Il clero curato: modelli e sviluppi
A pochi anni di distanza dalla raggiunta Unità d’Italia sarebbero iniziate le discussioni sulla futura capitale, che per molti non poteva essere che la Roma dei Cesari e dei papi. Non sembra che i preti romani partecipassero a tali discussioni con convinzione: l’amministrazione pontificia, rimpianta anche da «La Civiltà cattolica» dopo la sua fine, non sembrava destare particolari entusiasmi nei preti, non solo romani; i quali però avevano qualche preoccupazione per i provvedimenti che il nuovo governo avrebbe potuto decidere. D’altronde, la linea intransigente che si stava lentamente imponendo nell’associazionismo cattolico non trovava grande sostegno in buona parte del clero. Inoltre, se certi temi attiravano attenzione nelle città, avevano meno eco nelle campagne, dove viveva un numero molto alto di preti, che spesso erano a immagine e somiglianza della loro popolazione, preoccupati di problemi immediati e poco coinvolti nelle discussioni sul potere temporale e sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Per questo, in tutte le regioni italiane si trovano preti che non condividono i tormenti connessi con la possibile caduta del potere temporale e altri che non rifiutano qualche forma di partecipazione ai vari movimenti che auspicano l’Unità nazionale. Ci sono ecclesiastici che aderiscono ad associazioni liberali nella regione veneta, in Toscana, nelle Romagne, in Umbria1. Fra le personalità più note si può annoverare Carlo Passaglia: membro della Compagnia di Gesù, docente di teologia nell’Università di Roma e poi nell’Università Gregoriana, andato in esilio causa il suo rifiuto dei moti che hanno portato alla costituzione della Repubblica romana, al rientro nella capitale diventa consultore del papa nella preparazione del dogma della Immacolata concezione di Maria, in seguito sposa le posizioni liberali, viene allontanato dall’insegnamento e lascia anche la Compagnia di Gesù2. I suoi tentativi di mediazione tra lo Stato piemontese e il Vaticano diventano di fatto impossibili soprattutto dopo il 1861, con la definitiva chiusura di Pio IX nei confronti del neonato Stato italiano. Gli verrà conferita, a Torino, la cattedra di filosofia morale presso l’Università. Non rinuncia però alle sue speranze di un possibile accordo tra lo Stato e la Chiesa; per questo non solo fonda una Società ecclesiastica, ma prepara una supplica al pontefice perché rinunzi al potere temporale. Tale supplica raccoglie circa 10.000 adesioni tra i preti. Il fatto che gli esiti del suo impegno siano scarsi e che molti dei firmatari siano poi costretti a sconfessare la loro adesione per evitare sanzioni, non cancella l’impressione che non fossero pochi i preti che si esprimevano in favore dell’abbandono del potere temporale.
La nascita della Società ecclesiastica fondata daPassaglia è un altro segno degli orientamenti di una parte del clero, che vuole partecipare maggiormente alle decisioni anche di natura ecclesiale. Associazioni analoghe nascono a Milano, per sostenere la libertà di associazione nella Chiesa, a Pavia, dove circa la metà del clero ha firmato il testo di Passaglia, e a Piacenza3.
Un altro segno dei nuovi orientamenti saranno le cerimonie religiose di ringraziamento, con il canto del Te Deum, al momento delle varie annessioni territoriali. Spesso però non si tratta di adesioni politiche o di scelte liberali, ma piuttosto del desiderio dei preti di assecondare il proprio popolo, che comunque partecipa a tali cerimonie. Per il prete diventa sempre più difficile la neutralità, ma dovrà presto scegliere tra due ubbidienze, quella civile e quella ecclesiastica. Ma questa libertà diventa sempre più ridotta, poiché sarà ormai condizionata dalle scelte che il papa va facendo verso una sempre più evidente chiusura nei confronti della società moderna, il cui segno più significativo sarà rappresentato dalla pubblicazione del Sillabo (1864). Gli scritti di Gioberti sul futuro della nazione e ancora più le riflessioni di Rosmini, riassunte in particolare nel suo volume Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, sembravano solo un lontano ricordo.
Un altro fenomeno significativo conseguente gli anni delle rivoluzioni sarebbe stato la graduale e significativa diminuzione degli ingressi nei seminari e l’aumento degli abbandoni dello stato clericale. Scegliere il sacerdozio, mentre stava aumentando il fenomeno della laicizzazione, diventava la scelta di un preciso impegno e non più di una condizione di vita garantita sia socialmente che economicamente: questo spiega in parte la ragione per cui ancora a metà Ottocento abbiamo in molte zone una media di un prete ogni duecento abitanti e in altre addirittura ogni cento.
Non pochi preti, abbandonato il sacerdozio, avrebbero trovato posto nell’insegnamento secondario e in alcuni casi anche in università: i nomi di Bertrando Spaventa e Roberto Ardigò sono un esempio significativo. Ma erano numerosi anche quei preti che, soprattutto nei piccoli centri di montagna, svolgevano il compito di parroco e anche di maestro elementare. In molte zone poi, l’incameramento dei beni della Chiesa aveva lasciato molti preti in situazione di miseria, determinando la formazione di un vero e proprio «proletariato ecclesiastico»4. Dopo varie discussioni si era arrivati a varare una legge che garantiva uno stipendio minimo ai parroci: ma il clero era molto più numeroso delle parrocchie e quindi molti preti non godevano di nessun salario garantito.
Nel frattempo però, il graduale aumento dei preti provenienti dal mondo contadino, forniti quindi di una cultura fortemente tradizionale e poco propensi a infoltire i ranghi di quei preti salottieri o precettori in famiglie nobili, porta al lento prevalere dei modelli pastorali, della cura animarum. Il ruolo del parroco viene maggiormente letto nell’ottica del buon pastore che custodisce e ama le sue pecorelle, superando la precedente immagine diffusa anche dalla letteratura coeva. Il prete salottiero e galante, il religioso sempre pronto a perdonare i peccati del suo signore (si pensi ad esempio al Gattopardo: ma la letteratura tra Ottocento e Novecento è ricca di testi che pongono al centro le figure di preti5) non è solo un’immagine letteraria, ma esiste nella realtà. Negli antichi territori pontifici scompariva il prete del tutto dedito all’amministrazione e al governo, ruolo reso necessario dall’esistenza dello Stato pontificio, ma diventato ormai inutile e poco compatibile con un riaffermato ruolo religioso e pastorale.
Si va poi sottolineando con forza il ruolo sacrale del prete, un fenomeno presente in molti paesi europei, derivato dal modello proposto dal concilio di Trento, ma ripreso in termini espliciti dalVaticano I, nello schema De vita et honestate clericorum, un titolo che si ritroverà spesso nei sinodi locali. Tornano le raccomandazioni sull’uso della talare, sul rifiuto dell’impegno politico e sulla priorità dei compiti cultuali: l’amministrazione dei sacramenti, l’insegnamento della dottrina sacra, la visita agli infermi, la particolare cura dei luoghi di culto6.
Tuttavia, a fianco del pastore, o forse meglio quasi espressione di questo, sta sorgendo, negli anni successivi all’Unità, il prete animatore sociale. Una rete enorme di casse rurali e di cooperative, piccole banche, associazioni, vedono quasi sempre il ruolo fondamentale di un prete. Tale ruolo passerà attraverso varie fasi. Prima abbiamo quelli che saranno chiamati preti sociali; il termine è usato soprattutto a Torino, per esempio nei confronti di don Bosco e di Leonardo Murialdo, ma figure analoghe sono presenti in quasi tutte le diocesi italiane, tutti impegnati in un’azione caritativa di vario genere, si rivolgono a varie categorie di persone, privilegiano l’assistenza alle persone più povere ed emarginate: a Modena don Severino Fabriani si dedica ai sordomuti, persone spesso mantenute in condizioni drammatiche, a Cesena don Giovanni Ravaglia anima le attività rivolte ai problemi sociali, lo stesso fanno a Palermo don Giuseppe lo Cascio, a Cosenza don Carlo De Cardona, mentre a Verona, a Parma, a Cremona, a Piacenza, a Torino, preti o vescovi fondano congregazioni dedite all’annuncio missionario in paesi lontani7.
Poi però gli orizzonti si allargano, si rivolgono a contadini, operai e imprenditori, fondano associazioni, cooperative, casse rurali. Una delle prime latterie sociali è fondata da un prete, don Antonio della Lucia, altri danno vita a forni, mulini, farmacie cooperative; un altro fonda nel Friuli la Federazione delle cooperative. Un prete veneziano, Luigi Cerutti, diventa il profeta della cassa rurale, e scrive testi in difesa dei contadini che nulla hanno da invidiare a certi passaggi dei coetanei socialisti e anarchici8.
All’inizio del Novecento, il 51% delle organizzazioni sociali del mondo cattolico era diretto da preti. Si tratta di una metamorfosi molto significativa: quel prete spesso considerato quasi un funzionario civile, un garante delle istituzioni, diventa un organizzatore sociale, esce di sacrestia, secondo un’espressione attribuita a Leone XIII, e si occupa di problemi non strettamente connessi con la salvezza eterna. Il vescovo di Bergamo, mons. Radini Tedeschi, nei primi anni del Novecento arriverà a chiedersi se potesse ancora considerarsi prete uno che non si occupasse del movimento socio-politico, della vita del popolo e delle sue esigenze anche materiali9. E a tali esigenze e conseguenti doveri dei preti era dedicato un opuscolo scritto da un giovane prete e futuro cardinale, Celso Costantini, su I doveri del clero al principio del secolo XX.
