PELLEGRINI, Ignazio Mariano Baldassarre
PELLEGRINI, Ignazio Mariano Baldassarre. – Nacque a Verona il 22 settembre 1715, quartogenito maschio e sesto figlio del conte Bertoldo Pellegrini e della contessa Giulia Serego.
Ebbe nove fratelli e sorelle. Sposò a Pisa, in data imprecisata, Lucrezia del Lante, con la quale ebbe due figli, Giulio ed Elisabetta (Archivio Pellegrini). Dedita principalmente alle arti militari, la famiglia dei conti Pellegrini era di origine tedesca e si attesta la sua presenza a Verona fin da prima della signoria scaligera (Dal Forno, 1973).
Attualmente la famiglia è stabilita presso villa Pellegrini-Cipolla a Castion Veronese, dove viene conservato anche il prezioso archivio familiare.
Compiuta la sua prima educazione in famiglia, nel 1726, all’età di undici anni, grazie alla buona parola del marchese Scipione Maffei, Pellegrini divenne paggio d’onore alla corte di Toscana presso la principessa Violante Beatrice di Baviera. Egli dimostrò subito la sua propensione per le arti militari, ma manifestò anche grande interesse per l’architettura sia civile sia militare; il suo primo maestro fu Alessandro Sale. Trovandosi in una città adorna di bellissime fabbriche del Cinquecento, dapprima si applicò alla loro copia e in seguito iniziò a disegnare i suoi primi progetti. Secondo quanto egli stesso afferma, fece un viaggio di studio a Roma, dove poté ammirare quanto «vi era di più bello sì nell’antico che nel moderno, dove assistito dai buoni principj imparò a detestare le tanto varie produzioni del secolo passato e del presente» (Giuliari Serego, 1846, p. 6). Nel 1731 Violante di Baviera morì e Pellegrini dovette tornare a Verona, ma, appena partito da Firenze, ebbe un incidente con la sua carrozza e il granduca Giovan Gastone de’ Medici insistette affinché si rimettesse in salute presso la sua corte. Due mesi dopo, sollecitato dalla famiglia a tornarsene a Verona, chiese congedo al granduca, il quale, per trattenerlo, gli offrì la possibilità di impegnarlo nelle sue truppe; tuttavia Pellegrini rifiutò perché era suo desiderio combattere nell’esercito austriaco accanto al fratello maggiore Federico.
Tornato a Verona, si dedicò allo studio dell’architettura civile e all’analisi «delle tante belle opere dei più eccellenti architetti che fiorirono nel secolo buono» (Giuliari Serego, 1846, p. 9) che si trovavano a Verona, Venezia e in altre città della terraferma. Nel 1733, durante la guerra di secessione polacca (1733-38), Ignazio e Federico Pellegrini combatterono tra l’Italia e i Balcani nelle file dell’esercito austriaco, e fu in questi anni che Ignazio iniziò lo studio delle fortificazioni militari. Successivamente divenne volontario presso il reggimento dei veterani di stanza in Italia, dove dimostrò il suo valore nel corso di varie battaglie. Nel 1736, stanziato a Ferrara con il suo reggimento, Pellegrini venne incaricato di uno dei suoi primi progetti architettonici, la facciata della chiesa della Beata Vergine a Corte Maggiore. Negli anni seguenti combatté in Lombardia e, una volta terminate le ostilità, chiese e ottenne di essere trasferito alla corte del granduca Giovan Gastone de’ Medici. Le notizie sono estremamente lacunose fino al 1753, quando, a Firenze, Pellegrini venne nominato capitano della cavalleria toscana.
Negli anni a venire ottenne diversi riconoscimenti in ambito militare: nel 1759 divenne maggiore del reggimento dei Dragoni, nel 1765 fu nominato ciambellano di corte, nel 1767 tenente colonnello del reggimento del granduca, e nel 1769 colonnello del reggimento reale di Toscana.
