Il caso del terremoto in Friuli (1976): «Lôr a jan dut, e non a roseâ la crodie»
Ogni valutazione del rapporto tra la popolazione friulana e l’Ente Regione Friuli Venezia Giulia non può prescindere dalla comprensione di due aspetti, che ne caratterizzano la storia e lo sviluppo sociale: il particolare processo che nel dopoguerra spinse i costituenti a definire i confini regionali e la denominazione; la particolarità sociale, culturale e linguistica che il Friuli rappresenta all’interno della regione.
Il termine Friuli Venezia Giulia, in sé privo di qualsiasi riferimento a esperienze amministrative del passato, riprende in parte la definizione delle Tre Venezie proposta alla metà dell’Ottocento dal linguista Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), che indicava con Venezia Giulia, pressappoco, la regione del Litorale Austriaco (dal Friuli orientale all’Istria, con capoluogo Trieste, lasciando il Friuli occidentale alla Venezia Euganea). A questa nozione di Venezia Giulia fecero riferimento alcuni esponenti azionisti, ma anche cattolici e socialisti, del Comitato di liberazione nazionale (CLN) giuliano, fin dalla primavera del 1945. La promozione di una entità amministrativa del genere, oltre a rimarcare l’italianità dell’area in funzione antislava, mirava a rivendicare un’autonomia locale finalizzata a recuperare i rapporti con le minoranze, gravemente compromessi dal ventennio fascista, facendo propria un’idea di regione di tipo federalista «alla Cattaneo» (Agnelli, in La Regione Friuli Venezia Giulia, 1987, p. 29).
In direzione diversa si collocò l’azione del friulano Tiziano Tessitori (1895-1973). Il politico democristiano, dalle colonne del quotidiano «Libertà» – organo del CLN del Friuli –, iniziò una battaglia per il riconoscimento delle peculiarità della regione, intesa come ‘Piccola patria’ o ‘Friuli storico’, che si estendeva dal Livenza al Timavo. Una particolarità prevalentemente culturale e linguistica che legittimava un decentramento regionale che Tessitori, da esponente del vecchio Partito popolare, nei primi anni Venti del 20° sec., faceva collimare – unitamente alla critica sturziana – con l’eccessivo accentramento attuato dallo Stato liberale ottocentesco. Tessitori fondò, nel luglio del 1945, l’Associazione per l’autonomia friulana – a cui aderirono gli intellettuali Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Gianfranco D’Aronco – e, in seguito, portò il dibattito in seno alla Assemblea costituente. Opinioni nettamente contrarie all’istituzione della Regione Friuli vennero dalle aree della Destra Tagliamento e del Goriziano che, memori del nefasto precedente amministrativo della Provincia di Udine (istituita dal fascismo nel 1923), temevano un assoggettamento troppo accentuato a favore del capoluogo, e manifestarono apertamente la propria preferenza per un accorpamento al Veneto.
Ben presto le ragioni determinate da considerazioni di natura prettamente locale (culturali, storiche o economiche) finirono schiacciate dagli eventi nazionali e internazionali, connessi alla definizione del confine orientale. Nella stessa Democrazia cristiana (DC) regionale crebbe l’opposizione a Tessitori, con il «Messaggero veneto», quotidiano legato alla destra democristiana e qualunquista, che si spinse a definire l’autonomia friulana un ‘cavallo di Troia’ che avrebbe consegnato la regione alla Jugoslavia (Di Giusto 1996, p. 193). Ancora più significativo, e indice anche della scarsa penetrazione dei partiti nella società, risulta il fatto che le campagne elettorali per le amministrative e per l’Assemblea costituente del 1946, abbiano visto la prevalenza dei temi ‘alti’ (dalla laicità dello Stato ai trattati di pace), fortemente identificativi dei partiti stessi, laddove i problemi locali avrebbero potuto far emergere convergenze programmatiche.
L’ampio dibattito in seno all’Assemblea costituente, sull’istituzione di una regione e sull’attribuzione alla medesima di caratteristiche di autonomia e ‘specialità’, portò al compromesso costituito dall’attuale assetto. Tessitori aveva posto al centro della richiesta di autonomia regionale per il Friuli le rivendicazioni di natura storico-culturale, ma, alla fine, gli elementi determinanti furono di nuovo quelli connessi al confine orientale, come la gestione delle minoranze linguistiche e i tesi rapporti transfrontalieri (peraltro destinati a rimanere tali per oltre un decennio). Fu lo stesso Tessitori a proporre la dicitura Friuli Venezia Giulia per ‘disinnescare’ l’analoga proposta del collega di partito, il triestino Fausto Pecorari (1902-1966), il quale con il nome di Regione giulio-friulana e Zara intendeva alimentare le rivendicazioni italiane sull’Istria e il Quarnaro.
A differenza della altre quattro regioni a statuto speciale, il lungo iter di definizione del confine posticipò di quasi venti anni l’approvazione dello statuto. La ‘zona A’, corrispondente alla odierna provincia di Trieste, rimase sotto l’amministrazione militare angloamericana fino all’ottobre del 1955, a seguito della firma del Memorandum di Londra (5 maggio 1955). In quella fase, però, subentrarono ragioni di politica nazionale, in particolare la svolta antiregionalista della DC durante i governi di centro-destra, che frapposero altri ostacoli, mentre la definizione del confine orientale fece cadere le motivazioni che avevano sostenuto la concessione dello statuto speciale. Tuttavia la DC locale, nonostante il vento sfavorevole, iniziò, sotto la guida dell’onorevole moroteo Alfredo Berzanti (1920-2000), un lungo lavoro di tessitura, che poneva al centro la depressione economica del Friuli e indicava nell’autonomia lo strumento necessario per porvi rimedio. Con la svolta dei governi di centrosinistra, guidati dal regionalista Aldo Moro (1916-1978), il vento tornò favorevole, e il 24 luglio 1962 si arrivò all’approvazione dello statuto regionale.
Le prime elezioni amministrative videro, nel quadro di un sostanziale rispetto dell’andamento nazionale, l’affermazione della DC di Berzanti, ma è anche indicativo il successo del Movimento sociale italiano (MSI) a Trieste (dove raggiunse il 12,5%) e nel Goriziano. Se si considera che in sede di discussione dello statuto regionale il MSI aveva adottato una tattica ostruzionista, con Giorgio Almirante (1914-1988) autore di un intervento di otto ore contro l’istituzione della regione, si comprende come tale voto fosse sintomatico di un diffuso sentimento antiregionalista e antiautonomista, dettato da pregiudizi antislavi e anticomunisti. Eletto presidente della regione, Berzanti governò dal 24 giugno 1964 al 6 luglio 1973, prima in alleanza con il Partito socialista democratico italiano (PSDI) e, dopo il 1966, con il Partito repubblicano italiano (PRI) e il Partito socialista italiano (PSI). Durante questo periodo cruciale la DC ‘edificò’ l’apparato amministrativo della regione, attingendo in gran parte a funzionari provenienti da prefetture, ministeri e amministrazioni locali, che, almeno fino ai primi anni Novanta, costituì lo ‘zoccolo duro’ dell’amministrazione. Il reclutamento diretto, senza concorsi, e la continuità di governo, ebbero come effetto una certa compenetrazione, di uomini e linee politiche, tra DC e amministrazione regionale. Berzanti diede il via a una politica di pianificazione organica dello sviluppo economico, da cui si sottrasse soltanto il settore agricolo, lasciato all’iniziativa di Antonio Comelli (1920-1989). Quest’ultimo trovò nell’assessorato all’agricoltura lo spazio di manovra – e nella Coldiretti il bacino di potere – che gli permise, nel 1973, di subentrare a Berzanti alla guida della regione. In tale ruolo Comelli dovette far fronte agli eventi seguiti al terremoto del 6 maggio 1976.