Un argomento, quello delle esigenze materiali, che riguarda anche i preti, molti dei quali vivono in condizioni di povertà, nonostante la forte diminuzione numerica che si è verificata nel corso dell’Ottocento. Il reddito medio dei preti era analogo a quello di un maestro elementare, una categoria nota per avere spesso salari da fame. Le disparità economiche erano sensibili se si confrontavano i redditi delle regioni del Nord con quelle del Sud ed erano altrettanto forti fra le varie categorie del clero: canonici, clero beneficiato, parroci, coadiutori parrocchiali. Un fenomeno, è bene non dimenticarlo, che era lo specchio di una società civile fortemente gerarchizzata, dove le sperequazioni economiche tra le diverse categorie di cittadini erano particolarmente forti.
Un certo numero di istituzioni, soprattutto di carattere politico, inizia a utilizzare uno dei mezzi di comunicazione e propaganda destinati a grande sviluppo: la stampa e cioè di fatto il giornale, imitati in questi da molte diocesi, che negli anni tra i due secoli si dotano di un loro settimanale, sia per diffondere la dottrina cattolica, sia per rispondere ai molti attacchi che vengono alla Chiesa e ai preti da parte soprattutto della stampa liberale e socialista. I direttori di questi giornali, tranne in casi rarissimi, sono dei preti, che sono in qualche modo costretti a coltivare una nuova professione, spesso svolta in funzione della intransigente difesa dei valori cattolici. Anche in questo ambito possiamo ricordare una figura dotata di grande vigore polemico, don Davide Albertario, direttore del milanese «L’Osservatore cattolico»10. Tra l’altro, le sue intemperanze giornalistiche gli provocheranno denunce da esponenti del mondo cattolico, ma anche una condanna al carcere, dopo le presunte ‘sommosse’ del 1898, accomunato in quel momento con i rivoltosi socialisti.
Questi ultimi sembravano acquisire il monopolio della presenza nel mondo operaio, con le loro organizzazioni, i loro giornali e dal 1892 anche con il partito. Non pochi preti pensavano che non si poteva lasciare ai socialisti tale monopolio. Se ne desumevano diverse proposte: una era l’idea di nominare dei ‘cappellani del lavoro’, un tipo di attività pastorale analogo a quella del parroco, considerando la fabbrica, dove maggiore era la presenza operaia, come la parrocchia del cappellano, responsabile quindi della sua evangelizzazione. Il tentativo venne fatto a Milano all’inizio del Novecento: i cappellani agirono nella stessa linea di quanto si faceva per il mondo contadino, fondando associazioni e giornali11. Esso però fu di breve durata, così come l’altro, che ebbe come punto di riferimento il napoletano Gennaro Avolio, di fare nascere un’associazione di preti operai12.
Ben altra eco ebbero le attività tese a preparare il ritorno all’impegno politico, diventato impossibile dopo l’occupazione di Roma e la conseguente condanna da parte dei papi dello Stato italiano di tutte quelle azioni che avrebbero potuto in qualche modo considerarlo legittimo. Se la presenza di preti liberali, favorevoli cioè a una riconciliazione con lo Stato italiano, stava diventando insignificante, cresceva invece la presenza, soprattutto fra i giovani preti, di una linea che, pur partendo da un atteggiamento intransigente nei confronti dello Stato, pensava però che non si potesse tornare sui ‘fatti compiuti’ e di conseguenza o prima o poi si sarebbe trovata una soluzione che avrebbe permesso ai cattolici di ritornare all’impegno politico. Tale ritorno doveva però essere preparato: ed è interessante notare che se la proposta di un ritorno reso possibile dall’alleanza con il mondo liberale moderato era auspicato soprattutto da laici, l’idea della costituzione di un partito cattolico autonomo, con una sua organizzazione e una sua concezione politica, era auspicata soprattutto da preti. Sarebbe stato quindi un prete, Romolo Murri13, a parlare esplicitamente di tale possibilità e a farsene anche promotore, prima con la costituzione della Democrazia cristiana, dotata di una rivista, «Cultura sociale», e di un giornale, «Il Domani d’Italia», e in seguito con la fondazione di un altro partito, la Lega democratica nazionale. Del primo tentativo faceva anche parte un altro prete, Luigi Sturzo, che nel 1919 avrebbe promosso un altro partito, il Partito popolare. Si tratta di tentativi che, per ragioni del tutto diverse, non ebbero né fortuna né durata nel tempo, ma avrebbero coinvolto un numero rilevante di preti, che percorrendo un cammino del tutto logico passavano da un forte impegno nel sociale a uno molto diverso tra una regione e l’altra, nel politico. Non va però dimenticato che molti dei preti impegnati in ambito politico agivano prima di tutto per ragioni pastorali. La scelta politica era spesso solo un mezzo per comunicare la dottrina cattolica o difendersi dagli attacchi dei nemici della Chiesa, che certo non mancavano soprattutto nella stampa socialista e in modo particolarmente polemico e spesso davvero scarsamente intelligente nel giornale satirico «L’Asino», di cui avrebbe rappresentato la quasi ideale continuazione il romanzo L’amante del prete pubblicato da Mussolini tra il 1910 e il 1911.
Un fenomeno relativamente nuovo all’inizio del secolo era il sorgere di associazioni rivolte al clero il cui scopo non era solo difendere i preti dagli attacchi dei nemici (non erano rari i casi di denunce contro preti che dovevano quindi difendersi nei tribunali), ma anche di rivendicare diritti considerati fondamentali. Si formavano quindi in varie diocesi e l’elenco potrebbe essere lungo, delle associazioni analoghe alle Società di mutuo soccorso, nascevano associazioni tra i parroci che si dotavano anche di un giornale, «Unione dei parroci», non molto ben viste dalle autorità ecclesiastiche, che sospettavano che a monte di queste scelte vi fosse la richiesta di una maggiore autonomia, magari connessa con una migliore condizione economica. Tale lettura veniva fatta, per esempio, quando si pensava alla fondazione di qualche forma di assistenza, quali previdenze in caso di malattia e ancora più di qualche forma di pensione di vecchiaia. Significava in fondo togliere ai vescovi la totalità del potere decisionale nei confronti dei preti, dal momento che certe associazioni nate per rivendicare i propri diritti nei confronti dello Stato finivano per avere come controparte i vescovi. Altre associazioni, che oggi potrebbero sembrare singolari, nascevano soprattutto nel Meridione per porre rimedio alla disoccupazione di una parte del clero: si trattava di una vera e propria forma di ufficio di collocamento. Tale orientamento avrebbe comunque portato, nel 1917, e nonostante la costante diffidenza da parte dell’autorità ecclesiastica, alla costituzione della Federazione tra le associazioni del clero italiano, per opera di un prete senese, Nazareno Orlandi, destinata a diventare un riferimento privilegiato da parte del clero, grazie alle sue molteplici attività di carattere assistenziale, che l’hanno trasformata in una specie di sindacato dei preti14.
Il problema della dipendenza dai vescovi, e dall’autorità ecclesiastica in genere, andava aggravandosi causa il formarsi di una corrente di pensiero che parlava di autonomia della scienza, che metteva in causa gli orientamenti filosofici e teologici derivanti dalla filosofia tomista e dalla scolastica, che da anni erano stati imposti nei seminari. Negli anni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si sviluppavano nuove scienze che mettevano in causa il sistema di pensiero che costituiva la base della cultura del clero. Le scoperte archeologiche e le scienze comparate della religione sollevavano forti dubbi su quella lettura dei testi sacri che era considerata immodificabile. La critica testuale e lo studio di nuove fonti rendevano per lo meno discutibili la cosiddetta inerranza dei testi biblici e la conseguente dottrina dell’ispirazione divina dei testi sacri. Il solo termine ‘generi letterari’, diversamente interpretato, creava forti preoccupazioni negli ambienti ecclesiastici. Non pochi preti seguivano teorie sospette sia in campo biblico sia filosofico. Erano le premesse di quella che verrà definita la crisi modernista che avrebbe tanto angosciatoPio X (1903-1914)15.
Nel primo decennio del Novecento sarebbero apparsi diversi documenti magisteriali che cercavano di arginare il pericolo, fino a quell’enciclica pubblicata nel settembre 1907, Pascendi dominici gregis, che forniva una lettura sistematica delle dottrine moderniste e nello stesso tempo imponeva ai vescovi una stretta vigilanza sulle loro diocesi. Ne avrebbe fatto le spese un numero piuttosto alto di preti, alcuni effettivamente vicini a dottrine considerate eterodosse, altri semplicemente sospettati di esserlo. Non pochi preti subirono censure e condanne, altri lasciarono il ministero, altri ancora abbandonarono gli studi per ritirarsi in un silenzio praticamente imposto, o dedicandosi al lavoro pastorale lontano dalle tentazioni che sembravano accompagnare inesorabilmente lo studio e la ricerca.
Il clima di sospetti che si sarebbe diffuso in molti ambienti e diocesi avrebbe determinato una grave crisi del sapere ecclesiastico, confermata dallo scarso livello culturale delle scuole dei seminari e delle numerose facoltà teologiche ecclesiastiche presenti in Italia, che Pio XI avrebbe soppresso, riordinando integralmente gli studi accademici del clero con il documento pubblicato nel 1931, Deus scientiarum Dominus. Si era nel frattempo affermata una nuova figura di prete, molto sottomesso all’autorità e fornito di una spiritualità fondata sulla virtù dell’ubbidienza, ma piuttosto alieno dallo studio e dalla ricerca, spesso dedito a un’attività pastorale molto tradizionale e talvolta incapace di cogliere le profonde trasformazioni che si stavano verificando nella società circostante.