Gli anni trascorsi alla corte granducale toscana coincisero con l’apice della carriera di architetto dell’artista, che divenne ben presto ingegnere granducale. Dapprima si impegnò nel completamento di Palazzo Pitti, e vari disegni – purtroppo perduti negli anni Sessanta del Novecento – illustravano le sue grandi e ricche idee. Un primo progetto, realizzato tra il 1764 e il 1766, comprendeva i due rondò (da sempre attribuiti a Giuseppe Ruggieri, grande antagonista dell’architetto veronese a Firenze, nonché direttore delle Reali Fabbriche), la sistemazione della parte bassa della collina di Boboli, la piazza antistante alla grotta di Bernardo Buontalenti e il grande viale d’accesso all’anfiteatro di Boboli e alla fontana del Carciofo con annessi muri di sostegno. Un secondo progetto comprendeva una scuderia con cavallerizza coperta, un teatro nel quale si poteva giocare a pallacorda e avente una rimessa, una stanza per una guardia a cavallo, il tutto annesso e comunicante con Palazzo Pitti (Chiarelli, 1956, p. 167). Secondo lo studioso Renzo Chiarelli, il progetto di questo teatro per Palazzo Pitti risultava chiaramente ispirato al teatro Filarmonico di Verona, costruito da Francesco Bibiena nel 1716. Nel 1779 un teatro della Pallacorda venne effettivamente costruito a Palazzo Pitti, ma vi sono molti dubbi che esso sia stato realizzato in base al progetto di Pellegrini, a quel tempo già ritornato a Verona.
La mano dell’architetto granducale è stata riconosciuta a Pitti anche nel progetto del Gabinetto Reale del 1764, che a oggi è identificabile con il delizioso spazio ovale, con decorazioni rococò, divenuto poi il boudoir della regina Margherita di Savoia (Chiarelli, 1977, p. 600).
L’ultimo, ma forse più importante e travagliato progetto per Pitti dell’ingegnere granducale in quegli anni fu la Cappella Reale.
Collocata a nord di Palazzo Pitti, nella nuova ampia spianata vicina all’entrata del giardino di Boboli (lato Arno), e collegata al palazzo mediante due corpi di fabbrica, la Cappella Reale avrebbe dovuto sorgere imponente, a pianta ellittica sormontata da una cupola, circondata da cappelle, gallerie, balaustrata, scalinate e deambulatori, in un turbinio di linee concave e convesse, chiaroscuro e movimento. Attraverso numerosi dettagli, il progetto richiamava la Verona di Michele Sanmicheli, la Venezia di Andrea Palladio con la chiesa del Redentore (1577) e di Giovanni Scalfarotto con la chiesa di S. Simeon Piccolo (1730-38), ma anche la Roma di Francesco Cipriani da Volterra con la chiesa di S. Giacomo degli Incurabili (fine Cinquecento).
I lavori iniziarono nel 1763, ma non continuarono a lungo a seguito della morte del granduca Francesco I di Lorena nel medesimo anno, e dell’insediamento di Pietro Leopoldo, il quale fece interrompere i lavori a causa delle ingenti spese economiche. Nel frattempo, gli architetti Giuseppe Ruggieri e Niccolò Gaspero Paoletti presentarono un ‘nuovo’ progetto per la cappella, proponendo di riadattare a questo uso il Salone di Apollo, situato sul lato opposto del palazzo: il grande risparmio prospettato al granduca da questa soluzione lo convinse a sospendere i lavori definitivamente. Immensamente deluso e rammaricato dal sorgere della nuova cappella, Pellegrini supplicò inutilmente il granduca affinché i lavori riprendessero e chiese in seguito un risarcimento per la mancata esecuzione.
Una sorte del tutto simile toccò al progetto della scala monumentale degli Uffizi, anch’essa non realizzata, ideata da Pellegrini a seguito dell’incendio del 1762 che aveva danneggiato seriamente il tratto di ponente, dalla Loggia dell’Orcagna sino a via Lambertesca.
Il progetto, anch’esso documentato da numerosi studi e disegni perduti, prevedeva uno scalone circolare a tromba aperta che, in un armonioso sviluppo di spirali, accompagnato da una balaustrata sobria ed elegante, ornata di statue, avrebbe condotto l’ospite alla Galleria attraverso un’entrata solenne e grandiosa. La scala sarebbe terminata in una cupola con lanterna, impostata su un tamburo ornato da finestre con timpano che riprendevano il disegno della facciata. Questa scala è stata definita «una ripresa dello stile manierista toscano che tanto il Pellegrini amava: un rigoroso geometrismo fatto di linee curve e spezzate, unito al gioco dei particolari e al disegno dei gradini di derivazione buontalentiana» (Chiarelli, 1966b, p. 5).
Per chiudere il periodo degli sfortunati progetti fiorentini di Pellegrini, si ricorda lo studio per la sistemazione del Ponte Vecchio e delle sue botteghe, anch’esso non eseguito e poi perduto.
