Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La diffusione delle idee illuministiche e delle molteplici istanze di riforma religiosa minano l’autorità centrale del potere pontificio. Ne risulta accentuato il ruolo dei vescovi nella guida delle chiese locali. Inoltre l’accresciuta attenzione rivolta ai problemi della formazione e della moralizzazione del clero curato contribuiscono a consolidare la dignità del sacerdozio. Nasce così un nuovo tipo di prete con una più alta preparazione spirituale, ma più isolato dai fedeli.
Politica e riforme
Il Seicento lascia al secolo seguente un’eredità fortemente laicista, di rivendicazione del potere politico nei confronti di quello ecclesiastico. Il dibattito sul rapporto tra società civile e religione raggiunge naturalmente livelli diversi a seconda dei singoli contesti e delle differenti relazioni tra Stato e Chiesa. Nel complesso, però, il XVIII secolo segna un forte avanzamento della politica e della ragione rispetto alla fede.
La ripresa del giurisdizionalismo e la polemica anticlericale degli illuministi non risparmia neanche Paesi come l’Inghilterra, in cui la supremazia dello Stato sulla Chiesa è data ormai da due secoli, e dove pure una concezione adogmatica della religione e una maggiore laicizzazione della vita sociale diventano ora patrimonio culturale di un intero ceto dirigente.
Più forti i fermenti nel mondo cattolico, dove la lotta ai privilegi detenuti dal clero in campo giuridico-amministrativo si intreccia con profonde istanze di riforma religiosa che riportano in auge la teoria della predestinazione umana (giansenismo), l’affermazione della superiorità del concilio di Trento sul papa e degli episcopati sulla curia romana (febronianesimo).
L’opposizione della Santa Sede nei confronti dei movimenti di pensiero ritenuti non ortodossi è decisa e immediata. Nel 1713 Clemente XI con la bolla Unigenitus condanna le proposizioni essenziali del giansenismo e più tardi viene messa all’indice l’opera del vescovo Febronio.
Quanto alla difesa delle proprie prerogative, la linea scelta dal papato mostra invece maggiore duttilità. Ne sono un palese indizio, da un lato, la centralità assegnata alla funzione episcopale nel governo delle chiese locali, dall’altro, tutta la politica concordataria condotta da Benedetto XIV con il Regno di Sardegna e il Regno di Napoli (1741), la Spagna (1753) e la Lombardia (1757). In questi casi la tassazione dei beni ecclesiastici è il prezzo da pagare per l’affermazione dello Stato moderno, mentre garantisce al papato di condurre la riforma religiosa sotto l’egida del potere politico. Inoltre, il diffondersi del gallicanesimo in Francia, l’espulsione dei Gesuiti dal Portogallo (1759), dalla Francia (1764), da Napoli e dalla Spagna (1767), insieme allo smantellamento degli ordini regolari e delle confraternite operato da Giuseppe II nei domini asburgici determinano una sorta di “provincializzazione” della Chiesa di Roma. L’influenza della politica pontificia, così, non si avverte più come un tempo in tutto il mondo cattolico, ma prevalentemente nelle diocesi di sua pertinenza governativa.
Nell’ottica di un progressivo decentramento e riconoscimento dell’autonomia tra Stato e Chiesa, la funzione dei vescovi nella conduzione delle chiese locali assume allora una nuova centralità destinata a consolidarsi con il tempo.
Il ruolo degli episcopati
A partire dagli anni Venti del secolo si avvia un processo di razionalizzazione del panorama diocesano. L’incremento demografico, la ridistribuzione della popolazione sul territorio, l’adeguamento dell’organizzazione ecclesiastica ai nuovi confini politici sanciti dalle guerre dinastiche, ma soprattutto la maggiore attenzione prestata dai pontefici e dalla curia romana al ruolo dei vescovi, impongono la creazione di nuove sedi diocesane. In Francia il loro numero arriva a 140; in Spagna vengono istituite ex novo le diocesi di Santander, Ibiza, Tudela e Minorca; in Boemia e in Austria, le grandi diocesi di Praga e Vienna vengono suddivise in più dipartimenti; mentre nell’area italiana si assiste a una trasformazione di tutta la geografia diocesana, specie nei territori dei Savoia e nel Regno di Napoli. Alla razionalizzazione delle strutture corrisponde, nella maggior parte dei casi, un clero degno del compito affidatogli. I vescovi della prima metà del secolo non si sottraggono, come era avvenuto nel passato, all’obbligo della residenza e molti di loro restano alla guida della stessa diocesi anche per oltre venti anni. Essi effettuano con regolarità visite alle parrocchie, registrandone in poderosi volumi la situazione materiale e le condizioni della vita religiosa, promuovono inoltre la costituzione e una corretta tenuta degli archivi diocesani e parrocchiali, creando così le premesse per poter rivendicare le prerogative ecclesiastiche su basi documentarie accertate.
Le migliori energie vengono comunque indirizzate verso la riforma disciplinare del clero e al problema della sua formazione culturale. Poiché solo una minima parte degli aspiranti al sacerdozio si istruisce nei seminari, i prelati incoraggiano l’istituzione di congregazioni che si dedicano in modo particolare agli esercizi spirituali per il clero. Molti vescovi sono anche tra i maggiori committenti di opere d’arte, avviano la costruzione o l’ampliamento di edifici legati alle funzioni episcopali (cattedrali, palazzi vescovili, seminari, ville extraurbane) e dotano le biblioteche diocesane di ricche collezioni librarie.