L’insegnamento in seminario venne riformato e reso omogeneo in ogni regione: bisognava formare dei pastori, non degli intellettuali, e dei pastori che considerassero la sottomissione alla gerarchia l’elemento fondamentale della loro spiritualità. Stava nascendo un nuovo modello di prete. I preti formati negli anni diLeone XIII, provocati dalle aperture ai nuovi problemi del mondo, avrebbero conservato per tutta la vita una forte curiosità intellettuale e una certa libertà di spirito. Quelli formati dopo la Pascendi, in un clima di forte restaurazione, avrebbero avuto tutte le virtù contrarie: pochi stimoli intellettuali e diffidenza verso lo studio. Negli anni di Leone XIII si pensava che l’impegno sociale e l’attivismo politico dovessero essere una delle caratteristiche maggiori del prete; negli anni successivi, nasceva l’immagine di un prete alieno dalla ricerca, abituato al sacrificio, alla rinuncia e acriticamente sottomesso all’autorità ecclesiastica.
Le guerre avrebbero determinato il ritorno di uno dei ruoli ricoperti dal clero in altri periodi. Nel 1865 il governo italiano aveva deciso di sopprimere la presenza dei cappellani militari. Sarebbero riapparsi nel 1911, in forma ufficiosa, in occasione della guerra di Libia, per poi essere riammessi in modo ufficiale nell’aprile 1915 alla vigilia dell’ingresso in guerra dell’Italia: erano essenzialmente destinati a contribuire a tenere alto il morale dei soldati. I successivi accordi con l’autorità ecclesiastica avrebbero portato a precisare i modi di reclutamento e i compiti che i cappellani avrebbero dovuto svolgere, affiancando tra l’altro preti e seminaristi che, dopo la rottura delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, erano soggetti come tutti gli italiani agli obblighi militari. Furono circa 15.000 i preti coinvolti nella Grande guerra, e di questi 2.500 svolsero il compito di cappellani militari; gli altri furono addetti a vari servizi o, in massima parte, inviati al fronte. Da notare che spesso i soldati guardarono con maggiore simpatia questi ultimi, che condividevano in tutto la loro vita. Tra i cappellani militari vi furono poi quelli che si preoccuparono soprattutto del loro ministero sacerdotale e anche della formazione religiosa dei soldati, mentre una piccola minoranza fu coinvolta da quell’onda di patriottismo che per qualche mese sollevò entusiasmi e speranze, ben presto seguite dalla presa di coscienza di quali immani tragedie fossero foriere la guerra e la vita in trincea. Fu soprattutto quella piccola minoranza che avrebbe continuato a coltivare entusiasmi patriottici, seguendo in qualche caso l’avventura fiumana di D’Annunzio e sposando poi l’ideologia fascista16.
La guerra avrebbe segnato profondamente quei preti che vi erano stati coinvolti, che avevano vissuto le sofferenze e le privazioni dei soldati, assistendoli spesso al momento della morte. Ne erano ben consapevoli a Roma e avrebbero cercato di considerare quell’esperienza una parentesi nella vita ordinaria dei preti, invitandoli quindi a dimenticare quel periodo e a cancellarne del tutto la memoria17.
La breve ma intensa esperienza del Partito popolare avrebbe rappresentato per il clero l’ultima occasione per un impegno politico e sociale significativo. Mentre passavano in secondo piano le esperienze vissute in guerra, molti preti, a esclusione di alcuni cappellani che avrebbero conservato il loro entusiasmo patriottico entrando nei ranghi della milizia fascista, avrebbero vissuto con impegno e convinzione le vicende del Partito popolare, tra l’altro fondato da un prete, Luigi Sturzo. Furono soprattutto le parrocchie a dare un sostegno significativo al neonato partito, furono i preti a spingere molti laici verso un impegno politico di cui non avevano grande esperienza, e furono diversi preti, a partire dallo stesso don Sturzo, a occuparsi direttamente della vita del neonato partito, al punto che si poté dire che l’azione del Partito popolare si svolgeva «all’ombra del campanile e sotto la diretta influenza del parroco»18.
Tornava però la vecchia mentalità, quella che vedeva nel partito non un fine, ma un mezzo per ottenere altri scopi. Erano pochi i preti che credevano davvero al partito come strumento fondamentale per la vita democratica di un paese: e il fascismo lo avrebbe capito bene, screditando e perseguitando, fino all’assassinio come nel caso di don Minzoni o costringendo all’esilio come nel caso di don Sturzo, quella minoranza, e blandendo gli altri, offrendo cioè garanzie e privilegi anche più significativi, in un contesto generale che vedeva la graduale ma costante modifica dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, che avrebbe portato nel 1929 alla Conciliazione. Era d’altronde difficile immaginare di aprire un conflitto con il trionfante fascismo, e la Chiesa di Pio XI aveva scelto, non solo per l’Italia, la via diplomaticamente più sicura del Concordato19. Tra le varie concessioni riguardanti il clero, il Concordato prevedeva l’esclusione della obbligatorietà del servizio militare per i preti, ma prevedeva pure, nell’articolo 5, che «i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico».
Si provvedeva anche all’istituzione dell’Ordinariato militare, con legge approvata l’11 marzo 1926, dopo che nel 1922 erano stati soppressi come corpo militare. I cappellani venivano nominati solo per gli ospedali militari, ma venivano inquadrati come ufficiali nella struttura dell’esercito, stipendiati dal Ministero della Guerra. Sarebbero sorti problemi al momento delle nomine, in quanto il regime voleva solo elementi dottrinalmente sicuri e d’altra parte i cappellani sarebbero stati, dal punto di vista canonico, alle dipendenze del vescovo ordinario militare, che aveva i gradi di generale, determinando talvolta conflitti di competenze con i vescovi alle cui diocesi i cappellani afferivano. Ai 35 cappellani iniziali se ne sarebbero aggiunti altri soprattutto in occasione delle guerre coloniali (in Africa ne vennero nominati più di 900) e della guerra di Spagna. Altri poi sarebbero stati assegnati alla milizia volontaria di sicurezza nazionale e altri all’Opera nazionale balilla. In quest’ultimo caso però, si trattava spesso di un compito affidato ai preti delle diverse parrocchie, che non sempre aderivano alle linee politiche ufficiali e avrebbero avuto difficoltà nei rapporti con i cappellani ufficiali, spesso di provata fede fascista20.
Nel gennaio 1936 veniva approvata la legge che prevedeva la presenza dei cappellani militari anche nelle caserme, il che fece crescere il loro numero, mentre a partire dal 1938 venne organizzata anche l’assistenza religiosa per i lavoratori italiani inviati in Germania in base agli accordi tra Hitler e Mussolini. Nascevano così i cappellani del lavoro, l’analogo di quanto si stava programmando in Italia, riproponendo il tentativo fatto all’inizio del Novecento. Nel 1930 era nata l’Onarmo (Opera nazionale per l’assistenza religiosa e morale degli operai), proprio in vista dell’assistenza religiosa degli operai in diversi stabilimenti e dal 1936 sarebbero stati ammessi anche nelle aziende statali di tutto il paese. Al cappellano erano demandate le attività di carattere religioso e assistenziale, ancora nella logica di una collaborazione organizzata tra la Chiesa e il regime; ma anche di un orientamento diventato ormai prevalente che aveva finito per escludere del tutto i preti da ogni forma di attività di carattere sociale o politico, confinandoli e limitandoli a un’azione esclusivamente religiosa. Erano gli stessi vescovi che suggerivano ai preti di conservare il silenzio di fronte ai problemi politici, se proprio non si voleva esprimere consenso, soprattutto dopo la firma dei Patti Lateranensi. Don Sturzo era da tempo in esilio e personaggi come don Primo Mazzolari, che non avevano nascosto le loro critiche al regime, avevano ricevuto richiami dalle autorità sia politiche sia religiose. Non vi era quindi da stupirsi se molti preti avrebbero espresso sostegno, se non appoggio entusiastico, alle diverse campagne del regime, comprese le guerre coloniali e la guerra di Spagna, in qualche caso considerate vere e proprie crociate. Le voci dissenzienti erano ridotte al silenzio, la generazione dei ‘preti sociali’ stava scomparendo, aumentavano i preti formati o negli anni della repressione antimodernista o negli anni dei trionfi del regime. Non erano neppure rari quei preti che ostentavano un appoggio aperto al regime, sia per compensare lo scarso entusiasmo di altri preti verso il fascismo, sia per superare quel fondo di diffidenza che i gerarchi conservavano verso i preti, considerati spesso come i loro antagonisti nella formazione della gioventù.
L’approvazione delle leggi razziali, fatta dal regime nel 1938, avrebbe messo parte del clero in seria difficoltà. Da un lato si cercava qualche linea di compromesso per non creare rotture con il fascismo, dall’altro ci si rendeva conto che un cristiano non avrebbe mai potuto accettare delle norme che si fondavano su un’ipotetica gerarchia delle razze e sull’idea che vi fossero differenze qualitative tra i figli di Dio, al di là della loro appartenenza religiosa o razziale. Le soluzioni erano spesso fondate sul compromesso, soprattutto da parte delle autorità ecclesiastiche. Dal punto di vista giuridico, l’occasione per una ferita al Concordato sarebbe stata nel mancato riconoscimento da parte dello Stato di un eventuale matrimonio tra un cattolico e un’ebrea, o viceversa, anche nel caso che, come recitava il Concordato, la Chiesa avesse deciso di riconoscerlo. I casi potevano anche essere rari: ma comunque veniva violato un principio riconosciuto dal Concordato. Si arrivò spesso a soluzioni di compromesso, con vescovi che dicevano ai preti di celebrare comunque quei matrimoni, addossandone la responsabilità al vescovo stesso, mentre molti preti accettarono di rilasciare falsi certificati di battesimo, per evitare agli interessati le conseguenze delle leggi razziali; vi furono poi ebrei che accettarono la conversione al cattolicesimo. In altri termini, si lasciò spesso ai singoli preti di scegliere le soluzioni meno dolorose. Era comunque un primo segno, anche se non subito seguito da conferme, di un nascente dissidio con il regime, che sarebbe stato confermato dallo scarso entusiasmo, messo in luce anche dai gerarchi, con cui i preti avrebbero accolto la decisione di Mussolini di entrare in guerra, aggredendo la Francia nella convinzione che la vittoria delle truppe hitleriane sarebbe stata ottenuta in tempi brevi.