Nei dieci anni a seguire, Pellegrini mantenne la carica di ingegnere granducale, ma si occupò di altri progetti nel resto della Toscana. A Pisa curò la realizzazione della facciata della chiesa dei Galletti, le chiese di S. Marta e delle Monache Convertite, dei palazzi Ruschi, Pesciolini e Guidi, delle case Ricciardi, Franceschi, Aulla, Vitali e Da Paule, della piazza di Mercato, delle Scuderie del corpo dei Dragoni e la tomba del marchese Carlo Stampa; oltre ai famosi progetti per i Bagni di S. Giuliano. A Livorno costruì l’altare maggiore della chiesa degli Armeni e il cimitero dei Greci Disuniti fuori di Porta Pisa, al quale probabilmente si ispirò Giuseppe Barbieri per la costruzione del Cimitero monumentale di Verona.
Nel 1776 Pellegrini tornò stabilmente a Verona, abbandonando inoltre tutti i suoi impegni militari. L’ormai sessantunenne architetto si dedicò alla stesura di un trattato di Storia della architettura, scultura e pittura, unito in un solo manoscritto con la Vita del medesimo scritta da se stesso, la sua autobiografia, non terminata, principalmente incentrata sulla sua carriera militare prima del trasferimento a Firenze del 1753. Una seconda e più ambiziosa opera, intitolata Storia delle arti del disegno, composta da ben quattro volumi divisi per periodi, dal Diluvio fino al Seicento, rimase ugualmente incompiuta.
Nonostante il suo definirsi votato ai linguaggi architettonici del Cinquecento veneziano, dai suoi scritti emerge una sensibilità più vicina ai linguaggi storici fiorentini e romani.
In terra veronese Pellegrini si adoperò esclusivamente nella ricostruzione e ristrutturazione di fabbriche, soprattutto appartenenti a importanti famiglie legate alla sua cerchia familiare, probabilmente perché ritenuto personaggio affascinante e di rilievo internazionale, sicura garanzia per un risultato originale e all’avanguardia nell’ambito della renovatio che interessò Verona durante il Settecento. Il primo lavoro nel quale Pellegrini si trovò coinvolto fu la ricostruzione di palazzo Giuliari nel 1779, in vista del matrimonio fra il nipote Bartolomeo Giuliari e Isotta dal Pozzo, che si celebrò nel 1784. Lo stabile, risalente al Cinquecento, non doveva essere alterato, ma semplicemente aggiornato al nuovo gusto neoclassico e adattato alle nuove funzioni pubbliche della famiglia e non ultimo alle esigenze dei novelli sposi. L’architetto suggerì anche il prolungamento del prospetto principale, aggiungendovi altre due stanze di vaste dimensioni, ma il progetto non venne realizzato. L’opera di Pellegrini si identifica principalmente con la costruzione del sontuoso scalone d’ingresso, di cui, nella Biblioteca civica di Verona, sono conservati i disegni progettuali.
Introdotto da un ampio atrio, lo scalone a tre rampe è immerso in un ambiente classicheggiante, con la prima rampa al centro di due edicole fiancheggiate da porte sormontate da timpani, e le seconde rampe accompagnate da una balaustrata aperta, impreziosita da quattro statue di putti. Questo scalone scenografico, e scarsamente aderente ai canoni architettonici veronesi del momento, qualificò la famiglia come aperta e anticipatrice di nuovi linguaggi culturali ‘internazionali’ (Olivato, 2009, pp. 115 s.), e ripropone in scala ridotta alcuni elementi del progetto non eseguito per gli Uffizi.
Altra opera di Pellegrini a Verona fu il riassetto di palazzo Emilei (1780), che comprese l’ampliamento dello stabile, la costruzione di una nuova facciata e vari interventi decorativi per adeguare l’edificio alle esigenze degli illustri proprietari.
Molto innovativo è da considerarsi il doppio portone d’ingresso, che mette in risalto la facciata; gli interni sono invece meno magnificenti rispetto a quelli di Palazzo Giuliari (Olivato, 2012, pp. 103-106).
Nel 1788, nonostante la veneranda età, Pellegrini accompagnò il nipote Bartolomeo Giuliari in viaggio di studio tra Firenze, Roma, Napoli, Pompei e diversi altri centri minori, desideroso di insegnare al nipote i canoni della buona architettura (Conforti, 2001, p. 781).
Pellegrini morì il 2 ottobre 1790 a Verona e venne sepolto nella celebre cappella di famiglia, opera di Michele Sanmicheli, nella chiesa di S. Bernardino.