L’azione pastorale svolta da questa nuova generazione di vescovi imprime quindi una svolta nello stile di governo delle diocesi. Di estrazione nobiliare, il clero del Settecento gravita spesso nei circoli di corte e nei salotti letterari, risentendo del generale processo di trasformazione culturale e ideologica che investe le classi dominanti europee.
Insieme alla penetrazione delle idee e dei costumi francesi, nel clero inoltre si riscontra un generale innalzamento del livello medio d’istruzione.
Alla metà del secolo, con l’elezione al soglio pontificio di papa Clemente XIII Rezzonico (1758-1769), lo scontro tra la Chiesa di Roma e lo spirito illuminista entra nella sua fase più critica. Chiamato a svolgere il duplice ruolo di “buon pastore” e “campione della fede”, il corpo episcopale reagisce ove con spirito ultramontano, ove cercando una mediazione con il potere temporale.
L’ubicazione geopolitica delle rispettive diocesi diviene naturalmente per i vescovi un fattore di primo piano nella scelta di campo in cui operare. Certo è che in Paesi sconvolti dall’ondata rivoluzionaria, prima, e dall’irruzione delle armate napoleoniche, dopo, la presenza di un clero fortemente radicato nella vita delle comunità costituirà per i fedeli l’unico elemento di continuità con il passato.
Clericalizzazione della società o sacerdotalizzazione del clero?
I dati sulla popolazione europea continuano a segnalare per tutto il secolo un’altissima incidenza della presenza ecclesiastica. È pur vero che, intorno agli anni Sessanta, in regioni come l’Alsazia e l’Alta Savoia si registra un calo delle vocazioni, ma qui giocano fattori come la diffusione della corrente giansenista, la soppressione della Compagnia di Gesù e i lavori della Commissione dei regolari (1766-1780). Altrove, soprattutto nei Paesi dell’area mediterranea e in Austria, il flusso delle ordinazioni sacre si mantiene invece a livelli alti. Al di là dell’effettiva domanda di servizi sacerdotali, infatti, la carriera ecclesiastica appare ancora a molti una sistemazione sicura e vantaggiosa. La pletora delle ordinazioni è alimentata dalla fitta rete del sistema beneficiale. Espressione delle strategie patrimoniali e di lignaggio delle élite locali, cappellanie e comunità clericali sfuggono al potere di controllo del vescovo, tanto più se si considera che molti benefici possono essere goduti anche da chierici in minoribus, che non aspirano peraltro allo stato sacerdotale.
A prescindere dalle motivazioni economiche che sono alla base di molte vocazioni, non c’è dubbio che una gran parte del clero si mostri zelante e consapevole dei propri compiti. Sono i tanti missionari, reclutati per lo più tra le fila degli ordini regolari, che partono alla volta di terre ignote per la conversione degli infedeli.
Sono i cappuccini, i vincenziani e, in Italia, i passionisti e i redentoristi a riorganizzare la missione popolare nelle aree rurali, instaurando una proficua collaborazione con il clero delle parrocchie. Sono i curati che, forti di una buona preparazione dottrinale ottenuta all’interno dei seminari o presso le congregazioni sacerdotali, finiscono con l’interiorizzare le norme loro inculcate.
La moralizzazione del clero e il suo crescente livello di preparazione, se da un lato ne consolidano il prestigio spirituale, dall’altro creano le premesse per una sorta di segregazione del corpo clericale dalla società. La distanza che separa la cultura ecclesiastica dalla religione popolare sembra da allora destinata ad accrescersi.
Le monache
In generale la crescita all’interno dei monasteri femminili costituisce, almeno fino a tutta la metà del Settecento, un dato costante. È possibile rilevare, però, una sostituzione dei ceti sociali che alimentano l’affluenza ai chiostri, con un’evidente diminuzione delle monache provenienti dall’antica nobiltà e dai patriziati cittadini a fronte di un progressivo aumento delle religiose appartenenti ai ceti borghesi.
Il ricambio sociale è accompagnato dal lento declino degli antichi istituti di clausura, che agli occhi degli illuministi appaiono ora luoghi di ozio e di consumo parassitario delle rendite. La regolamentazione da parte dei sovrani riformatori dell’istituto della dote e la polemica anticuriale nei confronti delle monacazioni coatte inducono le stesse gerarchie ecclesiastiche e le élite devote che sostengono finanziariamente gli istituti religiosi femminili a una revisione degli statuti monastici, a favore di un ideale di perfezione tanto lontano dal misticismo dell’età barocca, quanto calato nella pratica quotidiana.
Si diffondono soprattutto nuove istituzioni e comunità religiose impegnate in forme attive di apostolato sociale; queste, analogamente a quanto avveniva in campo maschile, fanno dell’istruzione delle nuove generazioni il loro impegno e obiettivo specifici. Tra esse si distinguono in modo particolare, per espansione geografica e precocità, gli istituti delle Orsoline e delle Maestre pie.
Le rette previste per l’educandato sono tali, però, da fare del convento un luogo riservato a una frangia sociale assai ristretta, calcolabile intorno al 10-13 percento della popolazione femminile. Fatto è che le soppressioni napoleoniche risparmieranno soltanto quegli istituti che riusciranno a riconvertirsi, facendo propri scopi e finalità di ordine educativo e assistenziale.