Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Da una dimensione utopica e insurrezionale l’ideologia comunista nel XX secolo si trasforma, attraverso la dottrina leninista, nella teorizzazione e pratica della conquista del potere politico da parte di un gruppo compatto e disciplinato di “rivoluzionari professionisti”. Il regime edificato dalla rivoluzione di ottobre in Russia diviene il modello di una smisurata operazione di ridisegno dell’organizzazione sociale attraverso le leve dell’organizzazione statuale, e il comunismo leninista si configura come il primo esempio di totalitarismo del Novecento, presto contrastato ma anche imitato dai regimi di ispirazione fascista e dal nazismo tedesco, e specularmente contrapposto tanto alla tradizione liberaldemocratica occidentale quanto al socialismo democratico. Lo scontro mondiale con il nazismo perpetuerà il successo e l’ascendente del modello sovietico, che nell’epoca della guerra fredda sarà un punto di riferimento delle pulsioni illiberali presenti nella cultura occidentale, e si assocerà con l’antioccidentalismo terzomondista e con il ribellismo libertario dei movimenti giovanili. Dopo la fine della guerra fredda, il modello comunista marxista-leninista sopravvive ancora a se stesso proprio come catalizzatore simbolico di tutte le spinte antioccidentali, antiamericane e antiglobalizzatrici.
La “mutazione genetica” leninista e il modello sovietico
L’ideologia comunista subisce nel Novecento una radicale mutazione di significato, che avrà conseguenze di enorme rilevanza nella storia mondiale. Nella prima metà dell’Ottocento il riferimento al comunismo aveva nutrito ancora un insurrezionalismo innescato soprattutto dall’eredità giacobina. Con il marxismo, poi, esso si profilava come orizzonte e obiettivo finale di una teoria organica della storia come sviluppo dialettico. In quanto tale, esso rimaneva sullo sfondo del dibattito e dell’azione politica connessi alla nascita dei movimenti socialisti in Europa: che, soprattutto a partire dalla seconda Internazionale, tendevano sempre più a inserirsi, pur tra molte contraddizioni, nella dialettica politica dei regimi rappresentativi nei Paesi più industrializzati (come soprattutto la Gran Bretagna, la Francia e la Germania), e in quelli che sembravano avviarsi in un’analoga direzione.
Il nuovo secolo si apre invece con l’annuncio di una svolta. Nel 1902 Vladimir Il’ic Ul’ianov, detto Lenin, esponente del Partito Socialdemocratico Russo (di un Paese che fino ad allora era rimasto ai margini sia del processo di industrializzazione, che di quello di organizzazione dei movimenti operai), nel suo opuscolo Che fare? respinge nettamente l’idea di un movimento socialista fondato sull’organizzazione operaia e sulla prassi democratica. Secondo Lenin la vittoria del proletariato nello scontro di classe è possibile soltanto se le masse operaie saranno sottoposte alla leadership di una élite intellettuale fortemente motivata e militarmente organizzata, in grado di conquistare e gestire il potere come “avanguardia” del proletariato. La concezione radicalmente elitaria del marxismo proposta da Lenin, che diventa la linea della corrente bolscevica (“maggioritaria”) del partito socialdemocratico, prevarrà clamorosamente nella rivoluzione russa del 1917, quando proprio la ferrea organizzazione e lo spregiudicato realismo politico dei bolscevichi consentirà loro, nella debolezza delle istituzioni rappresentative e nella confusione politica legata all’abdicazione dello zar e alla difficile situazione della Russia nella Grande Guerra, di impadronirsi del potere attraverso il colpo di mano dell’assalto al palazzo d’Inverno. La stessa determinazione e spregiudicatezza consentiranno a Lenin e alla sua élite di rivoluzionari di professione di consolidare il loro dominio negli anni successivi, con la fondazione di una dittatura monopartitica.
