Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’introduzione del sonoro comporta una serie di conseguenze importanti sia sotto l’aspetto della produzione e distribuzione internazionale dei film, che sul piano della regia. La presa diretta e le difficoltà tecniche legate alla sincronizzazione dell’immagine e del suono sono all’origine di un sensibile allungamento della durata media delle inquadrature e della tendenza a limitare il ricorso al montaggio a favore del piano-sequenza.
Le versioni internazionali e il doppiaggio
Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta l’introduzione del sonoro segna per le cinematografie europee l’inizio di una fase particolarmente problematica. Ai costi dell’aggiornamento tecnologico, che costringe gli esercenti a rinnovare le loro attrezzature, si aggiunge la difficoltà rappresentata dalla diversità linguistica, che affiora all’improvviso dissolvendo per sempre l’universalità del film muto. Il rischio che il film sonoro determini una riduzione della permeabilità reciproca dei vari mercati nazionali, e una conseguente contrazione degli spazi commerciali, è avvertito in primo luogo dai produttori, che negli anni della transizione tentano di reagire promuovendo la realizzazione di diversi progetti internazionali. Per un breve periodo si impone il fenomeno delle cosiddette "versioni internazionali": film di grosso impegno finanziario che vengono girati in due o tre lingue, con attori (e in qualche caso anche registi) di nazionalità diversa. Il fenomeno, caratteristico del cinema europeo, è inaugurato da un film britannico, Atlantic (1929) diretto da Ewald André Dupont (1891-1956) girato in tre versioni (inglese, tedesca e francese) e presentato al pubblico come "il primo film multilinguistico". Uno dei produttori più impegnati sul fronte dell’internazionalizzazione è Erich Pommer, che dopo il successo ottenuto con Die drei von der tankstelle/Le Chemin du Paradis (1931), diretto da Wilhelm Thiele è artefice di altri notevoli casi di versione multipla, come Das Kongress Tanzt/The Congress Dances/Le Congrès s’amuse (1931), diretto da Eric Charell (1895-1974) , Voruntersuchung /Autour d’une enquête (1931) Istruttoria diretto da Robert Siodmak ed Henri Chomette (1896-1941) e Das Testament des Dr. Mabuse/Le Testament du docteur Mabuse (1933) di Fritz Lang. Anche il primo film sonoro italiano, La canzone dell’amore (1931), viene diretto da Gennaro Righelli in una versione francese parallela. Questa ondata di film internazionali ha comunque vita breve, resa inattuale non solo dall’introduzione del doppiaggio nel 1932, ma soprattutto dal nuovo clima politico che si viene a creare nel continente dopo l’avvento al potere di Hitler nel 1933. Prima che questo accada, si verificano alcuni interessanti tentativi di incorporare la molteplicità linguistica a livello di sceneggiatura, in una serie di film apolidi che mescolano personaggi di nazionalità diversa; tra questi, il caso più notevole è forse quello di Kameradschaft, La tragedia della miniera (1931) diretto da Georg Wilhelm Pabst, che narra una storia di solidarietà tra minatori francesi e tedeschi.
Montaggio e piano-sequenza
L’avvento del sonoro comporta una serie di conseguenze importanti anche sul piano della regia. La necessità di effettuare la registrazione in presa diretta e le difficoltà tecniche legate alla sincronizzazione dell’immagine e del suono sono all’origine di un sensibile allungamento della durata media delle inquadrature e di un tipo di regia che tende a limitare il più possibile il ricorso al montaggio. Anche se alcuni registi continuano a esplorare le possibilità del montaggio nel nuovo regime audiovisivo – è il caso soprattutto di Dziga Vertov e Walter Ruttman che con Entuziasm (1931), e Melodie der Welt (1929), si sforzano di ridefinire in chiave audiovisiva le forme "sinfoniche" delle loro opere mute, come per altri versi del Pudovkin di Dezertir (1933) – tutti i differenti aspetti della tecnica di riproduzione del suono congiurano a favore di uno stile statico di regia, basato su lunghe inquadrature immobili; in effetti, alle limitazioni imposte al montaggio, se ne accompagnano altre relative ai movimenti di macchina, resi estremamente difficoltosi dalle pesanti protezioni utilizzate per attutire il rumore della macchina da presa.
Il ricorso obbligato alla continuità di ripresa diviene in certi casi una precisa scelta stilistica, come appare evidente negli elaborati piani-sequenza effettuati da Kulešov in Il grande consolatore o da Hitchcock in Murder! (1930).
Ma un’estetica compiutamente modernista del piano-sequenza, con tutte le sue implicazioni audiovisive, viene delineandosi soprattutto nel cinema di Jean Renoir, che nel 1939, in La Règle du jeu, tenta di moltiplicare il realismo della ripresa continua effettuando la registrazione in profondità di campo non più solo dell’immagine, ma anche del suono.
In generale la nuova forma audiovisiva del cinema tende a favorire un cinema di parola, basato sulla sceneggiatura e su modelli di tipo teatrale. Proprio questo aspetto è quello che viene più spesso preso di mira dai detrattori del nuovo mezzo, da Luigi Pirandello a Antonin Artaud e Benjamin Fondane, che vedono nel sonoro il rischio di una possibile regressione del cinema a una banale imitazione del teatro. Sul versante opposto si schiera il commediografo Marcel Pagnol, che in un articolo del 1930 sostiene senza mezzi termini la tesi secondo la quale il film sonoro non avrebbe altro compito se non quello di riprodurre e divulgare il teatro. Per quanto discutibile, ed effettivamente molto discussa all’epoca, questa posizione dà luogo a risultati di notevole interesse nei tre film tratti dalla trilogia marsigliese già portata sulle scene dall’autore – Marius (1931), diretto da Alexander Korda, Fanny (1932), di Marc Allégret, César diretto dallo stesso Pagnol nel 1936 –, che si fanno apprezzare proprio per la qualità "teatrale" della sceneggiatura e della recitazione degli attori.
Un uso realmente creativo della componente sonora è patrimonio, nel corso degli anni Trenta, di un numero limitato di autori. Di vera e propria messa in scena audiovisiva, capace di sfruttare le risorse del fuori campo sonoro e di impiegare il silenzio e i rumori come elementi significanti, si può parlare a proposito di due film molto diversi come La Petite Lise (1930) di Jean Grémillon, un dramma a sfondo sociale in cui la continuità di ripresa si accompagna alla rarefazione dei dialoghi e alla messa in scena dei tempi morti dell’azione, e Abschied (1930) di Robert Siodmak, che si segnala per una regia movimentata che si distacca in maniera decisa dallo stile prevalente nel periodo.
Un posto a parte merita il film di René Clair Sous le toits de Paris (1930), in cui il regista affronta la sfida di ridurre al minimo la componente verbale. In polemica con Pagnol, Clair interpreta il film sonoro come un perfezionamento dell’estetica del film muto e tenta di tradurre questa convinzione in uno stile brillante che sacrifica i dialoghi a vantaggio della musica e dei rumori. Questa "formula mista di parlato e di muto" (nelle parole dello stesso autore) si serve di vari stratagemmi per rendere inudibili le parole degli attori, sommergendole nella musica o nascondendole dietro un ostacolo materiale, come la celebre porta a vetri che nella sequenza finale sopprime una parte del dialogo tra i due protagonisti.