Fonti e Bibl.: Castion Veronese (Verona), Archivio dei conti Pellegrini; Verona, Biblioteca civica, ms. 1457: I. P., Storia delle arti del disegno; ms. 1499: I. P., Storia della architettura, scultura e pittura… e Vita del medesimo scritta da se stesso; ms. 1756: Notizie per facilitare dalla loro diversa struttura la cognizione da poter giudicare dei tempi nei quali molte fabriche sacre e profane siano state edificate in Verona; ms. 1775: I. P., Progetti.
G. Marini, Indicazioni delle chiese, pitture e fabbriche della città di Verona, Verona 1797, pp. 6 s., 32, 44 s.; B. Giuliari, Cappella della famiglia Pellegrini esistente nella chiesa di S. Bernardino di Verona, architettura di Michele Sanmicheli […], Verona 1816; G.B. da Persico, Descrizione di Verona e della sua provincia, Verona 1820-21, I, pp. 116-119; Id. Descrizione di Verona e della sua provincia, Verona 1820-21, II, pp. 18, 234; G.B. Giuliari Serego, Vita del conte I. P. veronese, colonnello e ingegnere del Gran Duca di Toscana, scritta da lui stesso, frammento cavato da un suo autografo, Verona 1846, passim; G.M. Rossi, Nuova guida di Verona e della sua provincia, Verona 1854, pp. 186, 222, 307; G. Biadego, Catalogo dei manoscritti della Biblioteca comunale di Verona, Verona 1892, p. 441; O. Pellegrini, Cenni storici sulla famiglia Pellegrini di Verona, Verona 1949; R. Chiarelli, Anticipazioni su I. P. architetto, in Rivista d’arte, XXXI (1956), pp. 157-186; N. Bemporad, Una soluzione parziale per il riordinamento degli Uffizi: la scala 4, in Bollettino d’arte, II (1964), pp. 174-181; A.R. Masetti, Pisa, storia urbana, Pisa 1964, pp. 12, 59 s., 74; R. Chiarelli, Un architetto veronese alla corte di Toscana, in Vita veronese, XVIII (1965a), pp. 17-19; Id., Per un riassetto degli Uffizi. Alla ribalta una scala del ’700, in La Nazione, 4 agosto 1965b, p. 11; G. Casini, Architetture pisane di I. P., in Rassegna periodica di informazioni del Comune di Pisa, II (1966), 8, pp. 59-63; R. Chiarelli, Architetture pisane di I. P. (1715-1790), Pisa 1966a; Id., Architetture fiorentine e toscane di I. P. (1715-1790), Roma 1966b; F. Dal Forno, Case e palazzi di Verona, Verona, 1973, pp. 27-29; G.F. Viviani, La villa nel veronese, Verona 1975, pp. 128, 196, 333-343, 360-362, 418-422, 594-598; R. Chiarelli, Aggiunte a I. P.: la sistemazione architettonica del Ponte Vecchio e il ‘Gabinetto ovale’ di Palazzo Pitti, in Scritti di storia dell’arte in onore di Ugo Procacci, Milano, 1977, II, pp. 598-613; C. Cresti, La Toscana dei Lorena. Politica del territorio e architettura, Cinisello Balsamo, 1987, pp. 10-66; L’architettura a Verona nell’età della Serenissima (sec. XV-sec. XVIII), a cura di P. Brugnoli - A. Sandrini, Verona 1988 (in partic. A. Sandrini, Il Settecento: tendenze rigoriste e anticipi ‘neoclassici’, pp. 261-346; R. Chiarelli, I. P., pp. 306-318); R. Chiarelli, La villa Pullè e I. P., in La presenza dell’oblio. Atti del Convegno e catalogo della mostra grafico-fotografica relativa alla villa Pullè al Chievo di Verona, a cura di R. Cecchini, Verona 1989, pp. 35-39; G. Conforti, Giuliari, Bartolomeo, in Dizionario biografico degli Italiani, LVI, Roma 2001, pp. 781-785; A. Contini - O. Gori, Dentro la reggia: Palazzo Pitti e Boboli nel Settecento, Firenze 2004, pp. 25-27; L. Olivato, Palazzo Giuliari nel Settecento. La ricostruzione, in Ead. - G.M. Varanini, Palazzo Giuliari a Verona. Da residenza patrizia a sede universitaria, Somma-campagna 2009, pp. 105-140; L. Olivato, 1780: l’intervento di I. P., ‘restauratore della buona architettura’, in Ead. - G. Ruffo, Il palazzo e la città. Le vicende di palazzo Emilei Forti a Verona, Sommacampagna 2012, pp. 97-109.