Nella gravissima tensione sociale dominante in Europa durante e dopo la Grande Guerra, gli eventi russi appaiono una sorta di rivelazione, l’indicazione della via vittoriosa verso il socialismo, e orientano immediatamente in senso leninista una parte rilevante dei partiti e movimenti operai: sulla scia di questa influenza nel 1919 viene fondata la terza Internazionale, o Comintern (Internazionale Comunista), che opera il distacco ufficiale dei rivoluzionari di osservanza leninista dalla socialdemocrazia, e adotta come denominazione organizzativa a livello internazionale il termine “comunista” con il quale il partito bolscevico nel 1918 si era voluto ribattezzare. D’altra parte, nei Paesi europei più industrializzati il tentativo di “spallata” leninista fallisce, e – anche a costo di conflitti sanguinosi, come proprio in Germania – i partiti socialdemocratici rimangono il punto di riferimento fondamentale dei ceti operai su una linea di sostanziale accettazione delle istituzioni democratiche “borghesi”.
Durante gli anni Venti il modello sovietico attraversa una fase di consolidamento interno, scandita da segnali contraddittori. Alla fase della Nuova Politica Economica promossa da Lenin dopo la fine della guerra civile (apertura limitata alla libera iniziativa economica privata per risollevare l’economia) succede, dopo la morte del leader bolscevico, un periodo di aspro confronto interno che vede prima contrapposte la linea trotzkista della “rivoluzione permanente” a quella del consolidamento del regime socialista in Russia promossa da Nikolaj Bucharin e Stalin, quindi quella buchariniana, favorevole a una riapertura più stabile all’economia di mercato, a quella staliniana della collettivizzazione e della trasformazione forzata dell’economia sovietica in direzione della grande industria. Il trionfo di Stalin, a partire dai tardi anni Venti, determina una svolta decisiva del regime nel senso di una vera e propria distruzione della società russa (e degli altri Paesi inglobati nella compagine dell’Unione Sovietica) attraverso le deportazioni e i massacri delle comunità locali, e di una feroce repressione di qualsiasi dissenso interno al regime, attraverso l’onnipresenza della polizia segreta, processi-farsa, confessioni estorte, esecuzioni esemplari.
Dai totalitarismi contrapposti al confronto globale tra comunismo e liberaldemocrazia
Nel frattempo, però, proprio i radicali conflitti sociali e politici innescati in Europa dalla Grande Guerra e dalla rivoluzione russa avevano minato gravemente gli equilibri su cui si reggevano i regimi rappresentativi liberali e democratici. Alle frustrazioni di molti settori di società profondamente frammentate e alla sovversione leninista avevano risposto forze sovversive di segno contrario, tese a conciliare ideologie nazionalistiche, richieste di ordine e stabilità, e una reinterpretazione del socialismo sotto forma neorganicistica e corporativa: il fascismo italiano e i movimenti analoghi che ad esso si ispiravano negli altri Paesi, in primo luogo il nazionalsocialismo tedesco. Il crollo dell’ordinamento liberaldemocratico italiano e l’avvento del regime mussoliniano aprono una nuova fase nell’assetto del continente e nel confronto politico-ideologico che lo attraversa: una fase che si evolverà negli anni Trenta, con l’ascesa al potere di Hitler, nella contrapposizione tra due complessi ideologici totalitari, in cui le democrazie liberali sembreranno sempre più destinate a giocare un ruolo residuale.
È in quel periodo che la strategia internazionale del Partito Comunista Sovietico imbocca una nuova svolta: dal rifiuto di ogni contiguità con i partiti socialisti-riformisti e liberaldemocratici, tacciati di subordinazione al capitalismo e ai fascismi intesi come braccio armato di quest’ultimo, al progetto di “fronti democratici” tra tutti i partiti antifascisti. Il “frontismo” ispirato da Mosca, nell’arco di tempo che va dalla guerra di Spagna alla seconda guerra mondiale, conquista al comunismo sovietico nuovi consensi nell’area liberaldemocratica: consensi che oscurano sostanzialmente il discredito caduto sul regime staliniano con le “purghe” e i processi ai dissenzienti, e persino lo sconcerto suscitato nel 1939 dal patto di non aggressione stretto tra l’URSS e la Germania nazista. Sicché, le opinioni pubbliche europee (e persino quella statunitense) in gran parte concepiranno la guerra essenzialmente come una definitiva resa dei conti tra “fascismo” e “antifascismo”, in cui tutte le componenti del secondo fronte, inclusi dunque anche i comunisti, potranno ambire a essere inclusi nel novero dei difensori della democrazia contro la nuova barbarie. Una legittimazione che avrà un peso decisivo sulla dialettica politica e ideologica della seconda metà del Novecento, e già negli anni del conflitto troverà un consolidamento decisivo nel ruolo da assoluto protagonista giocato dall’URSS nella vittoria sul nazismo.