Di ‘caso Friuli’ si iniziò a parlare nel corso degli anni Settanta, in relazione al particolare processo di modernizzazione che aveva visto una società rurale sviluppare un proprio tessuto industriale, senza passare attraverso quelle che apparivano come tappe obbligatorie (in particolare i fenomeni connessi all’inurbamento e l’adesione a forme di lotta di classe e di partecipazione ‘moderne’, come i partiti e i sindacati).
Il periodo napoleonico e la successiva assegnazione agli Asburgo (1815) posero fine a un lungo medioevo, caratterizzato da una forte e conflittuale polverizzazione feudale del territorio, che aveva reso incerto l’intervento statale dei principali soggetti interessati (la Repubblica di Venezia e l’Impero asburgico). Questa complicata rete di giurisdizioni feudali permise la sopravvivenza di forme di gestione del territorio come le vicinie, i consigli di paese che amministravano i beni collettivi delle comunità di villaggio e avevano un certo potere giurisdizionale, e per contro non favorì la nascita della società comunale, tipica del resto d’Italia. L’invasione napoleonica e la successiva annessione all’Impero segnarono l’inizio di una fase di lento ammodernamento, che coincise con il proposito di smantellare tanto le vicinie quanto i beni collettivi. Proposito che continuò con maggior vigore dopo l’annessione, nel 1866, al Regno d’Italia (Barbacetto 2000).
I risvolti internazionali, le guerre e il conseguente continuo ondeggiare del confine (da cui derivava la necessità di ridefinire i propri mercati) penalizzarono gravemente l’economia friulana, sia nell’agricoltura sia nell’artigianato, anche in quelli che andavano caratterizzandosi come distretti industriali, per es. Maniago per le coltellerie e il cosiddetto Triangolo della sedia (Manzano, San Giovanni al Natisone e Corno di Rosazzo). Le due guerre mondiali e il ventennio fascista, che aveva represso duramente ogni movimento di lotta teso a migliorare i rapporti rurali con l’aristocrazia terriera, contribuirono a fare del Friuli la regione economicamente più arretrata dell’Italia del Nord, con un reddito pro capite in continua discesa, che raggiunse, nel 1957, il punto più basso (pari al 75% del reddito pro capite nazionale). Una netta inversione di tendenza si ebbe soltanto nel corso degli anni Sessanta, con un vero boom che avrebbe portato il Friuli a superare il reddito pro capite nazionale, anche se la politica di compressione salariale, che ne costituì uno degli elementi trainanti, non comportò un proporzionale aumento dei consumi. In questa fase acquistò valore la nozione di ‘modello Friuli’, che ebbe come elemento caratterizzante l’evoluzione delle botteghe artigiane in piccole e medie industrie decentrate nel territorio. L’ampio sfruttamento del lavoro a domicilio, del part-time agricolo, e la collocazione di piccoli stabilimenti in prossimità dell’abitato fecero sì che la forza lavoro non perdesse contatto con il Paese, con la campagna, con le consuetudini che regolavano il preesistente tessuto sociale. Nello stesso tempo l’emigrazione, fenomeno tradizionale e ampiamente diffuso fin dalla fine dell’Ottocento, ebbe una notevole ricaduta, sia relativa alle rimesse degli emigrati (che in larga parte reinvestivano in Friuli i propri guadagni) sia in termini di cultura politica e sindacale, sia di cultura tout court, fornendo l’accesso a un network di idee ed esperienze che andava dall’Europa alle Americhe, dalla Siberia all’Australia.
Alle nove di sera del 6 maggio 1976 una scossa sismica, stimata del X grado sulla scala Mercalli (6,5 secondo la scala Richter), investì l’area dell’Alto Friuli, e in particolare la zona collinare a ridosso delle Prealpi Giulie. Solo l’assenza di grossi centri abitati fece sì che il numero delle vittime si fermasse a un migliaio circa. Altrettanto gravi, soprattutto dal punto di vista dei beni immobili coinvolti, furono le scosse sismiche dell’11 e del 15 settembre, quasi della stessa intensità di quella di maggio. Le vittime furono circa dieci, ma l’impatto sociale fu enorme, poiché pose fine a quella che era stata la prima e più immediata reazione popolare al trauma.
Nei giorni immediatamente successivi al terremoto di maggio, mentre il potere dello Stato veniva travolto a tutti i livelli dalla catastrofe, la popolazione si organizzò dal basso, lungo le direttive tracciate dalle arcaiche consuetudini di borgata e villaggio, rese attuali dalla coeva autogestione di beni collettivi come asili o latterie. Opponendosi alle disposizioni accentratrici che iniziavano ad arrivare dalle istituzioni dello Stato, la popolazione rifiutò di abbandonare le tendopoli autogestite e decentrate nelle borgate. Ben presto queste esperienze iniziarono a strutturarsi in modo orizzontale, dando vita a un coordinamento in grado di indire assemblee generali rappresentative dell’intera area terremotata. In modo autonomo rispetto non solo al governo centrale, ma anche agli strumenti di rappresentanza, quali i partiti e i sindacati, tali assemblee, punto culminante di discussioni tenute quotidianamente nelle riunioni delle singole tendopoli, si interessarono tanto dei problemi quotidiani e particolari (dalla gestione delle mense ai singoli problemi delle tendopoli), quanto dei primi progetti di ricostruzione. Le assemblee e gli altri momenti di lotta, che qui verranno esaminati, diedero al movimento delle tendopoli una determinante voce in capitolo nel far passare un modello di ricostruzione basato sul rispetto del preesistente tessuto urbano e sul rifiuto assoluto delle soluzioni adottate dallo Stato in occasioni precedenti, come nel caso del disastro del Vajont nel 1963 (con la creazione di un nuovo comune omonimo, distante circa 40 km dai luoghi di provenienza della popolazione colpita).
Il terremoto, o meglio, la ‘catastrofe’, dall’etimo greco simile a quello latino ‘rivoluzione’, si presenta all’occhio dello storico come un fenomeno che porta alla luce e mette in evidenza quanto di più atavico e radicalmente profondo ci sia nella società che viene coinvolta. Utilizzando un intervento di taglio antropologico, si può osservare come:
le reti delle appartenenze e le molteplicità dei ruoli in cui è invischiato l’uomo moderno si sciolgono d’incanto, ed emerge in tutta la sua importanza il legame del sangue e della terra; si accorre al soccorso dei familiari e dei vicini; e la famiglia estesa dimostra tutto il ruolo, latente in tempi normali, di struttura di contro assicurazione mediante cui si distribuiscono nella società le responsabilità e gli obblighi di soccorso. L’uomo rivela in tutta la sua chiarezza la sua natura di animale sociale, con il fisico bisogno di stringersi, toccarsi, comunicare, scaldarsi, offrirsi reciprocamente cibo, bevanda e ristoro; così si tratta tra sconosciuti con i familiari. La necessità di mettersi immediatamente al lavoro per salvare i superstiti ed organizzare i soccorsi stringe gli uomini in gruppi di lavoro spontanei, dove la chiara evidenza del fine suggerisce spontaneamente il coordinamento degli sforzi, la divisione del lavoro, l’accettazione dell’autorità basata sulla competenza (Friuli: la prova del terremoto, 1978, pp. 136-37).
