Il commercio e la moneta
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nei secoli dell’alto Medioevo il declino delle città porta con sé il declino degli scambi. Le merci vengono prodotte, comprate e vendute in quantità sempre minori; il denaro circola meno, con la diminuzione della domanda e dell’offerta di beni. L’immagine di un’economia di pura sussistenza è tuttavia fallace. Il commercio si concentra su particolari assi di comunicazione e su precisi e determinati settori merceologici.
È con la fine dell’Impero romano d’Occidente e il progressivo e inesorabile disfacimento dell’antico apparato amministrativo, fiscale e giudiziario, che hanno inizio i lenti ma radicali cambiamenti nei vari settori della vita economica: quasi ovunque le campagne e le città vanno incontro a veri e propri sconvolgimenti con conseguenze spesso rovinose anche per la rete dei rapporti commerciali. Si può dire che la decadenza del sistema dell’economia urbana sia la maggiore novità: con la perdita della funzione politica e amministrativa, i centri urbani assistono al declino della loro funzione economica prevalente, quella di mercati di consumo e di scambi, oltre che di centri di produzione artigianale. Le merci vengono prodotte, comprate e vendute in quantità sempre minori; il denaro circola meno, con la diminuzione della domanda e dell’offerta di beni. Lo stesso trasporto da un luogo all’altro si ridimensiona con la conseguenza che importanti città portuali del Mediterraneo vedono ridurre significativamente sia il numero delle imbarcazioni che le frequentano sia il volume delle merci trattate.
Un altro fenomeno, di portata altrettanto ampia, ha contribuito a condurre questa situazione alle estreme conseguenze: la penetrazione all’interno dei confini dell’impero di gruppi di popolazione, spesso nomadi, che provengono dal nord dell’Europa o dall’Oriente alla ricerca di nuovi stanziamenti. Dietro questo evento, le invasioni barbariche, si cela in realtà un imponente fenomeno economico e demografico che, a seguito di successive ondate tra il IV e il VI secolo, porta alla ridistribuzione della popolazione tra Oriente e Occidente. Le regioni europee settentrionali e orientali (corrispondenti all’odierna Germania e ai Paesi slavi) sono colpite in misura minore dalla crisi demografica accentuando così la caratterizzazione meno latina e più germanica della civiltà europea di quegli anni.
La crisi delle città e la crisi demografica, con la caduta degli investimenti in beni capitali (in particolare del capitale mercantile), spostano, per molti secoli, il centro degli interessi economici verso la terra, l’unica a mantenere intatto il proprio valore. La diminuzione globale del numero delle persone rende sempre più preziosa e richiesta la manodopera rurale. È in questo contesto che un ruolo di primo piano riveste l’organizzazione delle attività produttive, non solo agricole, che fanno capo alla curtis, dando “luogo a una crescente proliferazione di mercati rurali, evidente nella moltiplicazione della titolarità dei diritti connessi alle attività di scambio afferenti a castelli, chiese, monasteri, nodi vari” (R. Greci, “Nuovi orizzonti di scambio e nuove attività produttive”, in Economie urbane ed etica economica nell’Italia medievale, 2005).
Nell’Europa feudale persistono e si potenziano i mercati locali, per le contrattazioni a livello della singola curtis o di curtes vicine di vari prodotti, come il bestiame, beni alimentari (grano, sale, aringhe), o attrezzature agricole, beni di uso quotidiano, fabbricati dagli artigiani e dagli artisti che lavorano nei laboratori presenti nelle curtes. Questi traffici sono in mano, soprattutto, ai negotiatores, i mercanti locali, che talora organizzano carovane per recarsi in paesi più lontani, come nella Spagna musulmana, a vendere schiavi ed eunuchi.
Di diversa dimensione il circuito commerciale a lungo raggio. In quest’ultimo caso oggetto delle transazioni sono i prodotti di grande pregio, come oggetti d’arte, tessuti pregiati, pellicce, seta, spezie come il pepe, i chiodi di garofano, la noce moscata, il macis (più delicato e raro della noce moscata e dunque anche più costoso), utilizzati nell’arte culinaria, come condimento nelle vivande e come ingrediente nella preparazione del vino aromatico. Ancora nel bagaglio dei mercanti si trovano lo zucchero, il legno di aloe e di sandalo, l’indaco, l’avorio, la gommalacca, l’incenso, perle e pietre preziose, il balsamo, la cassia, tintura di porpora; prodotti che, provenienti generalmente dall’Oriente, oltre che dal Nord scandinavo e baltico, vengono dirottati verso l’Europa continentale. Dall’Africa proviene l’oro e l’avorio e dall’Est (Lituania e Russia settentrionale) schiavi e pellicce.