L’assetto internazionale del secondo dopoguerra consacrerà la divisione dell’Europa, e di gran parte del mondo, in due enormi zone d’influenza, sotto l’egemonia di potenza degli Stati Uniti da un lato e dell’URSS dall’altro. L’egemonia sovietica sui Paesi dell’Europa centro-orientale e su una parte della Germania sconfitta, sancita dagli accordi di Yalta e di Potsdam, si consoliderà attraverso l’abbattimento di ogni parvenza di democrazia pluralista e di libertà civili e politiche in quei Paesi, nei quali l’URSS tra il 1945 e il 1948 impone regimi dittatoriali a partito unico, o comunque soggetti al dominio incontrastato del locale Partito Comunista. Ma il nuovo confronto globale tra democrazia “occidentale” e comunismo sarà recepito, ciò nondimeno, in una parte consistente della cultura di sinistra europea come quello tra una democrazia “al servizio” del capitalismo e un’altra più “avanzata”. Più in generale, a molti europei l’URSS appariva come una felice eccezione alla spaventosa decadenza europea del Novecento, mentre la vittoria angloamericana, pur avendo assicurato la sconfitta di Hitler e Mussolini, generava ambiti di malcelata ostilità per la nuova superpotenza mondiale, condita di frustrazione per la perduta centralità del Vecchio Continente, invidia per il successo economico americano e aristocratico disdegno per la nuova influenza degli Stati Uniti nella cultura europea.
Conseguentemente, nonostante la netta ripresa della socialdemocrazia inaugurata nel 1945 dall’avvento al governo in Gran Bretagna del Partito Laburista di Clement Attlee (1883-1967), con l’elaborazione del più influente modello del welfare state europeo, la presenza rilevante di una sinistra filosovietica e la più ampia area di simpatia per l’URSS renderanno arduo ogni tentativo di compattare l’Occidente liberaldemocratico a difesa dei propri ordinamenti contro la minaccia mondiale del totalitarismo comunista.
L’altro aspetto fondamentale che va considerato per comprendere l’espansione dell’influenza sovietica e del modello marxista-leninista nel secondo dopoguerra è il gigantesco processo di decolonizzazione, di emancipazione e sviluppo politico-economico dei Paesi precedentemente assoggettati alle potenze europee. La lotta di liberazione condotta dalle classi politiche asiatiche e africane, prevalentemente influenzate da ideologie di provenienza europea, prende in molti casi (in particolare nell’area mediorientale, complice anche il conflitto arabo-ebraico) l’aspetto di una contrapposizione all’Occidente egemonizzato dagli Stati Uniti, considerato come dominio imperialistico del mondo in continuità con quello delle vecchie potenze coloniali. E, per converso, si traduce in una naturale simpatia nei confronti dell’Unione Sovietica, che porta molti movimenti indipendentistici, e poi molti regimi dei Paesi afroasiatici, a entrare nell’orbita strategica comunista. Il modello sovietico, pur non imponendosi in molti dei Paesi decolonizzati (dove invece prevalgono regimi che uniscono socialismo pianificatore, mercato sottoposto a un controllo dirigista e autoritarismo nazionalistico), riceve nuovo impulso dal presentarsi come guida per il riscatto dei Paesi sottosviluppati, secondo una via di sviluppo “alternativa” a quella capitalistica occidentale.
