Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel cinema, arte popolare e di massa per eccellenza, i regimi d’Europa riconoscono un essenziale veicolo di propaganda e di costruzione di valori. Il realismo socialista nell’URSS, il delinearsi di un’importante istituzione quale Cinecittà in Italia, il sostegno delle gerarchie goverantive tedesche a film incentrati sull’esaltazione dei progetti nazisti, testimoniano della grande considerazione e dei relativi investimenti concreti e simbolici concentratisi sull’industria cinematografica.
Eroi del realismo socialista
Tra le diverse forme di realismo che si diffondono nel cinema europeo nel periodo tra le due guerre, una delle più importanti è quella che compare in Unione Sovietica sotto la dicitura di "realismo socialista". Delineata per la prima volta da Maksim Gorkij nel suo discorso al primo congresso degli scrittori sovietici del 1934, la poetica del realismo socialista viene prontamente adottata quale canone estetico-ideologico dall’apparato stalinista. Utilizzata al fine di allineare l’intera produzione di finzione su un medesimo standard propagandistico, questa vera e propria poetica di Stato prevede invariabilmente la centralità di un personaggio eroico, assunto a simbolo dell’URSS e della sua marcia trionfale verso il socialismo. Il film che più contribuisce a fissare questo schema discorsivo è Čapaev (1934) di Sergej (1900-1959) e Georgij Vasil’ev, incentrato sulla mitica figura di un capo partigiano durante la guerra civile, che con la sua roboante retorica e la sua innegabile potenza narrativa ottiene unanimi consensi sia presso il pubblico che presso la critica. Sotto i colpi della politica culturale staliniana cade l’avanguardia, le cui ricerche sulle potenzialità linguistiche del cinema vengono bollate come deviazioni "formalistiche" rispetto al principio fondamentale dell’utilità politica del prodotto artistico. Si afferma il film biografico, sviluppato in un’ampia gamma di varianti a seconda del tipo eroico che viene rappresentato: si va dalla struttura seriale delle avventure di Maksim, il simpatico operaio boscevico protagonista di un’omonima trilogia diretta da Grigorji Kozincev e Leonid Trauberg – Junost’ Maksima Bol’sevik (La giovinezza di Maksim, il bolscevico, 1935); Vozvrascenie Maksima (Il ritorno di Maksim, 1937); Vyborgskaja storona (Il quartiere di Vyborg, 1939), all’affresco epico di Scors (1938) di Aleksandr Petrovič Dovženko, biografia di un eroe ucraino commissionata dallo stesso Stalin, fino agli immancabili Lenin v oktiabre (Lenin in ottobre, 1937) e Lenin v 1918 godu (Lenin nel 1918, 1939), due film fortemente convenzionali di Michail Romm dove la figura del padre della rivoluzione viene dipinta in maniera quasi caricaturale. Ma è soprattutto l’immagine di Stalin che domina nei film di questo periodo: consapevole del valore strategico dell’esposizione pubblica nell’epoca della riproducibilità, il dittatore allestisce con grande attenzione il culto della propria personalità, distillando le apparizioni pubbliche e non di rado utilizzando dei sosia (facendo dunque in modo di lasciare scarse immagini documentarie di sé), ma contemporaneamente propagando la propria immagine canonizzata sotto forma di innumerevoli ritratti fotografici, busti, statue, nonché di una serie di apparizioni cinematografiche del suo "personaggio" affidate a Michail Gelovani (1893-1956), interprete ufficiale del dittatore in numerosi film di ricostruzione storica. Stalin, che dice di amare il cinema e pretende di dirigere personalmente la produzione cinematografica del suo paese, intrattiene relazioni abituali con diversi registi, a cui suggerisce trame e soggetti per i loro film. Così è anche per il dittico agiografico formato da Kljatva (Il giuramento, 1945) e Padenie Berlina (La caduta di Berlino, 1950), vero e proprio vertice autocelebrativo del cinema di Joseph Stalin, affidato a Michail Caureli per la regia e interpretato dal solito Gelovani.