Uno studio, svolto sulle esperienze di autogestione nelle tendopoli friulane tra maggio e settembre del 1976, ha indagato principalmente le dinamiche sociali che la catastrofe ha portato alla luce, andando al di là dell’agiografia che solitamente ammanta la bibliografia sulla mitizzata ‘ricostruzione’ (Londero 2008). Coerentemente con tale proposito iniziale, lo studio si è basato su fonti adatte a rendere conto del punto di vista della popolazione delle tendopoli, come le ‘carte’ lasciate dagli stessi terremotati, conservate prevalentemente nell’Archivio Gubiani depositato presso la Biblioteca comunale don Valentino Baldissera di Gemona, comprendente i verbali delle riunioni, la serie del «Bollettino del coordinamento delle tendopoli», le liste dei partecipanti alle manifestazioni, gli annunci delle elezioni dei comitati di tendopoli e molti altri documenti. Ancora più importanti, comunque, sono state le interviste effettuate ai protagonisti di quei giorni: non solo parroci, sindaci e consiglieri comunali, ma soprattutto i membri di un comitato di una singola tendopoli – nella borgata di Godo a Gemona del Friuli – assunta a campione di un fenomeno sociale che ha coinvolto l’intera area terremotata. Lo studio ha curato in particolare la percezione che la popolazione delle tendopoli ebbe riguardo le vicende che la videro protagonista, ma è stato anche un’utile cartina al tornasole del rapporto tra la popolazione e le istituzioni, tra cui la Regione Friuli Venezia Giulia che, accanto al commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, nominato dal governo, fu uno dei principali centri di potere presenti nel territorio.
Nelle testimonianze raccolte durante le varie interviste, alcune parole si sono ripetute, attirando l’attenzione dello storico. Comparando i racconti dei testimoni, e collocando le parole ricorrenti nel loro contesto sociale, storico e linguistico, ci si accorge che esse sono davvero ‘chiavi’ che aprono specifiche porte comunicanti con concetti stratificati e densi, che gli intervistati esprimono con una semplicità quasi dogmatica, come se dicessero: «è così perché è così e non può essere altrimenti». Nondimeno queste parole appartengono a una comune ideologia piuttosto ben definita, che è il frutto di un’eredità atavica e non di un processo di cosciente elaborazione.
Quando è stato chiesto ai testimoni di spiegare le ragioni della forte pulsione solidaristica ampiamente riscontrata – non va dimenticato che i primi soccorritori dei terremotati furono i terremotati stessi – essi hanno generalmente reagito con stupore, come se fosse assolutamente ovvio e scontato il motivo che li aveva indotti a rischiare la vita, di notte, per andare a soccorrere i vicini. Dopo lo stupore, la gran parte degli intervistati ha liquidato la domanda, affermando che tutto è stato «spontaneo». Sia la volontà di abbandonare il proprio angolo sicuro, sia la capacità di coordinarsi con altri individui per iniziare a mettere ordine nel caos postapocalittico, furono descritte con questa prima parola chiave: spontaneità.
Indagando su ciò che racchiude questo termine, ci si imbatte in una serie di comportamenti consuetudinari, di abitudini, di usi che ben presto spiegano il motivo per cui un certo tipo di reazione risultasse ‘spontanea’, mentre altre (come, per es., la corsa agli accaparramenti) furono insignificanti. Alla metà degli anni Settanta l’area colpita dal terremoto godeva ancora di una notevole uniformità e coesione sociale, come si è visto, non intaccata dalla crescente industrializzazione. Un elemento tipico era costituito dalla latteria socio-turnaria. Essa apparteneva ai soci che conferivano il latte e ognuno, a turno, vi lavorava, assistendo gratuitamente il casaro professionista per fare il formaggio. In un contesto sociale ancora rurale, dove quasi ogni famiglia possedeva almeno una vacca, la latteria si configurava come vero e proprio bene collettivo. Ogni borgata o piccolo paese aveva la sua latteria, alla quale, spesso, era associato un asilo. Alla gestione della latteria e degli altri possibili beni collettivi, come un asilo, una fontana, un bosco o le strutture in cui si teneva la sagra di paese, partecipava l’intera comunità che aveva ogni interesse a sviluppare un metodo di gestione capace di superare i conflitti, risolvere i problemi, mobilitare le risorse della comunità stessa. Un metodo che si tramandava di generazione in generazione e le cui origini possono essere ricollegate alle antiche vicinie. Tendenzialmente lontana e infastidita da ogni ordine costituito e sistema di partito, elementi percepiti come disgreganti della comunità (e quindi intimamente pericolosi), la popolazione era abituata a percepirsi come parte di una rete di rapporti consolidati nelle avversità, nella solidarietà quotidiana e spicciola, anche e soprattutto femminile, nel lavoro condiviso, prima ancora che nei momenti di convivialità. Mentre lo Stato si trovò cieco e monco rispetto agli eventi, avendo perso nella catastrofe, in un colpo solo, sia i contatti con i suoi canali informativi sia i suoi strumenti operativi (comuni, carabinieri ecc.), la popolazione, organizzata secondo i propri meccanismi spontanei, apparve invece in grado di comprendere e agire immediatamente.
È importante considerare che questa rete di comunità non era un sistema chiuso, ma, al contrario, presentava collegamenti a reti più ampie, grazie a tre principali tipi di connessione: le esperienze all’estero dei lavoratori emigranti, quelle maturate dagli studenti nelle città universitarie, e, infine, la rete del clero friulano.
I lavoratori tornati in Friuli dopo l’emigrazione in Germania, Svizzera, Francia (ma anche Australia o Americhe), oltre a essere dei veri poliglotti, avevano conosciuto modelli di vita geograficamente, socialmente e culturalmente molto lontani da quelli della loro regione, e avevano vissuto importanti esperienze di partecipazione sindacale e politica. Al ritorno, generalmente, si erano reintegrati con facilità nel tessuto sociale – rimasto, tutto sommato, immutato dalla loro partenza dieci o venti anni prima – e, anzi, proprio le competenze mutuate all’estero avevano fatto sì che la comunità avesse affidato loro cariche di responsabilità nella gestione dei beni comuni. Alcuni erano diventati tesorieri della latteria, altri presidenti del circolo che organizzava la sagra.
Gli studenti tornavano dalle esperienze vissute nelle università fuori regione, in particolare da Padova, in cui avevano conosciuto i movimenti studenteschi di matrice comunista, cattolica o libertaria. Essi si trovarono a rappresentare un ruolo fondamentale di mediazione culturale con i fermenti politici, religiosi e sociali che percorrevano l’Italia nei primi anni Settanta. A Gemona un gruppo di questi ex studenti, divenuti giovani insegnanti, aveva creato la Scuola sociale, ovvero una scuola serale destinata ai paesani, tutt’altro che rari, che avevano abbandonato gli studi dopo le elementari. Questi giovani intellettuali, mescolando all’esperienza della scuola di don Lorenzo Milani (1923-1967) a Barbiana l’impegno sociale di matrice postsessantottina, avevano dato vita a un progetto estremamente ben calato nel contesto sociale e, all’indomani del terremoto, si ritrovarono a essere un importante punto di riferimento cittadino, contribuendo a strutturare il coordinamento delle singole tendopoli di borgata che da Gemona, il più grosso centro coinvolto nel sisma con 11.000 abitanti circa, si estese ben presto all’intera area terremotata.
Gli altri ‘intellettuali organici’ presenti nelle tendopoli furono i parroci friulani. Fin dal dopoguerra un’ampia parte del clero friulano si era schierata su posizioni estremamente localiste. Partendo dall’impegno culturale a difesa della lingua e della liturgia friulana, avevano, nel corso degli anni Sessanta, abbracciato sempre più l’impegno politico e sociale. La Mozione del clero friulano, maturata in seno al Seminario di Udine nell’autunno del 1967 e controfirmata da 529 sacerdoti della diocesi – su un totale di 700 –, ebbe una notevole risonanza e rappresenta, probabilmente, il momento di maggior chiarezza programmatica di questo percorso. Ispirata dalle analisi storiche, politiche e sociali di sacerdoti e intellettuali come Francesco Placereani (1920-1986), la mozione metteva in relazione la miseria e l’emigrazione con le pesanti servitù militari gravanti sul Friuli, e richiedeva, in particolare, la costruzione di infrastrutture e l’istituzione di una università su quel territorio. Come se non bastasse la radicalità di tale analisi, gli estensori di tale documento giunsero a rivolgersi a tutte le forze politiche friulane che ne avessero sottoscritto i punti programmatici, il che metteva in discussione il monopolio della DC quale unico referente politico accettabile dai cattolici. Proprio per questo la mozione suscitò un vasto clamore, tanto che i deputati friulani democristiani fecero violente pressioni sulla curia udinese, arrivando a minacciare le dimissioni dell’intero gruppo, finché ottennero che il documento fosse ritirato. A raccogliere l’eredità politica della mozione fu il Movimento Friuli (MF), forza autonomista aconfessionale, che nel 1968 da movimento si fece partito e partecipò alle elezioni locali, ottenendo varie amministrazioni comunali e un paio di seggi in regione. Questi risultati, comunque, non rendono conto del profondo impatto che il MF ebbe nel dibattito politico regionale almeno fino agli anni Novanta.