Alcuni ambienti rievocavano la tradizionale lettura che vedeva nella guerra un castigo di Dio per gli uomini peccatori, invitati dai tragici eventi alla conversione. Tornava anche una netta differenziazione tra i preti impegnati nel lavoro pastorale e i cappellani militari di professione, soprattutto quelli della milizia volontaria: i primi sentivano e condividevano in particolare la tragedia delle partenze per il fronte e in certi casi chiedevano di diventare cappellani militari soprattutto per seguire i giovani delle loro parrocchie; i secondi erano spesso coinvolti nella propaganda del regime annunciando l’imminente vittoria e il trionfo dei valori fascisti. Da notare che fra questi vi era una prevalenza di religiosi, minori francescani, cappuccini e salesiani.
Il significato religioso-patriottico fu sentito da alcuni cappellani in partenza con il corpo di spedizione italiano verso l’Unione Sovietica, dove spesso furono protagonisti di straordinari atti di eroismo; ma la loro presenza assumeva un valore quasi missionario, erano come le avanguardie di quanti avrebbero dovuto liberare quei popoli dal giogo dell’ateismo marxista.
Dopo la caduta del regime e l’inizio della guerra contro la Germania, la tipologia delle scelte e delle presenze sarebbe stata la più varia, spesso legata alle contingenze locali. In luoghi di forte presenza partigiana, non mancarono preti che si schierarono a lato dei resistenti, o solo per fornire un appoggio logistico, o scegliendo la via della clandestinità. Altri continuarono il loro impegno nell’esercito ricostruito da Badoglio, altri cercarono di fornire qualche assistenza religiosa a quanti avevano aderito alla Repubblica di Salò, altri (circa 400), soprattutto i cappellani militari, seguirono le sorti dei soldati deportati in Germania, altri ancora vi furono deportati perché accusati di coinvolgimento diretto nella Resistenza21. Il numero di morti fra i preti fu piuttosto alto; a questi si dovranno aggiungere quelli che per ragioni diverse vennero uccisi dopo la guerra, soprattutto da parte di partigiani, o presunti tali, appartenenti alle bande della sinistra estrema.
La storiografia più recente ha permesso di superare una lettura parziale di quegli eventi, una lettura che cercava di dimostrare una forte differenziazione tra l’alto e il basso clero, o in termini più semplici tra i vescovi e i preti. Un’ipotesi fondata spesso su un pregiudizio ideologico: vi furono tra i vescovi alcuni più prudenti o anche filofascisti, altri che si esposero di persona in difesa dei partigiani e vi furono tra i preti e i religiosi dei filofascisti, in qualche caso fino al fanatismo ideologico, e altri che fecero scelte molto diverse, spesso ispirate non tanto da motivazioni politiche, ma religiose. In effetti, il campo in cui molti preti furono impegnati fu quello dell’assistenza nelle sue forme più varie: agli sfollati, a quanti avevano perso tutto, a quelle famiglie che erano state rovinate dalla guerra, ma anche ai soldati sbandati, a quanti non avevano obbedito ai bandi che li invitavano a presentarsi per l’arruolamento nell’esercito di Salò e rischiavano la fucilazione.
Tutto questo avrebbe lasciato tracce profonde nella coscienza di molti preti. Sembra però eccessivo concludere che ne sarebbe nato un nuovo modello di sacerdote, un modo diverso di vivere la propria appartenenza ecclesiale. Questo forse si sarebbe in parte verificato, come avremo modo di vedere, in Francia. In Italia sarebbe prevalso, tra i preti che avevano vissuto diverse esperienze connesse con la guerra e la Resistenza, il desiderio di tornare alla normalità, di cancellare quei ricordi per riprendere l’attività pastorale tradizionale, che aveva solo subito una parentesi, anche se in certi casi drammatica22. Inoltre, non ci sarebbe stato molto tempo per ripensare al passato: bisognava dedicarsi alla nuova avventura della ricostruzione, a un impegno politico che per alcuni significava il lavoro per dare vita a una nuova società cristiana.
L’impegno per l’assistenza, che aveva caratterizzato l’attività di molti preti in tempo di guerra, sarebbe continuato, anche se in un contesto diverso, nei periodi successivi. Bisognava organizzare una serie di attività rivolte a varie categorie sociali, con particolare attenzione agli orfani: in questo settore, si sarebbe distinto don Zeno Saltini, la cui attività verso l’infanzia inizia proprio in uno dei luoghi di sofferenza, il campo di concentramento di Fossoli, dal quale si partiva verso la deportazione in Germania. La sua attività avrebbe avuto vasta eco e molte difficoltà, negli anni successivi, fino alla costituzione di Nomadelfia, uno dei luoghi simbolo di una organizzazione sociale dove la fraternità cristiana diventa, o vorrebbe diventare, l’unica legge e norma di vita23.
Si trattava di un caso piuttosto raro; mentre non erano affatto rari i casi di coinvolgimento di preti in un’attività specificamente politica. Alcuni di loro avevano evitato di farsi coinvolgere nei movimenti per le occupazioni delle terre scoppiati soprattutto al Sud, ma non avrebbero avuto difficoltà a partecipare alle diverse campagne elettorali svoltesi tra la fine della guerra e il 1948, l’anno della vera svolta nella politica italiana e per molti preti una specie di ultimo baluardo contro il pericolo comunista.
Alcuni preti parteciparono direttamente alla campagna elettorale sulle piazze; molto più numerosi furono quelli che diedero un supporto significativo alla Democrazia cristiana. Pio XII (1939-1958) aveva chiesto esplicitamente una mobilitazione di massa e il prete ne diventava il fedele esecutore. Anche se in modi diversi, furono molte le parrocchie che divennero lo strumento della propaganda elettorale della Democrazia cristiana, con la collaborazione dei membri delle diverse associazioni, dalle neonate Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) all’Azione cattolica ai Comitati civici, che di questa finirono spesso per diventare il braccio politico, nel tentativo di realizzare il sogno di papa Pacelli, di ricostruire cioè una società cristiana utilizzando lo strumento proprio dell’età contemporanea, il partito, in vista della costruzione di un vero e proprio Stato confessionale.
Tra i preti si verificò una certa qual convergenza, al di là di alcuni casi di contestazione; mentre di diverso segno sarebbe stata l’interpretazione della scomunica comminata ai comunisti nel luglio 1949, che poteva incidere profondamente sull’attività pastorale dei preti, in particolare al momento della amministrazione del battesimo e della assistenza ai matrimoni. I diversi modi di agire verificatisi anche in parrocchie limitrofe avrebbero prodotto situazioni di disagio, e anche di conflitto, tra preti e con i fedeli24.
Negli anni successivi, tre eventi o scelte avrebbero inciso profondamente sulla vita del clero: il rinnovamento della formazione sacerdotale e della parrocchia, un nuovo slancio missionario e la vicenda dei preti operai francesi che avrebbe avuto un parziale seguito anche in Italia.
Sul primo esistono studi specifici in questo stesso volume ai quali si rinvia, agli altri vale la pena di dedicare qualche attenzione.
La prima svolta nell’attività missionaria del clero diocesano si può collocare negli anni della Prima guerra mondiale, grazie all’attività di padre Paolo Manna, che dopo il grande successo di un suo scritto, Operarii autem pauci, e con l’aiuto del vescovo di Parma monsignor Guido Maria Conforti, riusciva a fare approvare da Benedetto XV (1914-1922) la Unione missionaria del clero, nella speranza di poter fare nascere in ogni diocesi un ufficio missionario. Il programma dell’Unione missionaria e la richiesta che venisse estesa a tutte le diocesi del mondo venivano ripresi in una delle più importanti encicliche dedicate al problema delle missioni, la Maximum illud, pubblicata da Benedetto XV nel novembre 1919. Tra l’altro, si iniziava a parlare in modo esplicito della necessità di far nascere delle chiese locali, con la formazione di un clero e quindi di una gerarchia indigena.
Era proprio questo uno dei punti che sarebbe stato un giorno ripreso da Pio XII, quando nell’aprile 1957 pubblicava l’enciclica Fidei donum, con la quale invitava i vescovi occidentali a mettere alcuni dei loro preti a disposizione dei paesi di missione per dei periodi determinati e con lo scopo di collaborare proprio alla formazione del clero indigeno. Tale invito si rendeva necessario causa la carenza di formatori e insegnanti per i seminari e diventava anche più significativo perché Pio XII aveva la fondata sensazione, poi rivelatasi del tutto esatta, che la ormai imminente decolonizzazione avrebbe rischiato di coinvolgere anche i missionari, in gran numero originari dei paesi colonizzatori. L’eventuale loro espulsione avrebbe messo a grave rischio le chiese locali, se non fossero state rette da vescovi e preti indigeni.