Infine, una svolta decisiva nella rilevanza e nella forma assunta dall’ideologia comunista nel XX secolo è data dalla rivoluzione cinese, che si conclude nel 1949 con l’instaurazione di una Repubblica Popolare dichiaratamente comunista e filosovietica, guidata da Mao Zedong. In realtà il comunismo cinese si presenta subito con alcune significative differenze rispetto al modello sovietico: in particolare, laddove quello era fondato sull’industrializzazione forzata del sistema economico, il maoismo è fautore di un’organizzazione collettivistica concepita ancora essenzialmente su base rurale. Anche in politica internazionale, nonostante l’asserita “fratellanza” e solidarietà di Mao nei confronti dell’URSS, la linea dei due colossi comunisti non coincide: Stalin intende consolidare l’area di egemonia regionale dell’URSS in continuità con la politica imperialistica della Russia zarista, e pensa a un confronto di lungo periodo con gli Stati Uniti, anche alla luce della quasi impraticabilità di un conflitto atomico; Mao, viceversa, preme per una immediata aggressione verso il blocco capitalista, a partire dallo scacchiere asiatico, fondata innanzitutto sulla mobilitazione dell’immenso potere demografico del suo Paese.
Dietro l’immagine impressionante di consolidamento e crescita del comunismo nel mondo, peraltro, già negli anni Cinquanta cominciano a emergere i primi segni di difficoltà e contraddizioni interne del “blocco” incentrato sulla guida sovietica. Le rivolte popolari in Germania orientale (1953), in Polonia e poi soprattutto in Ungheria (1956), stroncate nel sangue dai sovietici, mostrano con evidenza che il dominio comunista sui Paesi dell’Europa orientale non produce adesione entusiastica, ma piuttosto costanti crisi di rigetto. Nella stessa URSS, la morte di Stalin nel 1953 apre un periodo di confusa transizione, in cui sembra prendere forma un nuovo corso della classe dirigente del PCUS, che si concretizza nel 1956 con il celebre rapporto di Nikita Chruscev (1894 -1971) al XX Congresso. Lo stalinismo viene ufficialmente denunciato come una degenerazione dei principi della rivoluzione bolscevica, si condannano il terrore e la sistematica repressione che fino ad allora non erano stati mai provati o ammessi, e si inaugura una linea internazionale che intende essere non di guerra aperta ma di confronto tra il modello del socialismo sovietico e quello del capitalismo occidentale guidato dagli Stati Uniti. Ma complessivamente, nonostante la crisi, l’influenza sovietica – in parte grazie alla compenetrazione acquisita con l’ideologia terzomondista della liberazione, in parte per l’appeal di una linea diplomatica che faceva sperare in una “distensione” e in una fine dei rischi di guerra totale soprattutto in Europa – rimane forte, e il ruolo dei partiti comunisti resta rilevante anche nei Paesi liberaldemocratici.
Il nuovo modello del comunismo “movimentista” e la crisi strutturale del sistema sovietico
Negli anni Sessanta, anzi, la crisi del comunismo sovietico sembra a molti essere ampiamente compensata e sorpassata dalla crisi del modello politico, economico e sociale occidentale, tanto statunitense quanto europeo. Le inquietudini di società che avevano subito una impetuosa spinta alla modernizzazione e all’allentamento dei legami tradizionali dopo la fine della guerra generano nuove istanze – sostenute soprattutto dalla generazione dei baby boomers, i giovani nati proprio nel clima di crescita economica del dopoguerra – allo svecchiamento delle classi dirigenti, all’ampliamento delle libertà e delle opportunità personali, all’uguaglianza civile e sociale, che sfociano nei grandi movimenti di protesta studentesca e giovanile partiti dalle grandi università statunitensi a metà del decennio ed estesi a macchia d’olio, a partire dal 1968, all’Europa.