Il commercio, in tutti i casi, si concentra su particolari assi di comunicazione e di scambio e su precisi e determinati settori merceologici. Se nei mercati locali i costi di trasporto sono ovviamente ridotti al minimo, nei circuiti più ampi tale spesa può essere ammortizzata ricorrendo al trasferimento attraverso la via di mare e poi ancora utilizzando i fiumi navigabili. In questo modo, attraverso il Po, il Rodano, la Senna, il Reno, il Danubio, e non solo, i mercanti penetrano nel cuore dell’Europa continentale. Specie nelle regioni settentrionali della penisola, si assiste a quella che Roberto Sabatino Lopez ha definito la “fluvializzazione dei trasporti” (La rivoluzione commerciale del Medioevo, 1975).
Dall’Occidente arrivano in Oriente: l’olio (esportato in grandi quantità da Amalfi), il vino, il miele, il legname e i metalli dell’Italia settentrionale e della Germania.
L’incontro con gli Arabi, un popolo di viaggiatori, di scienziati, dedito al commercio, favorisce proficui rapporti economici con i cristiani. I mercanti, provenienti dalle città portuali, in primo luogo Venezia, si inseriscono naturalmente nell’approvvigionamento di materiali come il legno e il ferro necessari per l’allestimento delle imbarcazioni e per la fabbricazione delle armi. Inoltre la grande prosperità del califfato amplia la richiesta di merci occidentali e, grazie al surplus delle esportazioni, l’Europa occidentale importa oro e argento arabi, anche sotto forma di moneta, il dinar. All’interno del sistema degli scambi tra Oriente e Occidente, dunque, il commercio non viene mai meno. Da questo sistema deriva la fortuna di una città come Venezia che si sviluppa, in piena età feudale, accogliendo nel suo porto lagunare ingenti quantità di merci provenienti dall’Oriente, destinate a raggiungere i mercati dell’Europa centro-settentrionale.
Le vicende relative alla circolazione monetaria costituiscono un ulteriore e fondamentale riscontro della significativa presenza del mercato e degli scambi. Se è indubbio che tra VI e VII secolo il crollo dell’organizzazione statale e fiscale dell’Impero romano riduce l’uso della moneta, in linea con la diminuzione del valore e del volume dei beni scambiati, bisogna anche notare che non si registra mai un ritorno al puro e semplice baratto, cioè allo scambio di un prodotto con un altro: la circolazione della moneta, infatti, non cessa mai.
La funzione di misura del valore della moneta rimane: si tratta di pezzi di oro e di argento coniati, in quanto nella società medievale il vero valore della moneta, dunque la sua capacità di acquisto, è costituito dall’effettiva quantità di metallo prezioso che essa contiene.
Negli scambi a lunga distanza fra Occidente e Oriente o comunque allorché si effettuano transazioni di una certa importanza, l’unico bene riconosciuto e accettato è l’oro, sia sotto forma di moneta vera e propria sia sotto forma più semplice di lingotto o di gioiello. Nei mercati locali e interregionali prevale invece la circolazione dell’argento, dotato di una capacità di acquisto inferiore di circa dieci volte rispetto all’oro. L’argento diventa pertanto lo strumento di pagamento del mercato feudale. Proprio a partire dai bisogni di un mercato che, per crescere, necessita di uno strumento di scambio più sicuro ed efficiente, si avverte l’esigenza di riordinare la circolazione monetaria.
Nel 794 Carlo Magno effettua un’importante riforma monetaria disponendo che tutte le zecche dell’impero, da Barcellona a Roma, conino un unico tipo di moneta, il denarius novus, il denaro d’argento, contenente circa un grammo e mezzo di argento puro. È il primo tentativo di creare una moneta unica per le regioni europee politicamente sottoposte all’Impero carolingio, con il quale si tenta di uscire dal caos monetario seguito allo sfacelo dell’Impero romano. I denarii cominciano a circolare ma le complicazioni non vengono meno. Anche se le monete coniate nelle diverse zecche dislocate nei territori italiani, tedeschi o francesi, hanno lo stesso nome, in realtà non hanno lo stesso peso in argento puro, per cui sorgono immediatamente problemi di cambio da un denaro all’altro.
Si sa ancora poco circa l’attività e i prodotti delle zecche medievali; si trovano “però sempre in luoghi vicini al cuore degli affari, proprio per poter meglio attirare i mercanti di passaggio” (L. Travaini, Monete, mercanti e matematica, 2003). I monetieri sono spesso dotati di tali privilegi da diventare una “aristocrazia del denaro” (R. S. Lopez, “An Aristocracy of Money in the Early Middle Age”, in Speculum, 1953). Le monete romane e bizantine, dapprima modelli, sono sostituite gradualmente dall’immagine e dal nome dei sovrani germanici.