L’enciclica di Pio XII indicava una nuova strada, quella della cooperazione tra le diocesi e tra le chiese. Il prete diocesano, che sentiva il desiderio di dedicare alla missione un periodo della propria vita, veniva dal suo vescovo messo in rapporto con una diocesi di un paese a scarsa diffusione del cristianesimo. Il prete s’impegnava per un periodo di tre anni, eventualmente rinnovabile, restando legato alla propria diocesi di origine, ma lavorando nella sua nuova diocesi alle dirette dipendenze del vescovo locale. Questo rendeva possibile ai preti diocesani di fare un lavoro missionario autentico, aprendo anche orizzonti del tutto nuovi nella formazione dei seminaristi. Non è certo casuale che in quegli stessi anni in molti seminari nascano i cosiddetti ‘circoli missionari’ e si organizzino i primi congressi missionari nazionali per seminaristi. Il nuovo rapporto tra la diocesi di partenza e quella che accoglieva il prete gli facilitava l’inserimento nella pastorale locale e nello stesso tempo offriva alla diocesi di origine un potenziale elemento di arricchimento, sia per il legame organico conservato dal prete, che avrebbe potuto provocare un impegno diretto da parte della sua comunità di origine per sostenerlo anche materialmente, sia nel previsto caso del ritorno, per la ricchezza di esperienza e nuove conoscenze che il prete diocesano poteva fornire alla sua diocesi, dopo un periodo più o meno lungo d’impegno missionario.
Si trattava di esperienze già presenti in alcuni paesi europei e in alcune diocesi italiane, che avevano provveduto a forme di gemellaggio con diocesi di paesi in via di sviluppo, inviando aiuti materiali ma anche dei preti. Ora però il papa estendeva l’esperienza a tutto l’Occidente, determinando una vera svolta nella storia della formazione e del ministero sacerdotale: i preti diocesani potevano vivere un’esperienza missionaria senza essere costretti a entrare in una congregazione religiosa e a impegnarsi nella missione per tutta la vita. La scelta del sacerdozio rimaneva definitiva, ma poteva essere esercitato in situazioni e luoghi diversi dalla propria diocesi di origine25.
La vicenda dei preti operai francesi aveva avuto un’eco non molto significativa in Italia, sia per la mancanza, o almeno così si pensava, di zone di scristianizzazione come nelle periferie urbane francesi, sia per una tradizione fortemente consolidata che continuava a vedere nel prete soprattutto l’uomo del sacro e del servizio liturgico, sia perché si era da tempo privilegiata la presenza nelle fabbriche dei cappellani e non si riusciva a immaginare una presenza diversa, o addirittura la condivisione totale della vita operaia, coi suoi ritmi di lavoro, le sue esigenze, i suoi modelli ideali. Rimaneva largamente diffusa una concezione tradizionale del sacerdozio, definito dal suo operare; si pensava cioè che il prete è tale se svolge tutta una serie di attività connesse con il sacro, che gli occupano tutto il suo tempo, e quindi non si riusciva a immaginare come un prete impegnato in duri ritmi di lavoro in fabbrica avrebbe potuto svolgere tutte quelle mansioni che erano appunto richieste a un prete.
D’altra parte, la vicenda dei preti operai francesi, che non possiamo qui approfondire26, sollevava un problema di carattere sociologico, qual era l’immagine richiesta e proposta del prete, e un altro di carattere teologico: era modificabile la dottrina confermata e resa quasi vincolante dal concilio di Trento, che aveva di fatto proposto un determinato e unico modello di sacerdozio?
I sinodi diocesani sembravano unanimi: il modello tridentino non poteva essere messo in discussione, la dottrina tradizionale del sacerdozio ne costituiva anche la forza. Questo veniva poi confermato da due interventi romani nei confronti dei preti operai francesi, il primo del 1954, per porre fine a quella che veniva considerata un’esperienza, il secondo del 1959, che sembrava chiudere definitivamente quell’esperienza, in quanto si affermava esplicitamente che il sacerdozio è incompatibile con l’assunzione di un lavoro salariato in fabbrica o nei cantieri27. Il modello diffuso dal concilio di Trento veniva considerato l’unico possibile modello sacerdotale, mentre i preti operai ritenevano che si potesse vivere lo stesso sacerdozio in condizioni concrete del tutto diverse, in base ai tempi e alle situazioni storiche in cui si era chiamati a operare. In effetti però non venivano a confronto solo due strategie pastorali, una che privilegiava una presenza specificamente sacerdotale in senso tradizionale e quindi nominava dei cappellani di fabbrica, l’altra che credeva alla necessità del coinvolgimento totale negli ambienti da evangelizzare e pensava ai preti operai. Il confronto era molto più radicale, e coinvolgeva due diverse visioni del mondo: alcuni ritenevano che si trattasse solo di rivitalizzare degli ambienti fondamentalmente cristiani, altri ritenevano che la società non fosse più cristiana e fossero ormai cambiati i valori di riferimento. Bisognava quindi ripensare ai criteri dell’annuncio cristiano e quindi anche a preparare dei preti che fossero in grado di dare vita a dei nuovi modelli sacerdotali.
I preti operai francesi presentavano con le loro scelte tali esigenze, forse meno sentite in Italia, dove comunque stavano operando alcuni preti che, pure rimanendo saldamente ancorati alla tradizione, sollevavano problemi non sempre graditi all’autorità ecclesiastica.
Se don Primo Mazzolari con le sue prese di posizione, la sua rivista «Adesso» e i suoi scritti sulla parrocchia aveva già provocato non poche polemiche, il volume che avrebbe sollevato consensi e dissensi, finendo per essere ritirato dal commercio, era quello dedicato alle Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani, pubblicato nel 1958. L’intervento del Sant’Uffizio nei confronti del libro si aggiungeva a una serie di provvedimenti negativi che avevano segnato il decennio: la proibizione dei preti operai, la crisi dell’Azione cattolica, i richiami a don Mazzolari e le difficoltà incontrate da don Zeno Saltini e dalla sua Nomadelfia. Don Milani non metteva in causa la dottrina tradizionale del sacerdozio, ma proponeva dei modelli operativi molto diversi, criticava certi metodi pastorali e riteneva necessario un profondo cambiamento culturale.
Nel 1959 però, con la definitiva chiusura della vicenda dei preti operai, Roma ribadiva la dottrina tradizionale, in questo confortata dalle prese di posizione del papa eletto da poco, Giovanni XXIII. Ma lo stesso pontefice non si sarebbe opposto al fatto che il concilio Vaticano II riaprisse un dibattito che le autorità romane pensavano di avere definitivamente chiuso.
Il testo conciliare dedicato alla vita e al ministero sacerdotale, che sarebbe stato ratificato dal successore di Giovanni XXIII, Paolo VI, era chiaro: il sacerdozio è unico, ma i modi per esercitarlo possono essere molto diversi. Così dicevano i Padri conciliari:
«I presbiteri […] sempre esercitano un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini […] sia che esercitino il ministero parrocchiale o sopraparrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all’insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale, condividendo le condizioni di vita degli operai […] sia infine che svolgano altre opere d’apostolato o ordinate all’apostolato».
I Padri avevano lasciate aperte le due possibili interpretazioni del ruolo sacerdotale, una che privilegiava nel prete l’uomo del sacro e il deputato al culto, l’altra più sensibile ai problemi dell’annuncio e dell’evangelizzazione. Ma nello stesso tempo offrivano la base per un superamento del modello unico tridentino, che privilegiava il ruolo sacrale. Il concilio ribadiva gli elementi che avrebbero dovuto distinguere il prete, l’umiltà, l’ubbidienza, la scelta della povertà e il celibato. Ma tali caratteristiche definivano l’essere sacerdotale, non il suo operare concreto, che poteva realizzarsi nei modi più diversi, alcuni dei quali venivano anche enumerati nel documento: che tra l’altro, caso piuttosto raro, sconfessava nettamente il testo vaticano del 1959, quello che affermava in modo esplicito l’incompatibilità tra sacerdozio e lavoro manuale in fabbrica.
Alla luce delle affermazioni conciliari, i vescovi francesi decidevano di riprendere l’esperienza interrotta nel 1954, e il 23 ottobre 1965 scrivevano in un loro comunicato: «L’episcopato francese si ripropone, con l’accordo della Santa Sede, di autorizzare un piccolo numero di preti a lavorare a tempo pieno nelle fabbriche e nei cantieri, dopo una preparazione appropriata»28, che sarebbe stata svolta sotto la direzione di un comitato episcopale della Mission ouvrière.
In effetti, a lato di tale organizzazione ufficiale sarebbero nati movimenti che non seguivano quelle indicazioni per quanto concerne il lavoro salariato, mentre altri preti sceglievano il lavoro come scelta individuale, senza preoccuparsi di un mandato ufficiale del proprio vescovo. Tra i movimenti che avrebbero avuto in Francia maggiore successo vi sarebbe stato Échanges et dialogue, che avrebbe raccolto un numero relativamente alto di preti e avrebbe pubblicato alcuni documenti che rivendicavano la libertà di scelta del celibato (la cui obbligatorietà per il clero occidentale era stata ribadita daPaolo VI con l’enciclica Sacerdotalis caelibatus29 nel giugno 1967), del lavoro salariato e dell’impegno sindacale, mettendo in causa le scelte ufficiali della Chiesa, non solo francese. Non era un caso che diversi firmatari del manifesto che lanciava il movimento avessero partecipato alle manifestazioni del mese di maggio 1968; ma soprattutto non era un caso che nelle assemblee organizzate dal movimento vi fosse al centro del dibattito proprio la nuova immagine del prete che si voleva introdurre nella Chiesa, un uomo cioè al servizio della comunità, ma che sceglie liberamente la propria condizione esistenziale30. Il movimento si sarebbe esteso ad altri paesi europei, coinvolgendo anche un certo numero di preti italiani. D’altra parte, nello stesso periodo anche in Italia stavano sorgendo gruppi spontanei, piccole comunità di base, movimenti di vario genere, prevalentemente composti da laici in quest’ultimo caso, ma che quasi sempre avevano un prete come riferimento o fondatore. Si trattava di movimenti i cui scopi erano tra il politico e il religioso e spesso finivano per essere considerati parte di quella contestazione delle istituzioni che stava coinvolgendo la società civile, una contestazione di cui certi eventi verificatisi nel 1968 sarebbero diventati quasi un simbolo31.