Il Sessantotto si esprime soprattutto in una ribellione libertaria e anarcheggiante, in un rifiuto dei principi di ordine e di autorità familiare, sociale e generazionale, su cui le società occidentali si erano tradizionalmente fondate, e che erano rimasti in piedi anche con l’avvento delle democrazie liberali, fungendo anzi da fattori aggreganti nel “serrate le file” di quelle società nei primi, drammatici anni della guerra fredda. Il suo principale collante teorico è una rivisitazione dell’ideologia marxista-leninista come teoria della “liberazione” non più soltanto delle classi o dei popoli, ma degli individui, delle minoranze, dei generi, della sessualità, della creatività, dai vincoli della società “borghese”, vista come naturalmente fondata sulla repressione violenta e su un autoritarismo appena più implicito di quello totalitario. Il leninismo, soprattutto per il tramite della critica della modernità esercitata dai pensatori della scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse) si salda alla reinterpretazione in chiave politica dell’analisi freudiana della civiltà come repressione delle pulsioni, all’interpretazione attivistico-rivoluzionaria dell’esistenzialismo data da Jean-Paul Sartre, all’interpretazione del nichilismo nietzschiano-heideggeriano come “decostruzione” della cultura occidentale. In questa elaborazione culturale il comunismo, svincolandosi dall’ortodossia sovietica, trova una forma nuova e attraente per i giovani ribelli occidentali nati dalla società del benessere. Essi in parte adottano come riferimento politico il modello maoista, di cui in quei tempi viene clamorosamente fraintesa in senso libertario-movimentista la “rivoluzione culturale” (in realtà un gigantesco, sanguinoso giro di vite repressivo del regime totalitario cinese); in parte prendono a modello i movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo, in particolare quelli dell’Indocina e del Sud America.
In URSS, intanto, la caduta di Chruscev nel 1964, dovuta soprattutto allo smacco in politica estera subito con la crisi dei missili a Cuba nel 1962, inaugura una fase di arroccamento del regime, segnata dalla soppressione delle pur caute aperture alla libertà di espressione e a una concezione meno rigida dell’economia pianificata che gli anni del chruscevismo avevano prodotto, e da una rinnovata spinta imperialista in politica estera. Ma l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968, per quanto sembri ripetere le dinamiche della crisi ungherese, segna in realtà il passaggio a uno stadio in cui la presa dell’URSS sui Paesi “satelliti” si va facendo sempre più difficile. Mentre, infatti, negli anni successivi l’influenza sovietica troverà nuove vie di espansione – dall’Indocina, dove gli Stati Uniti ammainavano la bandiera sul Vietnam, all’Africa sud-occidentale e orientale – il regime sovietico, guidato da Leonid Brežnev, dovrà fronteggiare un dissenso sempre più agguerrito all’interno e nei Paesi dell’Europa orientale, e comincerà a mostrare i segni di una crisi economica che si farà ben presto insostenibile.
Il tentativo di nuova “distensione” tra Stati Uniti e URSS a partire dai primi anni Settanta, con i primi trattati per il controllo degli armamenti nucleari, non servirà che a mascherare per breve tempo il declino. E la firma degli accordi di Helsinki nel 1975, che avrebbe dovuto servire nelle intenzioni sovietiche a una più ampia legittimazione “democratica” dei sistemi comunisti, creerà soltanto una base d’appoggio internazionale per le rivendicazioni dei dissidenti. Intanto, anche in Cina il sistema totalitario entra in una profonda crisi, che però viene risolta all’interno dell’organizzazione e della classe dirigente del regime. La morte di Mao (1976) segna l’avvio di un moto di ribellione contro la classe dirigente che aveva imposto la “rivoluzione culturale”, e della rivendicazione diffusa di un allentamento del collettivismo militarizzato imposto negli anni precedenti. I maggiori leader dell’ultimo periodo maoista (tra cui la vedova del “grande timoniere”, Chang Ching) saranno posti sotto accusa a furor di popolo come traditori, e definiti “la banda dei quattro”. Il nuovo segretario del partito Deng Xiao Ping avvierà un’ambiziosa politica di liberalizzazione dell’economia, accogliendo i principi capitalistici del profitto e dell’iniziativa privata, ma conservando intatto il sistema politico del regime a partito unico, il controllo poliziesco, la repressione delle libertà civili.
Alla fine degli anni Settanta il “fascino” intellettuale e politico dell’ideologia comunista è sempre più slegato dal “modello” sovietico, e ormai anche da quello cinese. Persino i partiti comunisti dell’Europa occidentale, stretti da ferrei legami di subordinazione gerarchica al PCUS, in gran parte esprimono la loro dissociazione da sistemi la cui natura totalitaria sempre meno può essere nascosta, e tentano di riallacciarsi in qualche modo alle tradizioni della sinistra democratica occidentale.
