IDOLATRIA (gr. εἰδωλολατρεία)
In senso stretto idolatria è il culto degl'idoli, cioè delle immagini degli dei (v. idolo). Esso si fonda sulla credenza che sebbene l'idolo non s'identifichi assolutamente col dio di cui è l'immagine, pure è strettamente a lui congiunto, è come l'organo per cui egli si fa corporalmente presente ai suoi devoti ed esercita il suo potere a favor loro. Solo per questa unione sostanziale tra il nume e la sua immagine s'intendono alcune funzioni di culto che altrimenti non converrebbero né al dio assente e invisibile, né all'idolo senz'anima e da lui separato. Così cioè si spiega come l'idolo non solo venisse collocato in un tempio come in sua casa, avesse a suo servizio una schiera di sacerdoti e di altri addetti, venisse lavato e unto, vestito e coronato, ma anche potesse essere nutrito con le carni e il sangue delle vittime, dilettato per mezzo di profumi, d'incensi e di fiori, rallegrato con il suono degli strumenti e il canto degl'inni, portato in processione per disseminare le benedizioni tra i suoi devoti.
Raramente le figure degli dei esposte alla venerazione consistevano in pitture o incisioni (Ezechiele, VIII, 10; cfr. XXIII, 15), ma comunissimamente in statue più o meno grandi, sia modellate in legno, pietra o terracotta, sia fuse in metallo, specie oro e argento, a volte con parti d'avorio. Talora, soprattutto quando la statua era molto grande, era internamente fatta di legno o di altra materia vile, e rivestita d'oro e d'argento (cfr. Isaia, XXX, 22; Baruch, VI, 7). Sebbene dunque il valore religioso dell'idolo dipendesse dalla presenza del nume in esso, si teneva anche conto della materia di cui era fatto.
Mentre negli oggetti naturali, pietre, alberi, fonti, ecc., la divinità era adorata all'aperto sulle cime dei monti e in mezzo ai boschi, allorché prese aspetto umano convenne metterla al coperto, prima nelle grotte naturali, e poi nelle abitazioni: o private, in una nicchia o edicola, se il culto era privato, come quello dei Lari e dei Penati presso i Romani e dei teraphīm presso gli Ebrei (cfr. la storia dell'idolo di Micha in Giudici, XVII); o, se il culto era pubblico, nei templi, e precisamente, quando erano molto vasti e contenevano varî edifizi, nella cella (gr. ἄδυτον, v. adito, I, p. 510), cui il dio comunicava in modo particolare la sua sacralità.
In senso più largo, come idoli sono stati detti gli dei stessi, così idolatria è stata detta la credenza negli dei, e quindi la religione politeistica (v. divinità, XIII, p. 62 segg.). In questo senso le parole idolatria e idolatra sono intese nel Nuovo Testamento e in specie nelle lettere paoline (p. es. I Cor., V, 10 segg.; VI, 9; X, 7 e 14), dove per la prima volta s'incontrano.
Bibl.: G. F. Moore, Idol e Idolatry and primitive Religion, in Cheyne e Black, Encyclopaedia Biblica, II, Londra 1901; A. Bertholet e E. Lehmann, Lehrbuch der Religionsgesch., I, specie p. 87 segg., Tubinga 1925.