Luce, Cines e Cinecittà, addomesticare l’immaginario
Anche per Stalin vale dunque la definizione di "grande cineasta" che Hans Jürgen Syberberg ha utilizzato a proposito di Hitler, per evidenziare l’uso perfettamente consapevole dei media praticato dalle dittature totalitarie. Non fa eccezione il fascismo, che fin dall’inizio rivolge al cinema un’attenzione particolare, come testimonia la puntuale ripresa da parte di Mussolini della definizione leniniana del cinema come "arma più forte". Nel 1924, con la creazione dell’Istituto LUCE (l’Unione Cinematografica Educativa), la produzione di pellicole documentarie diviene in pratica monopolio dello Stato e Mussolini ne approfitta per dimostrare le sue multiformi doti attoriali in numerosi cinegiornali, calandosi come un divo in una serie di ruoli sempre diversi: Mussolini aviatore, motociclista, mietitore, sintesi di tutti i valori, di tutte le capacità e le ambizioni degli italiani. I cinegiornali LUCE sono la voce ufficiale del regime, l’organo che registra e diffonde le sue imprese, ma sono anche l’unico settore della produzione cinematografica a essere posto direttamente sotto il controllo dello Stato. In realtà il processo di fascistizzazione del cinema avviene in modo graduale. In un primo periodo la produzione di film di finzione viene lasciata interamente nelle mani dei privati e in primo luogo in quelle di Stefano Pittaluga, che nel 1929-1930 giunge al vertice della Cines-Pittaluga, dalla quale si attende il rilancio del cinema italiano. Nel giro di poco più di un anno, prima di scomparire prematuramente nel 1931, Pittaluga riorganizza la produzione ed edifica nuovi stabilimenti sui terreni della vecchia Cines, sviluppando inoltre una potente rete nei settori del noleggio e dell’esercizio. Dopo la sua morte, seguita a breve distanza da un incendio che distrugge gli stabilimenti appena costruiti, gran parte della struttura amministrativa costituita da Pittaluga viene rilevata dallo Stato. Il 1934 è l’anno della fondazione dell’ENIC, struttura distributiva nazionale operante nel settore del noleggio, ma soprattutto della nascita della Direzione Nazionale della Cinematografia, al cui vertice viene collocato Luigi Freddi. Nel 1936, sulle ceneri della Cines, Freddi inaugura i nuovi stabilimenti di Cinecittà, contributo dello Stato alla rinascita del cinema italiano. È a partire da questo momento che vengono realizzati alcuni dei film più rappresentativi della politica culturale del regime, come Vecchia guardia (1935) di Alessandro Blasetti; Cavalleria (1936), di Goffredo Alessandrini; Condottieri (1937) di Luis Trenker; Scipione l’africano (1937), diretto da Carmine Gallone, e altri film di ricostruzione storica realizzati con l’obiettivo di nobilitare il fascismo identificandolo con certi momenti esemplari del passato. Ma la politica di Freddi è anche attenta a garantire il buon andamento economico dell’industria nazionale nel suo complesso, che in effetti, durante gli anni della sua direzione, manifesta un incremento produttivo piuttosto rilevante. In ogni caso, gran parte dei film che vengono realizzati negli studi di Cinecittà in questo periodo non appartiene alla categoria della propaganda in senso stretto, bensì a quella del cinema d’evasione, come le commedie dei "telefoni bianchi", o il cosiddetto "cinema calligrafico", genere di ispirazione letteraria in cui esordiscono registi come Mario Soldati, Alberto Lattuada, Renato Castellani. Del resto, la politica dei generi che Freddi si impegna a promuovere a Cinecittà è ispirata alla struttura produttiva di Hollywood, assunta a modello di riferimento nel processo di modernizzazione del cinema italiano.
Iconografie naziste
L’uso del cinema come mezzo di distrazione o sospensione del principio di realtà caratterizza anche l’azione del Ministro della propaganda di Hitler, Joseph Goebbels. Come è stato spesso notato, oltre la metà della produzione cinematografica del periodo nazista è rappresentata da film privi di ogni riferimento all’attualità politica, sospesi in un mondo immaginario che prende le forme del melodramma, del poliziesco, della commedia musicale o del film biografico, realizzati da anonimi professionisti quali Emerich Walter Emo (1898-1975), Carl Heinz Boese (1887-1958), Georg Jacoby (1883-1964), Hans H. Zerlett (1892-1949), Carl Lamac (1887-1952). Goebbels si trova in ogni caso al vertice di una delle strutture produttive più moderne del mondo, l’UFA, che dopo aver sostenuto, con i finanziamenti del suo presidente Hugenberg, l’ascesa al potere di Hitler, dal 1933 passa completamente sotto il controllo dello Stato. Dalla sua posizione di comando Goebbels dirige una delirante propaganda che comprende titoli come Hitlerjunge Quex ( Il giovane hitleriano Quex, 1933) diretto da Hans Steinhoff che narra la conversione di un giovane al nazismo, il rivoltante pamphlet antisemitico diretto da Veit Harlan (1899-1964) Jew Süss (Süss l’ebreo, 1940), o ancora un "documentario" come Der ewige Jude diretto da Fritz Hippler (1909-2002), realizzato con l’obiettivo di legittimare la soluzione finale agli occhi dei tedeschi. Ma la più sensazionale delle realizzazioni di Goebbels è senza dubbio il film di Leni Riefenstahl Triumph des Willens (Trionfo della volontà), girato durante il congresso del partito nazista a Norimberga nel 1934. Al momento del suo incontro con Hitler, Leni Riefenstahl ha da poco girato il suo primo film come regista. Dopo aver raggiunto una notevole popolarità come eroina dei "film di montagna" di Arnold Fanck ha voluto dirigersi da sé in un film del medesimo genere, Das blaue Licht (La bella maledetta, 1932, su sceneggiatura di Béla Balász), un melodramma ricco di acrobazie ambientato tra le vette alpine. Pur avendo la possibilità di rivolgersi a registi molto più affermati ed esperti di lei, il fürher la sceglie per dirigere quello che si potrebbe definire il suo film fondativo, destinato a documentare il più grande spettacolo di massa mai concepito. In effetti, in Triumph des Willens la regia di Riefenstahl risulta limitata agli aspetti propriamente cinematografici (riprese e montaggio), dal momento che la messa in scena vera e propria dell’evento, con le sue gigantesche scenografie e le coreografie eseguite dall’esercito, viene affidata all’architetto Albert Speer. La qualità della fotografia e del montaggio contribuisce comunque in maniera decisiva alla rappresentazione mitologica di Hitler. Riefenstahl è una stilista che costruisce l’inquadratura in base a rapporti di luce, ritmici e di volume, ma che sa anche come accrescere simbolicamente il dittatore per mezzo dell’inquadratura e del montaggio, per esempio riprendendolo dal basso e contrapponendo il suo primo piano al totale della folla oceanica dai volti indistinguibili.