Il comunismo dopo il comunismo: la “globalizzazione” e i suoi “antagonisti”
Il colpo di grazia alla crisi strutturale del regime comunista sovietico verrà negli anni Ottanta, come conseguenza di due fattori: da un lato, la riorganizzazione delle economie di mercato occidentali, che, a partire dall’esempio del nuovo primo ministro (1979) conservatore britannico Margaret Thatcher e del presidente (1980) repubblicano Ronald Reagan superano la crisi economica del decennio precedente grazie a massicce dosi di liberalizzazioni, privatizzazioni e tagli ai costi insostenibili dello Stato sociale; dall’altro (ma strettamente connesso al primo) il ritorno degli Stati Uniti e dei loro alleati a una politica estera aggressiva e intransigente nei confronti dell’Unione Sovietica. Sul finire del decennio precedente, i dirigenti sovietici avevano ritenuto che esistessero le condizioni per una “spallata” militar-imperiale contro un blocco occidentale apparentemente stremato dalle difficoltà economiche e da fortissime divisioni sociali e politiche interne: da qui l’installazione dei missili nucleari a medio raggio SS-20, puntati sull’Europa occidentale, e la sempre più massiccia penetrazione in Asia e in Africa. Ma la nuova linea politica d’attacco del vacillante regime si rivela ben presto clamorosamente controproducente. Reagan e i Paesi della NATO reagiscono con decisione, contrapponendo ai missili sovietici quelli americani Pershing e Cruise installati nelle basi europee, nonostante una massiccia opposizione pacifista, su cui Mosca contava per un nuovo tentativo di giungere a una relativa “neutralizzazione” dell’Europa filoatlantica che allentasse la forza di attrazione delle liberaldemocrazie nei confronti dei suoi Paesi satelliti. Contestualmente, l’amministrazione statunitense finanzia massicciamente i guerriglieri che in Afghanistan combattono contro l’invasione decisa nel 1979 dall’URSS per restaurare il locale regime comunista filosovietico. E, soprattutto, promuove colossali investimenti per ricerche tecnologiche su nuovi armamenti, il cui progetto più avanzato avrebbe dovuto essere la creazione di un sistema antimissile satellitare in grado, nelle intenzioni americane, di neutralizzare del tutto in futuro la minaccia nucleare sovietica.
Impossibilitato a raccogliere la nuova sfida di potenza a causa di un’economia di Stato sclerotizzata e ormai irrecuperabilmente allo sbando, il regime comunista cerca disperatamente di correre ai ripari. Dopo la morte di Brežnev (1982) e alcuni anni di confusa transizione, nel 1985 viene nominato segretario del PCUS Michail Gorbacev, fautore di una linea di profonda riforma politico-economica e di apertura all’Occidente in politica estera. Gorbacev e i settori riformisti del partito puntano a una trattativa con gli USA che blocchi la corsa, per l’URSS insostenibile, agli armamenti, e all’introduzione dei principali elementi della democrazia pluralista e dell’economia di mercato, al fine di disinnescare le tensioni più destabilizzanti per l’edificio politico-istituzionale comunista e cercare così di salvarne l’ossatura fondamentale. Il processo, sintetizzato nel termine perestrojka (“ricostruzione”, “riforma”), e che puntava, ancora una volta, a uno spazio europeo sostanzialmente “neutralizzato” (la “casa comune europea”), si rivelerà in realtà impossibile da controllare e da indirizzare. Le forze politiche nuove messe in movimento dalle riforme condurranno in pochi anni alla dissoluzione tanto del dominio sovietico sui satelliti europei, quanto della stessa URSS.