Ai fini del presente studio è assai significativo l’intrinseco elemento di critica anti-istituzionale presente nel percorso religioso e politico di questo gruppo di sacerdoti, estremamente influente e rappresentativo del clero friulano. La critica antimodernista, la difesa della lingua e della tradizione friulana, la riscoperta di una religiosità popolare e del mitizzato Patriarcato di Aquileia, visti in contrapposizione al centralismo della Chiesa romana, si incontra con i fermenti postconciliari, con le esperienze pastorali di don Milani e dei preti operai francesi, con una visione radicale dei rapporti tra popolazione e istituzioni, che prevede per il clero un ruolo di carismatico baluardo del popolo contro ogni forma di oppressione.
Questa visione anticentralista e antistatalista, con la sua forte critica al sistema dei partiti, non ha avuto difficoltà a trovare punti di intesa tanto con i percorsi postsessantottini degli animatori della Scuola sociale, quanto con l’atavica diffidenza delle comunità verso le istituzioni.
Se i testimoni hanno descritto la modalità della reazione alla catastrofe ricorrendo alla categoria di spontaneità, la molla fondamentale è stata descritta con una seconda parola ricorrente: sopravvivenza. Nei giorni immediatamente successivi al terremoto del 6 maggio, lo Stato fu travolto dagli eventi e al suo posto le comunità di borgata e paese organizzarono i primi soccorsi. Le stesse comunicazioni ripartirono grazie alla struttura tecnicamente orizzontale dei radioamatori. Nei giorni successivi la gestione dei flussi di beni e informazioni continuò a non poter prescindere dalle organizzazioni popolari, le uniche in grado di operare censimenti dei vivi e dei morti, di stabilire un ordine di urgenze nei beni necessari, di indicare chi avesse bisogno e di cosa. Nei primi giorni dopo il sisma, la sopravvivenza materiale, l’accesso a cibo, acqua, riparo notturno e ogni altro bene primario dipesero dalla solidità dell’organizzazione comunitaria. Su un punto le interviste sembrano concordare: benché in una situazione di simile stress non mancassero le ruberie e gli accaparramenti, questi non misero mai in discussione il diritto dei comitati di gestire i beni e le risorse disponibili; anzi, tali comportamenti vengono ricordati con rabbia o come piccole furberie di qualche disperato, ma mai giustificati come comportamenti normali. Nei ricordi, le grandi ruberie e ingiustizie erano al di fuori della comunità, nei grandi centri di raccolta, ovvero al di là dell’orizzonte visivo e del controllo della popolazione.
I comitati si formarono nelle comunità come gruppo di persone particolarmente efficienti. Si trattava di un gruppo informale e mutevole, dal quale i membri, anche se molto attivi per un periodo, potevano però assentarsi improvvisamente a causa di motivi personali, per poi, magari, ritornare. Altri venivano cooptati di volta in volta in virtù delle proprie competenze, quando c’era un lavoro da svolgere, ma non partecipavano alle riunioni. Fidarsi di questo informale comitato risultò ‘spontaneo’, perché era costituito dalle stesse persone che fino a pochi giorni prima si erano occupate della latteria o della sagra. Non solo la popolazione riconosceva il loro carisma, basato sul fatto di essere noti alla comunità e di conoscerla a loro volta, ma anche le istituzioni – dal sindaco ai carabinieri – non potevano fare a meno del loro appoggio.
La comunità, inoltre, mise in funzione anche i collegamenti esterni alle istituzioni. Accanto agli aiuti statali, che spesso impiegarono settimane ad arrivare, e che dovevano la loro efficacia alla distribuzione gestita dai comitati di tendopoli – gli unici in grado di evitare sprechi e accaparramenti –, iniziarono le spedizioni, particolarmente rapide e mirate, che viaggiavano lungo i collegamenti degli emigrati con conoscenti all’estero. Inoltre arrivarono i volontari, a volte organizzati in gruppi politici o religiosi (dagli Scout a Lotta continua) a volte in modo informale, sfruttando i rapporti personali. Anche loro si relazionarono con le tendopoli in cui piantavano spesso le proprie tende. Perfino l’esercito austriaco arrivò a Gemona il 7 maggio e, in assenza di un collegamento operativo con le istituzioni italiane, anche a causa della barriera linguistica, trovò il proprio contatto locale in un ex emigrante che conosceva la lingua tedesca, avendo trascorso oltre un decennio in Germania.
Come già osservato, in questa prima fase di emergenza, le amministrazioni locali non poterono che assecondare l’organizzazione che le tendopoli si stavano dando. Tra gli amministratori eletti e la popolazione si sviluppò un rapporto estremamente diretto e regolato dalle urgenze della mera sopravvivenza fisica. Riprendendo le parole degli antropologi che si sono occupati del terremoto friulano, necessario contrappunto analitico a un racconto sviluppato a partire dalle fonti basse (orali e cartacee) che rimandano il punto di vista della popolazione, si può osservare che:
in tempi normali il sistema socio-culturale può anche sviluppare norme, comportamenti, istituzioni, rituali, prodotti, del tutto ‘superflui’, con cui utilizzare surplus di tempo, energia e materiali; può “complessificarsi” senza limiti. La catastrofe seleziona drasticamente tutto questo e richiama l’uomo e la società ai suoi ‘prerequisiti funzionali’ di base. Improvvisamente, è chiaro che la società può sopravvivere solo se garantisce alle persone un minimo di cibo e di riparo dalle intemperie, e alle organizzazioni un adeguato flusso di comunicazioni e decisioni; è lampante che la società è un sistema basato su flussi di materia, di energia e di informazioni (Friuli: la prova del terremoto, 1978, pp. 136-37).
Chi in quel contesto era in grado di garantire i flussi di materia, energia e informazioni erano proprio i comitati di tendopoli. Nelle settimane successive, le istituzioni tentarono di riprendere in mano le proprie funzioni. A Gemona, sia l’amministrazione comunale, per ragioni dettate dalla opportunità di accentrare i servizi (acqua potabile, bagni, mense e quant’altro) sia l’esercito, per ragioni che si potrebbero definire di ‘mentalità operativa’, manifestarono la volontà di raggruppare le tendopoli, fino ad allora sparse nelle borgate, in poche aree (preferibilmente campi sportivi) più facili da recintare e controllare. La reazione dei terremotati fu decisa e fece, di nuovo, riferimento alla sopravvivenza, anche se di diverso genere: se prima si trattava di sopravvivenza individuale, ora a essere minacciata era la sopravvivenza della comunità e dei suoi atavici sistemi di auto-organizzazione. Se per primi gli allevatori rifiutarono di allontanarsi dai luoghi dove ancora tenevano il proprio bestiame, subito dopo l’intera popolazione rifiutò di abbandonare le proprie tendopoli autogestite a favore di quelle gestite dall’esercito e ‘militarizzate’, termine ricorrente tanto nelle interviste quanto nei documenti lasciati dai comitati. Allo stesso modo il tentativo di accentrare i volontari in un’unica tendopoli, e di sottrarli al controllo dei comitati per porli alle dipendenze dell’amministrazione comunale, venne avversato in ogni modo dai comitati e provocò una frattura all’interno della stessa maggioranza comunale.
