivide in tre periodi (1721-1735, 1735-1750, 1750-1770), mostra un progressivo allontanamento dallo stile barocco, allontanamento che, se in una prima fase si manifesta soprattutto nell’invenzione melodica, finisce negli ultimi concerti, tecnicamente più semplici, per riguardare anche la struttura. Di Tartini è ancor oggi celebre la sonata per violino in Sol minore detta Il trillo del diavolo.
Tartini è un caposcuola e fra i suoi allievi merita una particolare segnalazione il livornese Pietro Nardini, che entra a far parte di quella che sembra esser stata la prima formazione quartettistica della storia, ossia il cosiddetto Quartetto toscano, di cui è violoncellista Luigi Boccherini. Alcuni allievi di Tartini sono attivi all’estero: Maddalena Laura Lombardini Sirmen, una delle più lodevoli, divide per esempio la sua carriera di concertista tra Parigi e Londra. Nei suoi concerti si manifesta un gusto notevolmente aggiornato, specie per quanto riguarda la natura dei temi e l’orchestrazione.
Parallelamente all’affermazione di Tartini e dei suoi allievi si sviluppa una scuola violinistica indipendente che ha sede a Torino. Ne è capostipite un allievo di Corelli, Giovanni Battista Somis. Il più importante tra gli allievi di Somis è Gaetano Pugnani, a sua volta insegnante di Viotti; proprio quest’ultimo lo accompagna in una tournée attraverso Svizzera, Germania e Russia. Di Pugnani ci restano cinque concerti per violino, caratterizzati da un virtuosismo spiccato ma non estremo. Fra gli esponenti della scuola piemontese va inoltre ricordato Felice Giardini.
Oltre agli esponenti delle due scuole di cui si è detto, sono attivi in quest’epoca altri violinisti-compositori: il più importante è considerato il bergamasco Antonio Lolli, attivo a Stoccarda e Pietroburgo. Per le grandi difficoltà tecniche i suoi concerti si inseriscono in una linea che collega i capricci di Locatelli col virtuosismo inarrivabile di Paganini. Sono da citare, inoltre, Giovanni Mane Giornovichi, che alcuni pensano esser stato d’origine croata, e il bolognese Luigi Borghi.
Il percorso del concerto violinistico italiano del Settecento culmina nell’esperienza compositiva del piemontese Giovanni Battista Viotti, che è, come si è detto, allievo di Pugnani. Viotti è attivo dapprima a Parigi e in seguito a Londra; oltre che come violinista e compositore, si impone come impresario. La sua produzione concertistica è assai consistente e si tende a dividerla in quattro periodi: a un primo gruppo di dieci concerti, nati probabilmente per l’istituzione pubblica parigina del Concert Spirituel, fanno seguito i concerti dal n. 11 al n. 15 (1783-1789), nati per Versailles, dove Viotti è al servizio di Maria Antonietta; seguono ancora i concerti dal n. 16 al n. 19, composti per il Théâtre de Monsieur, di cui Viotti è il fondatore, e i concerti dal n. 20 al n. 29, nati per Londra. Tra i lavori londinesi si colloca il celebre concerto in La minore n. 22, assai apprezzato da Brahms e rimasto fino a oggi in repertorio. A dispetto di un’orchestrazione mai troppo ricca, i concerti parigini di Viotti, che muovono dallo stile galante in voga nella capitale francese negli anni Settanta, approdano a uno stile drammatico che preannuncia per alcuni aspetti il gusto romantico.
Nei concerti londinesi si assiste a una certa semplificazione della scrittura virtuosistica, ma al tempo stesso viene arricchita la scrittura orchestrale e si manifestano le linee di uno stile classico pienamente maturo. In definitiva, non è esagerato dire che, per quanto concerne la loro collocazione storico-stilistica, i concerti per violino di Viotti occupano un posto analogo a quello dei concerti pianistici di Mozart.