Nonostante le ampie convergenze con gli Stati Uniti, prima con Reagan e poi con il suo successore George Bush, che portano a un pieno superamento dei presupposti della guerra fredda, l’Unione Sovietica gorbaceviana imploderà nel giro di pochi mesi: prima con la ribellione delle opinioni pubbliche dei Paesi est-europei, incoraggiate dalle sempre maggiori aperture di Gorbacev, che culmina nel crollo del muro di Berlino, cioè nell’abbattimento a furor di popolo del regime della Germania Est, nel 1989; poi con l’erosione della stessa compagine sovietica da parte delle forze liberaldemocratiche e nazionaliste, in particolare russe, che, dopo il tentato colpo di Stato di restaurazione del comunismo organizzato da alcuni ufficiali nel 1991, condurrà per reazione alla trasformazione della federazione ormai ex comunista in una “comunità di Stati indipendenti”, divenuta poi a sua volta una costruzione puramente formale. Nel frattempo, in Cina, la ribellione degli studenti di piazza Tien’anmen in nome dei diritti civili e della democrazia aveva provocato nel 1989 una sanguinosa repressione da parte del regime, a tragica conferma che, nonostante le riforme economiche, del comunismo in quel Paese restava in piedi l’apparato autoritario di controllo sulla società civile.
Di fronte al collasso improvviso, e per molti inatteso, dei modelli politici comunisti del Novecento, le forze politiche e le correnti culturali della sinistra europea che ancora guardavano a quelle esperienze come a punti di riferimento essenziali sono costrette a una profonda ridefinizione delle proprie ragioni ispiratrici e dei propri obiettivi strategici. In Europa occidentale si assiste generalmente a una estrema, ulteriore marginalizzazione delle organizzazioni politiche dichiaratamente comuniste, o a un loro scioglimento in compagini di sinistra più ampie. Un caso a parte è quello del Partito Comunista Italiano, che assommava in sé due condizioni peculiari: un peso rilevante nel consenso popolare e nel sistema politico, pur nell’assenza della possibilità di alternanza a causa dell’inserimento del Paese nell’area liberaldemocratica occidentale, e il tentativo, con la segreteria di Enrico Berlinguer, di trovare una linea politica relativamente autonoma dall’URSS fin dai primi anni Settanta. Una linea concretizzatasi nell’adesione all’integrazione europea, nell’accettazione della NATO, nell’ingresso nelle maggioranze di governo negli anni dell’“emergenza” economica e terroristica attraverso le compagini dette della “non sfiducia” e della “solidarietà nazionale”. Dopo il 1989 il PCI, per iniziativa dell’allora segretario Achille Occhetto, inizia un tormentato dibattito sulla sua identità, che condurrà alla decisione di cambiare nome in Partito Democratico della Sinistra (poi, dal 1998, Democratici di Sinistra). Tuttavia il “post-comunismo”, sia in generale nel continente europeo, sia nel caso italiano, non si risolve tout court in un ritorno degli ex comunisti nell’alveo della tradizione del socialismo democratico e riformista. Piuttosto, nell’opinione pubblica e in gran parte dei ceti intellettuali di sinistra quella cesura rappresenta tutt’al più la scelta di collocarsi a mezza strada, in una posizione ambigua, che archivia la tradizione comunista ma al contempo ne rimpiange la fine come una perdita irreparabile, come la privazione di ogni orizzonte ideale di lungo periodo del pensare e dell’agire politico, e continua a rivendicare l’eredità di una sinistra “altra” rispetto a quella che ha governato le società di mercato in molti Paesi democratici europei.
Appare così comprensibile come, pur dopo l’esaurimento di ogni forza espansiva e paradigmatica del comunismo novecentesco, molte categorie della sua tradizione ideologica siano riprese nell’elaborazione di riflessioni e piattaforme politiche che, negli anni Novanta e agli esordi del XXI secolo, si vanno definendo soprattutto come “antagonismo” rispetto a un mondo “unipolare”, dominato dalla “globalizzazione” capitalistica e dall’ormai indiscussa egemonia politico-militare degli Stati Uniti d’America. Nelle formulazioni ideologiche dell’“antiglobalismo”, estrema mutazione genetica dell’ideologia comunista sopravvissuta a se stessa, l’alternativa al capitalismo globale è concepita essenzialmente in negativo, come “resistenza” di “isole” di organizzazione comunitaria, come salvaguardia dell’“identità” e della “diversità” culturale contro l’“omologazione”. A costo di prendere a modello le più varie forme di organizzazione socio-politica primitive e premoderne, e di abbandonare qualsiasi spirito universalistico di emancipazione e uguaglianza.