Quel disagio, che appariva evidente in certi settori della società, stava coinvolgendo anche una parte del clero italiano. Alcuni preti proponevano esperienze pastorali diverse, mettendo in causa il ruolo sacrale del prete, proponendo nuove responsabilità per le comunità di credenti: sorgevano quindi movimenti analoghi a Firenze, a Parma, a Genova, a Torino, a Conversano, a Gioiosa Jonica e altrove, spesso in contrapposizione con il vescovo del luogo. Fra i sintomi più significativi ed evidenti di tale disagio, possiamo ricordare da un lato la forte contrazione degli ingressi nei seminari e l’abbandono del ministero da parte di un numero relativamente alto di preti. Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta ci sarebbe stata un’alta contrazione del numero di seminaristi, causa appunto la diminuzione degli ingressi e l’aumento delle uscite dai seminari. Inoltre, in poco meno di un decennio, nello stesso periodo, vi sarebbero stati (sono le cifre ufficiali, quasi certamente inesatte per difetto) circa 1.300 abbandoni dello stato clericale32.
Di fronte a questa situazione che coinvolgeva quasi tutti i paesi di vecchia cristianità, veniva organizzato nel 1971 un sinodo dei vescovi dedicato appunto al ministero sacerdotale; in vista di tale sinodo l’episcopato italiano nel 1969 lanciava un’inchiesta tra i preti, i cui risultati sarebbero stati presentati nel 1970, alla vigilia del sinodo italiano33. Preparando poi il contributo per il sinodo mondiale, i vescovi italiani non nascondevano il disagio crescente nel clero, ribadivano per i preti il primato dell’impegno pastorale diretto e la necessità della piena comunione con il vescovo quando venissero effettuate scelte di vita non in linea con quella priorità, aggiungendo, sull’esempio dei vescovi francesi, che «non mancano peraltro particolari situazioni di fatto, determinate da un complesso di circostanze storiche e sociali, che consigliano al vescovo di affidare a sacerdoti idonei l’annuncio del Vangelo con una testimonianza vissuta in un’esperienza di lavoro a tempo pieno»34.
Tali affermazioni si trovano nel documento redatto dai vescovi italiani nel luglio 1971, in vista del sinodo mondiale; proprio negli stessi anni anche in Italia era iniziata nelle fabbriche una timida presenza di preti operai. Era stato don Sirio Politi a portare in Italia l’esperienza dei francesi, iniziando a lavorare come manovale nei cantieri navali di Viareggio nel 1956. Passato a una forma di lavoro a tempo parziale, dopo le proibizioni del 1959, avrebbe continuato sempre la sua attività, diventando in qualche modo il vero antesignano dei preti operai italiani e quasi il loro nume tutelare35. Vi erano poi state le iniziative a Torino del cardinale Pellegrino, che aveva accettato che alcuni seminaristi interrompessero gli studi in seminario per un certo periodo per lavorare in fabbrica, o si preparassero al sacerdozio senza interrompere il lavoro e contemporaneamente dava inizio alla missione operaia, che avrebbe permesso ad alcuni cappellani di fabbrica di passare al lavoro salariato. Tra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta vi sarebbero state scelte analoghe in altre città italiane (Milano, Parma, Alessandria e Trento), con il consenso o almeno il non dissenso di alcuni vescovi. Le ragioni erano diverse da un luogo all’altro, spesso si trattava di scelte individuali e solo alcuni anni dopo, a partire dal 1973, vi sarebbe stato un tentativo di coordinamento tra i diversi preti operai. Vi era una differenza significativa tra i preti francesi del primo periodo e gli italiani, legata anche al contesto storico totalmente cambiato: i primi avevano fatto le loro scelte soprattutto in vista della evangelizzazione di una classe operaia scristianizzata; gli italiani esprimevano la volontà di inserirsi nella classe operaia per condividerne le lotte e le aspirazioni, considerando inoltre, almeno molti di loro, la classe operaia portatrice di grandi e autentici valori umani e in fondo anche cristiani: più che pensare alla evangelizzazione, avrebbero insistito sul fatto che erano loro stessi a essere stati in qualche modo evangelizzati.
Nei primi anni, anche i rapporti con l’episcopato italiano non sarebbero stati facili, un po’ causa le prese di posizione dei preti stessi, un po’ per la diffidenza sentita nei loro confronti da parte della maggioranza dei vescovi italiani, che continuavano a privilegiare la presenza dei cappellani di fabbrica, che all’inizio degli anni Sessanta erano oltre 600, mentre i preti operai non avrebbero mai superato i 200 effettivi, con una graduale diminuzione negli anni successivi, causa il mancato ricambio e l’inesorabile invecchiamento36.
Le forti modifiche del clima politico e di quello ecclesiale avrebbero fatto il resto, finendo per generalizzare i rimproveri che da più parti venivano rivolti ai preti operai: di essere uomini di parte e non sopra le parti, di essere uomini di divisione e non di unione, di essersi lasciati convertire da quelli che avrebbero dovuto convertire. Sarebbe stato facile far notare che era la condizione dei preti in quanto tali, nella scia di Gesù Cristo che diceva di non essere venuto a portare la pace ma il conflitto; un argomento destinato a scarso successo, date le mutate condizioni nella comunità religiosa e nella società civile. Eppure, dai preti operai, sia francesi sia italiani, era venuta una delle indicazioni più significative sulla indispensabile modifica del ruolo e dei modelli sacerdotali; era la proposta di una sacerdozio che non si definisse solo dal suo ruolo cultuale, ma da un nuovo tipo di testimonianza, allo scopo di far nascere la comunità cristiana in ambienti nei quali la Chiesa appare del tutto estranea. Se si pensa a molte delle esperienze più recenti e alla crescita esponenziale della emarginazione sociale, si deve constatare che quel modo diverso di vivere il sacerdozio è diventato una proposta seguita da un numero significativo di preti37.
Chi sembrava aver colto in modo preciso la svolta prodotta anche dal concilio era il cardinale Garrone, prefetto della Congregazione dei seminari, poi denominata per l’Educazione cattolica, che da Roma ricordava la necessità di distinguere nella definizione dell’identità sacerdotale fra gli elementi essenziali e quelli legati alla storia38. Se il prete rimane il delegato all’annuncio della Parola di Dio, la sua vita concreta sarà legata ai tempi e ai luoghi in cui è chiamato a vivere: ed è interessante notare che il cardinale ricordava, tra gli elementi storici, proprio quelli che in Francia Échanges et dialogue, in Italia le comunità di base e i preti operai, avevano proposto alla discussione: il celibato obbligatorio, la scelta del lavoro, l’impegno politico e sindacale. I tempi di maturazione potevano essere lunghi: ma il seme era ormai gettato.
Le successive modifiche sarebbero venute dalla promulgazione del nuovo codice di diritto canonico, il 25 gennaio 1983, e dalla revisione del Concordato, il cui nuovo testo sarebbe stato firmato il 18 febbraio 1984. Il codice non escludeva la possibilità per un prete, previo assenso del proprio vescovo, di assumere ruoli non specificamente ecclesiali, ma affermava che in via ordinaria il prete doveva privilegiare impegni ecclesiali e ruoli di carattere sacrale; il testo del Concordato eliminava tra l’altro la proibizione per chi avesse lasciato il ministero sacerdotale di svolgere professioni che lo mettessero in contatto con il pubblico: una norma particolarmente odiosa che era stata inserita nel testo del 1929.
Le maggiori novità riguardavano l’ambito economico: si prevedeva cioè un congruo ‘sostentamento’ per tutti i preti, al di là del compito svolto e venivano quindi indicate le varie fonti dalle quali l’organismo centrale avrebbe attinto per avere il denaro necessario per fare fronte a tale impegno. Tra queste, la più nota è certamente l’otto per mille, quella parte cioè delle tasse che il cittadino può scegliere di devolvere a enti civili o religiosi, e che serve alla Chiesa cattolica, come a tutte le altre Chiese che vi partecipano, al di là delle loro dichiarazioni ufficiali, per finanziare opere di carattere sociale anche nei paesi di missione e la vita e l’attività dei loro ministri.
In questa logica che, nonostante opinioni diverse, sembra indicare la scelta di una professionalizzazione del sacerdozio, si spiegano altre scelte significative: l’invito a lasciare ogni impegno per passare allo stato di pensionati a 75 anni, la trasformazione della Federazione tra le associazioni del clero italiano in un vero e proprio organismo parasindacale, il cui scopo è soprattutto la difesa dei diritti dei preti, particolarmente quelli economici, uno stipendio mensile garantito dalla stessa Conferenza episcopale, tutti elementi importanti per qualsiasi categoria di cittadini, non del tutto graditi a quanti avevano fatto della radicalità della proposta evangelica quasi una norma di vita. Ma evidentemente la storia non è chiamata a dare giudizi sulla santità delle categorie che studia, neppure se si tratta dei preti.
Negli stessi decenni postconciliari, vi sarebbero state una nuova forma di politicizzazione39 e una forte crescita della coscienza missionaria. Il primo tema potrebbe costituire un interessante ambito di ricerca, alla scoperta della cultura politica del clero italiano in rapporto alle trasformazioni della società civile40. Si tratta evidentemente di un ambito alquanto problematico; mentre meno difficile è cogliere la crescita della coscienza missionaria. Nella logica dell’enciclica Fidei donum41, sarebbe nato a Verona nel 1964 un seminario per preparare i preti diocesani in partenza per l’America latina, seguito poi dalla nascita di altre istituzioni che svolgono un impegno analogo per i partenti per altri paesi e continenti, coordinati dal Centro unitario missionario, nato sempre a Verona nel 1988.