I volontari erano divenuti un problema per le istituzioni, dal momento che, vivendo nelle tendopoli, oltre a fornire il proprio lavoro materiale (prima tra le macerie, poi nelle mense o dove fosse necessario), avevano iniziato a partecipare alla vita stessa dei comitati. Una volta superata l’iniziale diffidenza, dimostrando sul campo la propria capacità operativa, ma anche imparando la lingua locale – perché naturalmente le assemblee si tenevano in friulano –, essi venivano accettati nelle assemblee, portando il loro punto di vista esterno e generale sui problemi interni e particolari della comunità. Contro di loro si scatenò la repressione delle forze dell’ordine che, con le accuse di sciacallaggio e spaccio di droga, presero a distribuire con facilità fogli di via ai volontari. Di fronte a questo tentativo i comitati di borgata reagirono, negando alla polizia politica e ai carabinieri l’accesso alle tende, difendendole in quanto ‘domicilio’, respingendo le perquisizioni senza mandato, e rifiutando di consegnare la lista dei volontari attivi nella tendopoli.
Il punto di radicale rottura istituzionale si ebbe quando i comitati iniziarono a rilasciare ai propri volontari delle lettere che ne attestavano il ruolo e le mansioni all’interno delle tendopoli, dal momento che, per es., un volontario che si allontanava dal campo per trasportare merce su un camion rischiava di essere arrestato per il furto del mezzo e del materiale. Queste lettere si configurarono come un documento rilasciato da un organismo esterno allo Stato, gli informali comitati di tendopoli, e imposto alle forze dell’ordine.
All’opposto i rapporti furono tesi con i gruppi che arrivavano in zona, portando avanti dei progetti di intervento pensati altrove. Emblematico il caso di Comunione e liberazione, la cui azione, benché sostenuta da un discreto dispiegamento di risorse e continuità organizzativa, ebbe un carattere apertamente confessionale, essendo destinata a sostenere la ripresa delle attività nelle parrocchie, rifiutando ogni subordinazione ai locali comitati delle tendopoli e cercando il collegamento con singoli esponenti democristiani vicini all’associazione. Le più dure critiche a questa prassi arrivarono proprio dai cattolici locali, estremamente integrati nelle tendopoli, e dai sacerdoti attivi nel movimento dei terremotati, che non esitarono a etichettare l’associazione nata in Lombardia come ‘colonialista’. Non è difficile comprendere il fastidio provato dal clero locale, e localista, di fronte all’intromissione di questo gruppo che, oltretutto, tendeva a inserirsi in quelle parrocchie in cui il parroco aveva perso il polso della situazione dopo la catastrofe, perché colpito da lutti o traumi personali, oppure perché troppo anziano o incapace, per varie ragioni, di relazionarsi con i comitati. Completamente diverso l’intervento di un altro gruppo cattolico già radicato nel territorio, gli appartenenti all’Associazione guide e scout cattolici italiani (AGESCI), che scelsero di mettersi al servizio del coordinamento delle tendopoli, e di conseguenza furono ben accetti dal movimento dei terremotati.
Non è vano osservare il contenuto implicitamente rivoluzionario di una prassi come quella dei documenti rilasciati ai volontari. La rappresentazione di sé, che i testimoni dei comitati di tendopoli hanno dato, rifugge dall’esaltazione di qualsivoglia estetica rivoluzionaria. Il titolo di un volantino del 19 giugno 1976 era significativamente «Pa sopravivence, no pa l’anarchie», e tendeva a rimarcare che ogni contrapposizione alle istituzioni e ogni richiamo al diritto di «fare come hanno sempre fatto i nostri vecchi dopo ogni terremoto, guerra o invasione che abbiamo sofferto» non era dovuto a velleità sovversive, ma alla necessità di sopravvivenza (Londero 2008, p. 134). La campagna degli organi di stampa locali, vicini alla DC, evitò di dare notizie delle attività dei comitati di tendopoli, e quando non poté farne a meno presentò le proteste dei terremotati come il frutto dell’intervento di fantomatici ‘agitatori’ di estrema sinistra, che approfittavano della situazione. Interrogati in merito, i testimoni hanno giudicato ridicola tale versione, ma hanno anche sentito la necessità di giustificare quella che veniva percepita, principalmente da loro stessi, come una rottura della familiare immagine di friulano solido, onesto e lavoratore, attribuendo ogni atto di ribellione allo stato di emergenza. In altre regioni italiane le lotte operaie e contadine di inizio Novecento, e la stessa Resistenza, sono entrate a far parte di una memoria collettiva, come un patrimonio da rivendicare con fierezza, e hanno dischiuso le porte alla partecipazione civile attraverso partiti e sindacati. Nell’area terremotata, all’opposto, quando la situazione di emergenza minacciò la sopravvivenza della comunità, la reazione ‘spontanea’ non passò attraverso partiti, sindacati o amministrazioni locali ma attraverso meccanismi di difesa premoderni, simili alle antiche vicinie. La comunità che mise in atto questo sistema era la stessa che tendeva di solito, nei confronti del potere (politico, economico, religioso ecc.), a privilegiare il compromesso alla contrapposizione, adottando tattiche mimetiche. I contadini inquadrati nella Coldiretti sapevano di dover votare la DC, per ottenere tutta una serie di vantaggi dall’amministrazione regionale, ma nel momento dell’emergenza, quando furono minacciati altri e più profondi interessi, non fu al partito che rivolsero le proprie speranze, né, come si vedrà, a Comelli.
Finché i problemi rimasero circoscritti nei limiti della borgata, i terremotati si organizzarono nei propri comitati di tendopoli. Quando però la minaccia alla sopravvivenza giunse da qualcosa di esterno non mancò la capacità di estendere la propria rete oltre i confini della comunità. Già a metà maggio, superata la fase della prima emergenza, quando lo Stato si era ormai assestato e mirava a recuperare il proprio ruolo istituzionale, a Gemona si formò un Comitato di coordinamento delle tendopoli. Il 17 maggio 1976 uscì il primo numero del «Bollettino del coordinamento delle tendopoli», un foglio ciclostilato in una tenda, che per molte settimane fu l’unico media a circolare nei campi, e che per tutta l’estate uscì a intervalli irregolari di 2-3 giorni. Questo bollettino, curato in gran parte dal ‘giro’ della Scuola sociale, rappresenta una fonte di estremo interesse, riportando notizie dai campi, mozioni, annunci e altro ancora, ed è significativo che il primo numero si occupasse prevalentemente di problemi che, come anticipato, andavano al di là delle capacità di risoluzione delle singole comunità. Nei giorni precedenti all’uscita del primo numero si era arrivati a un punto di rottura con alcune bande di paramilitari fascisti giunti in loco per condurre autonominate ‘ronde antisciacallo’, tenendo posti di blocco nei pressi delle tendopoli. La presenza dei paramilitari, la cui denuncia alle forze dell’ordine è riportata dal «Bollettino», rappresentava, nella memoria dei testimoni, un ricordo poco chiaro, qualcosa che si conosceva, ma che non si era mai compresa pienamente (Londero 2008, p. 79). Una presenza ‘strana’ proprio perché andava al di là dei problemi di natura pratica e immediata, che i comitati di borgata avevano dovuto affrontare fino a quel momento, e che, per quanto gravosi, non li avevano colti impreparati. Il 16 maggio 1976 una di queste squadre, armate di accette e coltelli, aveva fermato alcuni terremotati a un posto di blocco, non lontano dalla loro tendopoli, e si può ipotizzare che proprio un fatto così grave ed estraneo alla vita della borgata, sia stato il casus belli che spinse a cercare soluzioni che andavano al di là della borgata stessa, dando il via allo strutturarsi del Comitato di coordinamento delle tendopoli.
