CAPIZZI, Ignazio
Nacque a Bronte (Catania) il 20sett. 1708 da Placido, mandriano, e Vincenza Cusmano, filatrice domestica. Rimasto orfano in tenera età, visse per qualche tempo presso uno zio paterno condividendone la vita da pastore, finché la madre, perso il primogenito (i fratelli erano quattro), lo volle vicino a sé perché le fosse di aiuto. Così, a dieci anni, egli poté avere anche i primi rudimenti scolastici sotto la guida del sacerdote Mario Franzone; in seguito studiò grammatica e latino con un altro prete, Pietro Politi. La madre, notato il suo fervore religioso, desiderava destinarlo al sacerdozio e, per il momento vestitolo di un abito clericale, lo mandò a fare il sagrestano per un compenso mensile che gli consentiva di pagarsi un precettore. Poi, mancando in Bronte la scuola di belle lettere, la madre con notevoli sacrifici lo inviò a Caltagirone, ma un peggioramento delle sue condizioni economiche la costrinse a richiamare a sé il figlio il quale, pur ricevendo la tonsura e i quattro ordini minori dall'arcivescovo di Messina, per poter far fronte al proprio sostentamento divenne garzone di farmacia.
Proprio in questo periodo di tempo venne a mancare un paggio al vescovado di Lipari e a tal mansione fu destinato il giovane C. che, prima di ubbidire, "diede sembianza del massimo disgusto" (Agnello, p. 10) per quell'occupazione ritenuta servile e che, secondo lui, sminuiva la dignità sacerdotale. Qui il vescovo P. V. Platamone gli fece compiere tre anni di filosofia sotto la guida del p. Domenico Licata, che lo avviò in seguito allo studio della dommatica e della teologia morale. Ma la sua indole schiva e improntata a rozzezza urtava il vescovo, il quale lo costrinse a "sofferire tuttodì pungentissimi motti e mordaci parole, di rustichezza accusandolo" e infine concretizzò tale ostilità nell'impedirgli il proseguimento degli studi teologici. Non piegato da tali contrarietà e deciso a farsi prete, il C. riuscì a compiere un altro anno di teologia e con enormi sacrifici della madre e dei parenti gli venne costituito il "patrimonio sacro". Poi, di fronte al reciso rifiuto del Platamone, munito di un attestato di studi rilasciatogli dal p. Licata, su consiglio di questo si recò a Roma per chiedere al card. Cienfuegos, arcivescovo di Monreale, l'esenzione dall'internato nel seminario, data la sua estrema povertà. Ma il porporato non volle neppure riceverlo e lo mandò dal proprio vicario mons. de Oloriz, poi vescovo di Tagaste, che gli oppose un secco diniego. Benché frattanto fosse morto mons. Platamone (1733) che lo aveva fortemente osteggiato, il C., invece di persistere nella richiesta del sacerdozio, si diede allo studio e alla pratica della medicina con il dottor Pietro Sicardi prodigandosi per gli ammalati e conducendo una vita di stenti. Ma finalmente trovò la via giusta per avviarsi all'ordinazione sacerdotale sotto la guida del gesuita A. Tedeschi, suo confessore, che, indirizzatolo al collegio Massimo di Palermo, gli consentì di proseguire gli studi e di raggiungere nel 1734 il suddiaconato e il 17 dic. 1735 il diaconato. Con instancabile ostinazione, facendo la spola tra Palermo e Monreale, il C. chiese ancora con insistenza l'ordinazione sacerdotale a mons. de Oloriz, suffraganeo della diocesi monregalese, il quale, sempre più convinto del suo scarso equilibrio, giunse perfino a cacciarlo via con male parole. Per consiglio del padre Tedeschi il C. frequentò allora la Congregazione di Maria Santissima del Fervore, ne divenne confratello e, due mesi dopo, il 26 maggio 1736, riuscì nel sospirato intento di ottenere l'ordinazione sacra. Da allora si dedicò in special modo alla predicazione e alla organizzazione degli esercizi spirituali secondo le regole di s. Ignazio, ma portando alle estreme conseguenze le modalità devozionali introdotte dai gesuiti.
Nel 1747 fondò un collegio femminile grazie alle elemosine raccolte da un gran numero di benefattori e "un immenso stuolo di ragazze di ogni ceto e condizione vi concorse". Nel 1750 si recò a Roma per il giubileo e ottenne di baciare il piede di Benedetto XIV. Nel marzo 1761 il C. venne nominato direttore del collegio delle Sorelle di Maria della Sapienza, che nel 1766, per le feroci critiche di un sacerdote circa i suoi criteri di conduzione, dovette abbandonare per rifugiarsi nel monastero di S. Basilio Magno a Palermo. Nel marzo di quello stesso anno predicò i soliti esercizi spirituali alla presenza del viceré il quale, colpito dalla personalità del C., voleva proporlo al re come canonico della cattedrale di Palermo e, una volta avvenuta tale nomina, affidargli "la sopraintendenza generale di tutti gli affari economici e spirituali del grande e nuovo Spedale"; ma il C., ritenendosi inadatto per l'umiltà dei propri natali e ignoranza ad un compito tanto alto, convinse il viceré ad abbandonare il progetto. Qualche giorno dopo, per volere del viceré rientrò al collegio delle Sorelle di Maria della Sapienza. Il 13 apr. 1768 la Congregazione del Fervore lo nominò ancora prefetto e nell'agosto del 1771 gli rinnovò tale incarico. La vigilia dell'Ascensione del 1769 andò ad abitare presso i religiosi di s. Filippo Neri e il 29 dicembre dello stesso anno, proprio in osservanza alla regola di quel santo, dovette rinunciare alla direzione spirituale del collegio di Maria della Sapienza, al quale aveva procurato, durante la sua gestione, ben 32.000 scudi ricevuti in elemosine. Nel 1773 pubblicò a Palermo un libretto intitolato Relazione alle sacre monache di Palermo di una pittura delineata in rame,rappresentante l'ammirabile,il perenne,l'universale frutto del divino Eucaristico Sacrificio e nel 1775 il Lavoro della grazia in convertire il peccatore. Nel 1784 fu dato alle stampe, postumo, un volume del C. contenente sessantasei colloqui con Gesù ispiratigli da un'immagine del Cristo.