Anche in questo ambito, si sarebbe verificata una situazione parzialmente analoga a quella dei preti operai. Dopo un certo entusiasmo iniziale, con una significativa crescita numerica (tra gli anni Settanta e gli anni Novanta i preti diocesani coinvolti sono stati circa duemila), vi sarebbe stata una certa diminuzione, causata da un decremento globale delle vocazioni sacerdotali, da una modifica dello stesso concetto di missione, dalla formazione delle Chiese locali in maggior parte gestite dal clero indigeno, dai diversi orientamenti pastorali ed ecclesiali seguiti spesso dalle nuove generazioni dei preti diocesani42. Si sarebbe in compenso aperto un altro capitolo interessante della storia del clero: la presenza di preti stranieri in Italia, che negli ultimi anni hanno superato, per quanto concerne il clero diocesano, il numero di preti italiani operanti fuori d’Italia.
Dai primi anni dopo l’Unità d’Italia a oggi il clero è diminuito in media di circa 300 preti all’anno, con una perdita effettiva, tra il 1861 e la fine del secolo XX di circa 45.000 unità. Nello stesso periodo, siamo passati dalla media di circa tre preti ogni mille abitanti a meno di un prete ogni mille abitanti. A metà degli anni Novanta i preti diocesani erano circa 35.000, scesi a 32.000 dieci anni dopo. Nonostante una piccola ripresa degli ingressi nei seminari e di conseguenza delle ordinazioni sacerdotali, l’età media dei preti è fortemente aumentata. «Domani avremo una Chiesa senza preti?», si sono chiesti alcuni osservatori forse molto pessimisti43. Gli storici però profetizzano sugli eventi passati, e lasciano ai sociologi e agli studiosi di pastorale le previsioni: sapendo che spesso sono del tutto sbagliate.
1 Ampia panoramica delle diverse posizioni del clero negli anni dell’Unità in A. Gambasin, Il clero diocesano in Italia durante il pontificato di Pio IX (1846-1878), in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del IV Convegno di storia della Chiesa (La Mendola, 1971), I, Milano 1973, pp. 147-193. Esistono diverse rassegne di studi sul clero pubblicate in anni recenti. Per non appesantire le note con continui rimandi ad articoli e saggi, rinvio a queste per le informazioni bibliografiche. Si tratta di rassegne di studi di carattere storico, che spesso non tengono conto, come d’altronde farò anch’io in questo saggio, delle numerose pubblicazioni di carattere ascetico o specificamente pastorali. X. Toscani, Il reclutamento del clero (secoli XVI-XIX), in St.It.Annali, IX, pp. 573-628; G. Martina, La storiografia italiana sulla Chiesa dal Vaticano I al Vaticano II, in Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa, Problemi di storia della Chiesa. Dal Vaticano I al Vaticano II, Roma 1988, pp. 15-105; G. Battelli, Clero secolare e società italiana tra decennio napoleonico e primo Novecento. Alcune ipotesi di rilettura, in M. Rosa, Clero e società nell’Italia contemporanea, Roma-Bari 1992, pp. 43-123; Id., Gli studi sui vescovi e le diocesi del Nord-Italia tra Cinquecento e Novecento. Panorama storiografico, in Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa, Ricerca storica e Chiesa locale in Italia. Risultati e prospettive. Atti del IX Convegno di studio dell’Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa (Grado, 1991), Roma 1995, pp. 37-82; M. Guasco, Il prete dall’Ottocento al Vaticano II: tra storia e storiografia, in I grandi problemi della storiografia civile e religiosa, a cura di G. Martina, U. Dovere, Roma 1999, pp. 299-322; S. Negruzzo, Rassegna di studi sul clero dell’età moderna pubblicati in Italia negli anni Novanta, in Chiesa Chierici Sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo, a cura di M. Sangalli, Roma 2000, pp. 39-83; M. Lupi, Clero italiano e cura pastorale in età contemporanea. Fonti e dibattito storiografico, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 40, 2006, 1, pp. 69-89; G. Battelli, La recente storiografia sulla Chiesa in Italia nell’età contemporanea, ibidem, 41, 2007, 2, pp. 463-500. Una sintesi della storia del clero in M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari 1997; Id., Uomo dei sacramenti, evangelizzatore, animatore sociale: profilo del prete italiano, in La Chiesa in Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano 2003, pp. 195-208; F. Traniello, Cultura politica del clero e coscienza civile degli italiani, ibidem, pp. 13-25.
2 Sul Passaglia si veda in particolare A. Giovagnoli, Dalla teologia alla politica. L’itinerario di Carlo Passaglia negli anni di Pio IX e Cavour, Brescia 1984.
3 Sull’associazionismo del clero e la raccolta di firme da parte di Passaglia: F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970, pp. 239-306.
4 L’espressione si trova nel titolo del lavoro sull’associazionismo ecclesiastico di A. Erba, Proletariato di Chiesa per la cristianità. La FACI tra Curia romana e fascismo dalle origini alla Conciliazione, 2 voll., Roma 1990.
5 Sul prete nella letteratura: M. Rosa, Clero e società nell’Italia contemporanea, cit., pp. 3-41; V. Arnone, La figura del prete nella narrativa italiana del Novecento, Cinisello Balsamo 1999.
6 Esempi di tali orientamenti in G. Miccoli, “Vescovo e re del suo popolo”. La figura del prete curato tra modello tridentino e risposta controrivoluzionaria, in St.It.Annali, IX, pp. 881-928. Anche Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII, mentre è vescovo di Perugia, orienta il suo clero su tali scelte: M. Lupi, Il clero a Perugia durante l’episcopato di Gioacchino Pecci (1846-1878). Tra Stato Pontificio e Stato Unitario, Roma 1998; M. Guasco, Preti sociali e pastori d’anime, a cura di C. Naro, Caltanisetta-Roma 1994.
7 Su tutti i personaggi citati esistono saggi o biografie. Per una presentazione sintetica della loro opera si può vedere il DSMC, II, I protagonisti, III, 1-2, Le figure rappresentative.
8 S. Tramontin, La figura e l’opera sociale di Luigi Cerutti. Aspetti e momenti del movimento cattolico nel Veneto, Brescia 1968.
9 G. Battelli, Un pastore tra fede e ideologia. Giacomo M. Radini Tedeschi 1857-1914, Genova 1988.
10 Una sintesi della biografia di don Albertario e ampia bibliografia in A. Canavero, Albertario Davide, in DSMC, II, pp. 9-16. Anche A. Canavero, Albertario e “L’Osservatore Cattolico”, Roma 1988.
11 L. Bedeschi, I cappellani del lavoro a Milano nei primi anni del ’900, in Aspetti religiosi e culturali della società lombarda negli anni della crisi modernista 1898-1914, Atti del Congresso (Villa Monastero di Varenna, 1975), Como 1979, pp. 211-237.
12 Si veda U. Parente, Riformismo religioso e sociale a Napoli tra Otto e Novecento. La figura e l’opera di Gennaro Avolio, Urbino 1996. Su un aspetto particolare della sua opera, U. Parente, Antimilitarismo e pacifismo cristiani nel primo conflitto mondiale: la profetica, inascoltata voce di Gennaro Avolio, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 49, 1995, 2, pp. 66-93.
13 Su Romolo Murri, come su altri ecclesiastici che verranno citati in seguito, rinvio semplicemente ad altri saggi o biografie che sono presenti in questo volume.
14 Sulla storia dell’associazionismo ecclesiastico, e soprattutto della Faci, e sulla biografia del suo fondatore, Nazareno Orlandi, si veda A. Erba, “Proletariato di Chiesa” per la cristianità, cit.
15 A partire dagli anni Sessanta la bibliografia sulla crisi modernista è molto cresciuta, ma restano ancora come base per uno studio del fenomeno i libri di P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1961 (l’edizione successiva del 1969 rimane invariata: vi è solo una nuova prefazione e soprattutto vengono indicate le fonti archivistiche, prima lasciate nell’anonimato) e di E. Poulat, Histoire, dogme et critique dans la crise moderniste, Paris 1962 (trad. it. Storia, dogma e critica nella crisi modernista, Brescia 1967). Nella ed. del 19963, l’autore avrebbe fatto un ampio aggiornamento bibliografico premettendo un’introduzione, ma il testo sarebbe rimasto invariato. Sintesi delle varie problematiche con presentazione dei maggiori protagonisti in M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, Cinisello Balsamo 1995. Anche sui papi la letteratura è vasta: un bilancio recente si può vedere in La papauté contemporaine (XIXe-XXe siècles) Il papato contemporaneo (secoli XIX-XX), éd. par J.-P. Delville, M. Jacov, Louvain-la-Neuve, Leuven, Città del Vaticano 2009.
16 Sui cappellani militari, le opere più significative sono dovute a M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Paese (Tv) 1991; Id., Stellette, Croce e Fascio littorio. L’assistenza religiosa a militari, balilla e camicie nere 1919-1939, Milano 1995. Sulla Prima guerra mondiale: R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Roma 1980; L. Bruti Liberati, Il clero italiano nella grande guerra, Roma 1982. Una raccolta di saggi a cura di G. Rochat, La spada e la croce. I cappellani italiani nelle due guerre mondiali, «Bollettino della società di studi valdesi», giugno 1995.
17 L’invito era contenuto in un decreto pubblicato dalla Congregazione concistoriale il 25 ottobre 1918, De clericis et militia redeuntibus, AAS, 10, 1918, 12, pp. 481-486.