Accanto alla denuncia dei paramilitari, il primo numero del «Bollettino» si occupò di un altro tema che per tutta l’estate rappresentò un motivo di rottura tra i comitati e l’amministrazione comunale: la gestione delle mense.
Teoricamente gestite dall’esercito, le mense, che in realtà funzionavano prevalentemente grazie al lavoro dei comitati, erano divenute il centro della vita delle tendopoli. Il dibattito con le istituzioni – prima l’amministrazione comunale e poi la regione e il commissario straordinario Giuseppe Zamberletti –, riguardo la gestione delle mense, rappresentò sempre uno dei punti di frizione più caldi, trovando ampio spazio nelle assemblee e nei documenti elaborati dai comitati. Questo servizio primario, in una situazione in cui gran parte della popolazione era ancora impossibilitata a cucinare, per la mancanza delle più elementari suppellettili – dal fuoco all’acqua, dalle pentole ai piatti, fino ai sistemi di conservazione del cibo deperibile –, si caratterizzò come un problema comunitario, forse più dell’alloggio, per il quale era relativamente più facile trovare soluzioni individuali. Anche perché per le mense bisognava trattare collettivamente con le istituzioni. Quando l’amministrazione comunale propose la chiusura delle mense di tendopoli, a favore di poche e accentrate strutture, la popolazione si sentì minacciata in uno dei principali momenti di coesione, e si oppose con ogni mezzo.
La rottura che ne derivò nacque da una profonda divergenza riguardo al modo di pensare l’esercizio della sovranità popolare. L’opinione di alcuni sindaci, indipendentemente dal loro colore politico, era che i comitati di tendopoli, pur necessari, dovessero porsi a disposizione delle amministrazioni e fare soltanto da cinghia di trasmissione di quelle direttive che spettava a loro stabilire, in quanto democraticamente eletti. Per alcuni sindaci i comitati recalcitranti non erano che covi di sovversivi senza alcuna legittimazione elettorale. All’opposto c’era la visione dei rapporti tra Stato e popolazione, espressa dalle comunità. Se in tempi normali lasciavano le istituzioni libere di «‘complessificarsi’ senza limiti», secondo la definizione antropologica già citata, in tempi di emergenza veniva alla luce tutta la loro estraneità a quel sistema, non troppo compreso e fondamentalmente estraneo, e riponevano la propria fiducia nei comitati, frutto delle proprie dinamiche interne. Ai loro occhi il comitato di tendopoli era il legittimo rappresentante della popolazione. Un elemento particolarmente interessante è emerso dall’analisi delle risposte dei testimoni, riguardo le elezioni tenute nei campi di Gemona, tra il 25 maggio e la metà di giugno 1976. Venne indetta il 23 maggio in una struttura pressurizzata, conosciuta come il cupolòn (cupolone), la prima assemblea generale delle popolazioni terremotate. La riunione, inizialmente autorizzata perché sottovalutata nella sua portata, venne in seguito boicottata dalle istituzioni con il ritiro dell’autorizzazione a usare il cupolòn e il dispiego di posti di blocco, che impedirono a molti terremotati dei paesi vicini di partecipare. Il sindaco, naturalmente invitato, rifiutò di legittimare l’assemblea con la sua presenza.
Due giorni dopo, nella tendopoli di Godo si tennero le prime elezioni del comitato, documentate dal «Bollettino del coordinamento delle tendopoli». Le carte disponibili attestano una partecipazione altissima, ben oltre gli analoghi dati di affluenza delle elezioni politiche del 20 giugno 1976 (nonostante la solerte installazione di numerosissimi seggi elettorali tra le macerie), e forniscono una lista di rappresentanti eletti, che furono poi i testimoni intervistati nella borgata. Tuttavia, il dato più interessante è stato scoprire che nessuno degli intervistati aveva conservato memoria dei risultati delle elezioni, anche quando avevano riguardato l’elezione dei ‘capotendopoli’. Proprio questa strana dimenticanza ha provocato una riflessione storiografica sul rapporto tra memoria, ricordo e fonti scritte. Presupponendo che la memoria selezioni tra i fatti accaduti quelli ritenuti più importanti, cosa che la fonte scritta non può fare, il confronto tra il ricordo vivido della partecipazione alla vita dei campi e la rimozione del risultato elettorale, ha permesso di comprendere come le elezioni non fossero andate a incidere in modo rilevante sulle modalità – tutte interne alla comunità – che formavano e rinnovavano quotidianamente il comitato, che, come osservato, era un gruppo mutevole e informale. Al contrario esse furono indette quale mossa politica nei confronti delle istituzioni, quale strumento di legittimazione nei confronti dell’amministrazione comunale. Poiché il sindaco fondava il proprio potere sulla delega elettorale ricevuta, i comitati risposero con una prassi di democrazia diretta, mettendo in discussione il principio stesso di delega. È interessante inoltre che nei mesi successivi, quando si iniziò a discutere delle modalità istituzionali della ricostruzione, i comitati si schierarono a favore del decentramento più ampio possibile e della massima valorizzazione del ruolo dei sindaci rispetto al governo nazionale e regionale. Tuttavia, tale richiesta non dipendeva dalla fiducia nei sindaci stessi, ma dalla constatazione, ben chiara nei verbali delle assemblee, che l’operato dei sindaci, rispetto a quello di istituzioni più lontane, fosse soggetto in modo più diretto al controllo dei comitati.
Nelle settimane successive elezioni simili sono documentate in tutti i campi del Gemonese, e in un caso esse servirono a respingere il tentativo del sindaco di imporre a una tendopoli i suoi uomini di fiducia. In quel campo le elezioni furono ripetute due volte con lo stesso risultato, e alla fine il sindaco dovette accettare l’esito a lui sfavorevole.
Il momento più emblematico dei rapporti tra popolazione terremotata e Regione Friuli Venezia-Giulia si ebbe il 16 luglio 1976, quando migliaia di friulani scesero in piazza a Trieste per manifestare di fronte alla sede del Consiglio regionale.
Il percorso che portò alla manifestazione è estremamente ben documentato, grazie agli articoli sul «Bollettino del coordinamento delle tendopoli» e ai verbali delle riunioni, e il suo ricordo è ben presente nella memoria dei testimoni.
Le assemblee generali al cupolòn diventarono una prassi consolidata, durante il mese di giugno, a cui non potevano più mancare sindaci e consiglieri regionali. Il Coordinamento delle tendopoli da Gemona si estese a tutta la zona terremotata, divenendo coordinamento dei paesi terremotati, con riunioni settimanali tenute a rotazione in paesi diversi.
Senza scendere nel dettaglio delle discussioni e delle vertenze promosse, si osserva che, una volta superata la fase iniziale dell’emergenza, che caratterizzò le prime settimane dopo il sisma, il Coordinamento delle tendopoli iniziò a denunciare un pesante clima di stagnazione, mentre la situazione nei campi si inaspriva. Dopo le facili speranze di una ricostruzione immediata, i comitati iniziarono a premere per la realizzazione di sistemazioni provvisorie più stabili, armonizzate al tessuto urbanistico preesistente e finalizzate al suo recupero integrale. La proposta di abbandonare la zona terremotata, in quanto sismicamente a rischio, con lo spostamento della popolazione verso una ‘grande Udine’ da sviluppare più a sud, sul modello del già citato comune di Vajont, scatenò una fiera opposizione, che mise in accordo amministratori locali e popolazione, e motivò ulteriormente i terremotati a rimanere nei pressi delle proprie case disastrate. Accanto alla difesa delle mense e dei volontari, si iniziò a discutere di sistemazione invernale, di leggi e di modelli di ricostruzione, e di conseguenza le amministrazioni locali smisero di essere il referente politico unico: l’attenzione si rivolse alla regione che venne individuata, e quindi riconosciuta, come il ganglio istituzionale su cui bisognava agire.