Nelle regole scritte per sé e per i suoi confessori (Agnello, pp. 80 ss.), nelle quali più che un rozzo rigorismo programmatico si riflette la sua distorta visione della realtà prescindente da ogni elementare conoscenza dell'animo umano, si legge che "deve il Confessore mostrarsi sobrio e grave e non affabile, anzi aspro e rigoroso nel trattare per non dare adito alla confidenza". Inoltre, seguendo grossolane teorie fisiologiche acquisite con i suoi superficiali studi di medicina, il C. sostiene che non bisogna mai confessare dopo pranzo, non solo perché i demoni meridiani sono i più forti e proprio in quel periodo trovano il corpo dispostissimo al male, ma anche perché "tutti gli spiriti concorrono al capo e si distraggono dal ventricolo, non si digerisce, si vizia lo stommaco ed il sangue ...". Idee di tal genere egli ebbe modo di illustrare anche nel 1751, allorquando, sudato dopo una predica, bevve sette bicchieri d'acqua gelata, spiegando ai confratelli stupiti che era per lui indispensabile che il gelido liquido arrivasse fino all'orificio del ventricolo, affinché poi, diramandosi per tutto il corpo, rinfrescasse in qualche modo la massa del sangue che sempre gli ribolliva.
Caratteristica del suo modo di concepire la devozione religiosa era la pratica della flagellazione privata e pubblica. In quello stesso anno, infatti, con l'intento di placare le ire celesti manifestatesi con il terremoto di Palermo, organizzò una processione: i partecipanti, con il volto coperto, si percuotevano con i cilici e il C. stesso si distinse per particolare crudeltà, avendo applicato al suo frammenti di vetro. Da notare sono ancora alcuni suoi singolari atteggiamenti: come quando, durante gli esercizi spirituali, in segno di umiltà portava con sé due scope per spazzare il pavimento della chiesa; o come quando, dopo essere stato colto nel refettorio da violente convulsioni nell'udire un raglio, spiegò agli allibiti confratelli che ciò era stato provocato in lui dall'estatica considerazione che nella grotta di Betlemme il Bambino Gesù aveva giocato con l'asinello. Molte volte, infine, durante lo svolgimento di funzioni religiose egli cadeva in deliquio per deliri pseudomistici, e durante la recita del rosario non riusciva a trattenere "forti sospiri, urli e ruggiti" (Agnello, p. 273). Per tali eccessi negli ultimi anni gli fu inibito di celebrare messa in pubblico.
Concluse i suoi giorni a Palermo il 27 settembre del 1783.
Nella sua concezione della religione come pratica tutta esteriore ed eminentemente devozionale acquista solitario rilievo l'intuizione che ebbe quando fece cantare, un venerdì santo, in dialetto siciliano la Passione secondo s. Giovanni, affinché il popolo partecipasse direttamente al dramma del Cristo.
Le componenti essenziali del suo carattere non sfuggivano neppure al C. che in una lettera ad un amico definiva la propria mente "senza legge e senza regola al par di un febbricitante frenetico e delirante". Comunque, proprio questa sua personalità irruente, che si manifestava ugualmente nelle pratiche di pietà e nell'amore verso il prossimo (con atti di carità sia nell'esercizio dell'assistenza medica verso i poveri sia nella raccolta e distribuzione di elemosine), gli attirò fra il popolo una non effimera fama di santità. Si creò così intorno alla sua figura unaingenua forma di devozione da cui ebbero origine molti miracoli, a lui attribuiti ante e post mortem, che diedero inizio il 17 genn. 1789 al processo di beatificazione in sede regionale. Il 13 ag. 1817 Pio VII indisse l'apertura del processo ordinario trasmesso da Palermo. Il 18 maggio 1819 il C.venne dichiarato venerabile. Dopo i cardinali Giulio Maria della Somaglia, Carlo Odescalchi e F. G. Falzacappa, il 26 maggio 1858 venne nominato relatore della causa di beatificazione il card. Roberto Roberti e Pio IX solennemente affermò che il C. aveva praticato in grado eroico le virtù teologali e cardinali e lo definì "il s. Filippo Neri della Sicilia".
Bibl.: R. Roberti, Panormitana beatificationis et canonizationis ven. servi Dei I. C . …, I-II, Romae 1857; F. M. Agnello, Vita del venerabile sac. I. C. da Bronte, Palermo 1879; Nel primo centen. della morte del venerabile I. C. ..., Roma 1884; A. Lualdi, Cenni biografici... di I.C., s.n.t.; V. Schiliro, Ven. I. C., Torino 1933; Bibl. sanctorum, III, coll.764 s.