18 L’espressione è di D.R. Nardelli, Il clero nella zona del Trasimeno, in Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), a cura di A. Monticone, Bologna 1978, p. 186.
19 La recente apertura negli archivi vaticani dei documenti concernenti il pontificato di Pio XI ha permesso un significativo rinnovamento degli studi sul periodo: La sollecitudine ecclesiale di Pio XI. Alla luce delle nuove fonti archivistiche, a cura di C. Semeraro, Città del Vaticano 2010.
20 Su tutte queste vicende, M. Franzinelli, Stellette, Croce e Fascio littorio, cit.
21 In occasione del cinquantesimo anniversario della fine della guerra vennero organizzati vari convegni regionali dedicati al mondo cattolico durante la guerra e la Resistenza. Si tenne quindi a Roma un convegno che rappresentava il punto di arrivo e la sintesi dei convegni regionali. Un capitolo riguarda anche l’atteggiamento del clero: M. Guasco, Il clero, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, a cura di G. De Rosa, Bologna 1997, pp. 227-250. Una vicenda particolarmente significativa in Religiosi nei lager. Dachau e l’esperienza italiana, a cura di F. Cereja, Milano 1999.
22 Fra le opere più recenti su questi temi: G. Vecchio, Lombardia 1940-1945. Vescovi, preti e società alla prova della guerra, Brescia 2005.
23 In questi ultimi anni sono state pubblicate diverse opere su don Zeno e Nomadelfia, grazie soprattutto al lavoro di R. Rinaldi. Una sintesi della sua vita e della sua attività in Don Zeno e Nomadelfia. Tra società civile e società religiosa, a cura di M. Guasco, P. Trionfini, Brescia 2001.
24 G. Alberigo, La condanna della collaborazione dei cattolici con i partiti comunisti (1949), «Concilium», 11, 1975, 7, pp. 145-158; G. Vecchio, Il conflitto tra cattolici e comunisti: caratteri ed effetti (1945-1958), in Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1954), Atti del Convegno (Milano, 1986), a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1988, pp. 443-475. Sul contesto: A. Riccardi, Roma “città sacra”? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano 1979. Interessanti osservazioni sui problemi dei parroci negli anni di Pio XII in A. Parisella, Clero e parroci, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1984, pp. 437-459.
25 R. Zecchin, I sacerdoti Fidei donum. Una maturazione storica ed ecclesiale della missionarietà della Chiesa, Roma-Padova 1990; Centro Unitario Missionario per la Cooperazione tra le Chiese, Un ponte tra le chiese. La sfida dei Fidei donum alla missione della Chiesa italiana, Bologna 1996; M. Agazzi, I presbiteri diocesani (preti Fidei donum) nella cooperazione missionaria oggi: storia di un’esperienza e nuovo contesto ecclesiologico, in Preti per la missione. La dimensione missionaria nella spiritualità del presbitero diocesano, Atti del Convegno (Roma, 1997), a cura di M. Agazzi, S. Bertozzi, F. Brovelli, Bologna 1997, pp. 33-70. Sintesi e bibliografia in M. Guasco, Cinquant’anni di preti fidei donum: un’esperienza italiana, in Chiesa in Italia. Annale de «Il Regno», 2006, pp. 69-79.
26 Rinvio all’opera più significativa, che contiene anche una ricchissima bibliografia, di E. Poulat, Les prêtres-ouvriers. Naissance et fin, Paris 1999. Nella ed. originale (Paris 1965; trad. it. I preti operai, Brescia 1967) l’opera era limitata al 1947. La nuova ed. contiene alcuni saggi sugli anni successivi. Esamina tutta la vicenda M. Margotti, Preti e operai. La Mission de Paris dal 1943 al 1954, Torino 2000; L. Bianchi, Come un atomo sulla bilancia. Storia di tre anni di fabbrica, Brescia 1972.
27 Tali affermazioni sono contenute nella lettera inviata dal cardinale Pizzardo a nome del Sant’Uffizio all’arcivescovo di Parigi, il cardinale Feltin, nel luglio 1959. Il testo, che avrebbe dovuto rimanere riservato, venne pubblicato nel quotidiano «Le Monde» il 15 settembre 1959. Lo si può vedere in una versione italiana in G. Barra, M. Guasco, Chiesa e mondo operaio. Le tappe di un’evoluzione: da don Godin ai preti operai ai “preti al lavoro”, Torino 1967, pp. 229-234.
28 Il testo integrale del comunicato in G. Barra, M. Guasco, Chiesa e mondo operaio, cit., p.235.
29 Paolo VI, Sacerdotalis caelibatus, in Enchiridion delle Encicliche, VII, Bologna 1994, pp. 727-803.
30 La storia del movimento, che si sarebbe sciolto nel marzo 1975, corredata da vari documenti, è stata scritta dagli stessi protagonisti: P. Beligand, A. Scob, Échanges et dialogue ou la mort du clerc, Paris 1975.
31 Tra la numerosa e diversa bibliografia, rimane ancora attuale come opera di riferimento M. Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia 1965-1980, Milano 1983.
32 È praticamente impossibile fornire un elenco anche sommario delle opere pubblicate a partire dagli anni Settanta sui problemi del clero. Per quanto concerne le varie statistiche sugli ingressi nei seminari, sulla situazione dei preti e sugli abbandoni del ministero si trovano notizie e tabelle nelle riviste «Seminarium», «Aggiornamenti sociali», «Vita pastorale» e nell’«Annuarium Statisticum Ecclesiae». Molti studi sono dovuti a G. Brunetta: cfr. G. Brunetta, L’evoluzione delle strutture e del personale ecclesiastico in Italia (1881-1991), in Italia cattolica. Fede e pratica religiosa negli anni Novanta, a cura di G. Brunetta, A. Longo, Firenze 1991, pp. 130-155. Altri dati si possono trovare in F. Garelli, Religione e Chiesa in Italia, Bologna 1991; M. Offi, I preti, Bologna 1998; Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, a cura di F. Garelli, Bologna 2003.
33 Le risposte date dai preti al questionario furono molto diversificate. Monsignor Clemente Gaddi, arcivescovo di Bergamo e presidente della commissione incaricata di esaminare le risposte, le avrebbe così descritte: «Alcune incomplete, altre monche ma sostanzialmente fedeli alle domande, alle quali venivano date risposte ora lunghe, ora tacitiane; alcune con movenze oratorie altre assai secche e schematiche»; A. D’Angelo, Il clero in Abruzzo (1958-1978), «Rivista di toria della Chiesa in Italia», 56, 2002, 2, p. 412.
34 I documenti emanati dall’episcopato italiano si trovano raccolti nei volumi dell’Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana, pubblicati dalle Dehoniane di Bologna a partire dal 1985. I documenti ricordati sulla preparazione del sinodo si trovano nel vol. I: La missione dei sacerdoti nel momento presente, pp. 612-635; Discussione sui problemi del clero (con il testo del questionario), pp. 640-657, e quindi la sintesi delle risposte, pp. 859-922; Il sacerdozio ministeriale. Contributo dell’Episcopato italiano ai lavori del III Sinodo dei vescovi (da questo documento è tratta la citazione riportata sopra), pp. 1093-1104.
35 Su don Sirio Politi (1920-1988) si veda il numero di gennaio 1988 della rivista «Pretioperai», a lui dedicato; A. Famà, Bibliografia di Sirio Politi, «Itinerari», 10, 1995, 5, pp. 39-46. Una breve autobiografia in P. Crespi, Prete operaio. Testimonianze di una scelta di vita, Roma 1985, pp. 31-52.
36 Si possono seguire le varie fasi della storia dei preti operai italiani attraverso il loro organo di collegamento: dal 1978 si intitolava «Dossier P.O.», e dal giugno 1979 sarebbe diventato «Bollettino di collegamento dei p.o.», per lasciare poi il posto, dal 1987, alla rivista «Pretioperai». Bibliografia su tale storia e sui vari dibattiti che avrebbe sollevato, in M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, cit., pp. 285-296.
37 Ricordo, solo a titolo di esempio: R. Beretta, G. Gazzaneo, Preti di strada. Le frontiere dell’emarginazione e della speranza raccontate dai più noti sacerdoti “anti-droga”, Torino 1995.
38 G.M. Garrone, Le problème de l’identité sacerdotale, «Seminarium», 31, 1978, pp. 3-11.
39 Si veda per esempio M. Offi, F. Garelli, Profilo e tipologia del clero italiano, in Sfide per la Chiesa del nuovo secolo, cit., pp. 303-345. Al di là del valore di classificazioni di tipo politico desunte dalle risposte a un questionario, il saggio contiene un’interessante immagine del clero italiano. Si può vedere un altro tipo di riflessione, di carattere biblico, teologico, psicologico e storico, in L. Pacomio, G. Ravasi, B. Maggioni, et al., I preti. Da 2000 anni memoria di Cristo tra gli uomini, Casale Monferrato 1991; G. Capraro, G. Colombo, G. Gillini, et al., Preti, ma non da soli. Presbiterio e comunità, Milano 2001; G. Gillini, Il celibato per il Regno. Le condizioni per accogliere il dono, Milano 2003.
40 Alcune osservazioni in proposito, in F. Traniello, Cultura politica del clero e coscienza civile degli italiani, cit., pp. 13-25.
41 Pio XII, Fidei donum, in Enchiridion delle Encicliche, VI, Bologna 1955, pp. 1130-1171.
42 Sui problemi missionari si vedano le indicazioni bibliografiche riportate alla nota 25.
43 La domanda se l’era posta già nel 1968 J. Duquesne, Demain, une église sans prêtres?, Paris 1968 (trad. it. Una Chiesa senza clero?, Milano 1969).