La decisione di indire una manifestazione venne presa nel corso di un’assemblea generale particolarmente affollata al cupolòn, il 3 luglio 1976, e l’esame delle modalità con cui la forma di protesta fu organizzata e svolta è illuminante dei rapporti dei terremotati con le istituzioni e, in particolare, con la regione.
Nelle riunioni precedenti, sia nelle assemblee generali sia in quelle di tendopoli, non era raro che intervenissero consiglieri comunali e locali. Cornelia Puppini (1928-2007), consigliere regionale del Movimento Friuli, partecipò il 29 giugno a una riunione a Godo, in cui affermò di voler portare in Consiglio regionale la voce delle tendopoli, mentre il comunista Arnaldo Baracetti (1931-2012), consigliere regionale da pochi giorni eletto al Parlamento, intervenne all’assemblea del 3 luglio. Tuttavia il movimento delle tendopoli non scelse di fare arrivare la propria voce in Consiglio regionale, delegandola agli organi rappresentativi costituzionali, e il prezzo che pagò per questa scelta fu una brusca rottura con partiti, sindacati ed enti locali.
L’assemblea generale aveva indicato la sede del Consiglio regionale a Trieste come obiettivo della manifestazione, e il 16 luglio come data. Il Comitato di coordinamento avrebbe dovuto occuparsi dell’organizzazione logistica, dalla stampa dei volantini alla prenotazione di un treno speciale da Gemona a Trieste, e in tal senso iniziò a operare. I problemi giunsero improvvisi il 10 luglio, durante una riunione del coordinamento tenutasi nella tendopoli di Trasaghis, nella quale emerse la volontà di partiti, sindacati e Comunità montana del Gemonese di spostare la manifestazione a Udine. I testimoni presenti alla riunione descrissero l’azione degli organi di rappresentanza istituzionale come una trama golpista, un atto premeditato teso a sabotare la volontà espressa dall’assemblea generale, tanto più grave perché attuato in maniera subdola.
In particolare i sindacati confederali avevano investito, nei mesi precedenti, parecchie risorse nell’area terremotata, istituendo Centri di assistenza fiscale (CAF) itineranti, che avevano dato supporto alla popolazione nelle pratiche per l’ottenimento dei primi finanziamenti e ogni altra necessità simile. Oltre a ciò avevano inviato sul territorio propri funzionari perché si attivassero nelle tendopoli. Questi sindacalisti, peraltro molto motivati e capaci, si erano integrati perfettamente nei comitati di tendopoli, e i testimoni raccontarono che fu un trauma scoprirli asserviti a logiche di potere, del tutto estranee al movimento dei terremotati. Quello che sindacati, partiti e amministratori volevano era una manifestazione nel capoluogo friulano, Udine, che li accreditasse come rappresentanti della popolazione di fronte al Consiglio regionale: a Trieste ci sarebbero andati loro con in tasca la delega del movimento delle tendopoli. In un clima pesante, ai limiti dello scontro fisico, i rappresentanti delle tendopoli difesero la mozione del 3 luglio, e rifiutarono ogni mediazione politica finché si giunse alla rottura. Partiti, sindacati e comunità montana alla fine annunciarono che avrebbero indetto una propria manifestazione a Udine nello stesso giorno.
Dopo la rottura di Trasaghis, secondo la testimonianza di un ferroviere, le Ferrovie dello Stato negarono il treno speciale, precedentemente promesso, a causa delle pressioni dei sindacati, e altrettanto fecero le agenzie a cui il coordinamento si rivolse per noleggiare corriere e pullman. Alla fine fu necessario contattare agenzie di viaggi fuori dalla regione, e molti altri atti attestarono la volontà di boicottare la manifestazione che, ciononostante, si tenne ugualmente.
Un dato rilevante che emerge dalle interviste è la consapevolezza dei membri del Coordinamento che, se in quella riunione a Trasaghis avessero mutato minimamente i dettami della mozione dell’assemblea generale del 3 luglio, avrebbero perso immediatamente ogni credito nelle tendopoli. Ci fu anche la consapevolezza che la popolazione li avrebbe seguiti solo in quella direzione e che avrebbe rifiutato, come fece, le manovre che portarono alla manifestazione di Udine, che – nonostante fosse stata organizzata dagli apparati di sindacati e partiti e che potesse contare sulla presenza in prima fila dei sindaci con i gonfaloni – non ebbe la partecipazione di quella di Trieste.
Con la creazione della Regione Friuli Venezia Giulia e l’assegnazione del ruolo di capoluogo a Trieste, l’ex porto asburgico venne a riassumere, agli occhi di molti friulani, due tipi di pregiudizi piuttosto radicati: quello che nasce dal rapporto tra una società rurale e la sua città di riferimento, e quello del mondo rurale premoderno verso il potere. In tal senso i racconti dei testimoni sono ricchi di spunti. Uno di loro ha raccontato del suo viaggio in auto, reso necessario dal fatto che le corriere noleggiate erano piene. Arrivato a Trieste parcheggiò l’auto – una FIAT schiacciata dal crollo del garage e riparata a martellate – in divieto di sosta, vicino alla stazione. Quando un vigile gli si avvicinò per fargliela spostare, lui rispose che l’avrebbe lasciata lì, perché lui era un terremotato, e, come raccontò con soddisfazione, guardò il vigile allontanarsi con la coda tra le gambe. Gran parte dei partecipanti alla manifestazione non aveva mai fatto nulla del genere e, ad anni di distanza, i testimoni intervistati sentivano ancora il bisogno di giustificare un atto simile, percepito non come il normale esercizio di un diritto civile, ma come ribellismo. È l’«emergenza», il poter dire «io sono un terremotato», a legittimare in loro la presenza in piazza e, soprattutto, l’aggressività programmatica e tattica della manifestazione. Inoltre c’è il rapporto con Trieste. Un testimone ha raccontato nel suo bel friulano: «noi eravamo tirati come cordini, per quello avevano paura, tutta la gente. Se c’era un cik veniva fuori il putiferio, andavano i triestini tutti in mare [...]. Gli abbiamo detto di tutto: ‘ladri!’. ‘Proverete a venire su in Carnia!’ gli gridavano. Li abbiamo impauriti, anche se vengono su di solito come padroni, vedevi pochi triestini in giro, erano tutti nascosti». A questo punto fu spontaneo chiedergli con chi ce l’avessero, e la risposta fu: «Con la Regione, è chiaro. Ma loro sono dentro e il Friuli non è nulla. Loro vivono da papa e hanno tutto e noi a roseâ la crodie», cioè ‘a rodere gli avanzi’ (Londero 2008, p. 222).
I pochi testimoni che avevano già vissuto l’esperienza di manifestazioni studentesche, sindacali o antimilitariste, hanno raccontato come cercarono di indirizzare la manifestazione verso percorsi politici, ovvero la dialettica con la regione, ma hanno ammesso di essere stati travolti da una manifestazione autenticamente popolare, con migliaia di partecipanti, che andavano dalle vecchie con lo scialle nero ai bambini delle scuole elementari con le proprie maestre, e che proprio questi uomini e donne comuni correvano il rischio di lasciarsi andare ad atti inconsulti. La manifestazione partì dalla stazione e sfilò fino a piazza Oberdan, dove i manifestanti chiesero un incontro con Comelli, il presidente della regione, e, a fronte del suo diniego, occuparono la vicina sede della RAI regionale, imponendo la lettura di un comunicato che lamentava il totale disinteresse dei media pubblici verso il movimento dei terremotati e illustrava la mozione che intendevano consegnare al Consiglio regionale. Come già osservato, l’‘emergenza’ stava legittimando metodi particolarmente aggressivi e oltre la legalità, e alla fine Comelli dovette cedere. Ancora una volta nei racconti dei testimoni non c’è autocompiacimento, frutto di un’estetica rivoluzionaria, anzi, c’è il bisogno di chiarire che si è trattato di qualcosa di eccezionale. Eppure, nelle testimonianze degli intervistati, se spinti dall’intervistatore a ragionare sulle radicali modalità della protesta, riemerge il termine ‘spontaneità’. La rottura con le amministrazioni locali e con le forme costituzionali di espressione del dissenso, nonché la ricerca di un rapporto diretto con il potere, con un gesto in grado di rompere il vecchio rapporto di sudditanza per impostare una trattativa da una posizione di forza, non sono il frutto di una elaborazione ideologica, quanto, piuttosto, di un profondo sentire collettivo.
Nel ricordo dei testimoni il ‘potente’ Comelli, che si sapeva essere legato alla Coldiretti e alla DC, era impaurito, ‘bianco cadaverico’, mentre la popolazione, poco prima depressa, a causa del riferito clima di stagnazione, era euforica e consapevole della propria forza. Senza contare che, da un punto di vista politico, l’incontro dei rappresentanti dei terremotati con il presidente della regione e i capigruppo consiliari fu un grosso risultato, poiché costringeva i politici a riconoscere il movimento quale interlocutore. Un riconoscimento non concesso dall’alto, dunque, ma ottenuto con un atto di forza, e che non prevedeva alcuna identificazione tra regione e popolazione, visto che i loro ‘veri’ rappresentanti non erano quelli eletti nel Consiglio regionale, ma quelli espressi dalle tendopoli.
Lo studio fondato sulle fonti orali e sulle carte lasciate dal movimento dei terremotati ha permesso di problematizzare i rapporti tra popolazione e istituzione regionale in modo più efficace di quanto fatto in passato. Una lettura piuttosto persistente tende a minimizzare l’esperienza dei comitati di tendopoli, escludendola dalle commemorazioni ufficiali che, invece, esaltano il ruolo dei sindaci, del commissario straordinario e della regione, arrivando a sostenere, in modo abbastanza incauto, che «è opinione diffusa che gli eventi sismici del 1976 rappresentino l’elemento chiave nell’identificazione della popolazione con l’istituzione Regione» (Degrassi, in Storia d’Italia, 2002, p. 782). È questa un’affermazione alquanto frettolosa, perché se è vero che in qualche modo i friulani scoprirono il ruolo politico esercitato dalla regione, fino ad allora probabilmente ignorato dai più, è altrettanto vero che, esaminando la forte avversione della popolazione alle forme di partecipazione costituzionali – in primis il rifiuto di delegare ai politici regionali la difesa dei propri interessi –, è emerso un rapporto molto più simile a un profondo senso di estraneità che alla ‘identificazione’. Di ciò è riprova anche l’incapacità, o la non volontà, del Coordinamento delle tendopoli di tradursi in movimento politico interno alle istituzioni. Quando, negli anni della ricostruzione, alcuni delegati delle tendopoli scelsero di impegnarsi politicamente, formando raggruppamenti locali, ispirati all’eredità del movimento delle tendopoli, ottennero scarsi risultati, mentre la DC, Comelli e i sindaci vennero di nuovo premiati. Inoltre, va osservato che, già nel mese di agosto del 1976, la regione perse anche il ruolo di referente polemico a favore del commissario straordinario e del governo nazionale, come dimostrato dalla dura contestazione contro il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti (1919-2013), nel seguente mese di agosto, e da altre azioni del genere.
Altri tendono a liquidare le vertenze del movimento come il frutto di paure irrazionali, che spinsero la popolazione a proteste irragionevoli determinate dalla frustrazione dell’irrealizzabile proposito di passare ‘dalle tende alle case’ (Putnam, Leonardi, Nanetti, in La Regione Friuli-Venezia Giulia, 1987). Una lettura che risente, probabilmente, di un eccesso di fiducia nelle fonti ufficiali, quotidiani inclusi, che si esprimono in tal senso, ignorando del tutto il dibattito interno al movimento. La mozione che animò la manifestazione del 16 luglio 1976, tra i sette punti proposti, invocava con chiarezza l’elaborazione di un piano per l’installazione dei prefabbricati, necessari alla sistemazione provvisoria, e si limitava a pretendere di avere voce in capitolo per decidere la loro dislocazione, affinché venisse salvaguardato il tessuto urbano preesistente. La comprensione dell’impossibilità di una ricostruzione immediata e, di conseguenza, della necessità di una sistemazione provvisoria, è documentabile a partire dalle assemblee generali di fine maggio.
L’eredità politica dei comitati è rimasta un’eredità indigesta per tutti gli schieramenti politici, e ciò ne ha comportato la quasi completa damnatio memoriae da parte delle istituzioni, nonostante la ricostruzione friulana abbia trovato la propria radice più resistente proprio nelle lotte di quei mesi, determinanti per la ‘sopravvivenza’ del tessuto sociale e urbanistico dei paesi distrutti.
Friuli: la prova del terremoto, a cura di R. Strassoldo, B. Cattarinussi, Milano 1978.
C. Tullio-Altan, Tradizione e modernizzazione. Proposta per un programma di ricerca sulla realtà del Friuli, Udine 1981.
F. Salimbeni, G.I. Ascoli e la Venezia-Giulia, «Quaderni giuliani di storia», 1980, 1, pp. 52-68.
F. Ulliana, Tornare con la gente. Clero e identità friulana, Udine 1982.
M. Puppini, Terremoto e «modello friulano», «Quale storia», 1982, 2, pp. 75-88.
G. D’Aronco, Friuli, regione mai nata. Venti anni di lotte per l’autonomia, 1945-1964, 3 voll., Udine 1983.
La Regione Friuli-Venezia Giulia: profilo storico giuridico tracciato in occasione del 20° anniversario dell’istituzione della Regione, a cura di A. Agnelli, S. Bartole, Bologna 1987 (in partic. A. Agnelli, Il Friuli-Venezia Giulia dalla resistenza allo Statuto speciale, pp. 21-57; M. Bertolissi, La Regione Friuli-Venezia Giulia dalla Costituente allo Statuto, pp. 59-103; F. Luzzi Conti, La proposta di Regione nel Friuli tra il 1945 e il 1947, pp. 143-67; A.M. Preziosi, Udine e il Friuli dal tramonto dell’Italia liberale all’avvento del fascismo: le aspirazioni autonomistiche di Girardini, Pisenti e Spezzotti, pp. 105-41; M. Duranti, Gorizia tra autonomismo ed anti;autonomismo, pp. 169-88; R.D. Putnam, R. Leonardi, R.Y. Nanetti, Indagini sul governo regionale del Friuli-Venezia Giulia, pp. 499-522).
S. Di Giusto, La stampa nazionalista friulana nel dibattito sull’autonomia regionale, 1945-1947, «Qualestoria», 1996, 2, pp. 164-203.
S. Barbacetto, ‘Tanto al ricco quanto al povero’ - Proprietà collettive ed usi civici in Carnia tra Antico regime ed età contemporanea, Udine 2000.
M. Ermacora, Documents pa storie dai furlans tal taramot dal 1976 - Guide al Archivi Gubiani inte Biblioteche comunâl ‘Don Valentino Baldissera’ di Glemone, Gemona 2000.
Storia d’Italia, coord. R. Romano, C. Vivanti, Le regioni dall’Unità a oggi. Il Friuli Venezia Giulia, a cura di R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli, Torino 2002 (in partic. G. Valdevit, Dalla crisi del dopoguerra alla stabilizzazione politica e istituzionale, pp. 581-662; M. Degrassi, L’ultima delle regioni a statuto speciale, pp. 759-884).
I. Londero, Pa sopravivence, no pa l’anarchie. Forme di autogestione nel Friuli terremotato: l’esperienza della tendopoli di Godo (Gemona del Friuli), Udine 2008.