IDENTITA ARCHITETTONICA
IDENTITÀ ARCHITETTONICA. – Recupero e invenzione della tradizione. Identità architettonica e identità religiosa. Bibliografia
Recupero e invenzione della tradizione. – Dietro ciò che appare una legittima aspirazione di ogni cultura, si nascondono aspetti non privi di ambiguità. Ne era consapevole Jacques Derrida quando, a proposito dell’identità europea, scriveva: «il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa. Non di non avere identità, ma di non potersi identificare, dire “io” o “noi”, di poter prendere la forma del soggetto solo nella non identità a sé o, se preferite, nella differenza con sé. Non c’è cultura o identità culturale senza questa differenza con sé. [...] Lo stesso vale, inversamente o reciprocamente, per qualunque identità o identificazione: non c’è rapporto a sé, identificazione a sé, senza cultura, ma cultura di sé come cultura dell’altro, cultura del doppio genitivo e della differenza rispetto a sé. La grammatica del doppio genitivo notifica altresì che una cultura non ha mai una sola origine. La monogenealogia sarebbe sempre una mistificazione nella storia della cultura» (L’autre cap, suivi de La démocratie ajournée, 1991; trad. it. Oggi l’Europa. L’altro capo, seguito da La democrazia aggiornata, 1991, p. 14).
Se è vero che da una parte la modernità ha fortemente ridotto, se non cancellato, le i. a. nazionali, dall’altra è proprio tale mistificante monogenealogia ad apparire l’obiettivo strategico di non poche società contemporanee; obiettivo che trova un punto di aggregazione nella più o meno esplicita contrapposizione al processo di omologazione e globalizzazione che stiamo vivendo. Si tratta di un obiettivo politico, più o meno chiaramente percepito e manifestato. Nel caso, per es., del mondo islamico in generale e arabo in particolare, re ed emiri, ma anche presidenti e capi religiosi sono spesso alla ricerca di legittimazione al proprio potere, promuovendo un uso monogenealogico dell’architettura: dopo decenni, se non secoli, di sudditanza culturale dall’Occidente e non diversamente da quanto veniva fatto in passato in Europa, si determina ciò che Jürgen Habermas e Charles Taylor hanno definito «lotte per il riconoscimento» (J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, 1998), proprie delle culture extraoccidentali quando si confrontano sull’orizzonte planetario. «La costruzione dell’identità – visto che l’identità dell’Oriente come quella dell’Occidente, quella francese o quella inglese, pur essendo un deposito di esperienze collettive distinte, è in fin dei conti una costruzione – richiede che si stabiliscano degli opposti e degli ‘altri’ la cui realtà positiva è soggetta a una continua interpretazione e reinterpretazione delle divergenze rispetto a ‘noi’. Ogni epoca e ogni società ri-crea i propri ‘altri’. Lungi dall’essere un oggetto statico, l’identità del sé o dell’‘altro’ è un processo storico, sociale, intellettuale e politico su cui si interviene profondamente e che all’interno di ogni società si svolge come un confronto che coinvolge individui e istituzioni. I dibattiti attuali sulla ‘francesità’ o ‘inglesità’ che si svolgono rispettivamente in Francia e in Inghilterra, o i dibattiti sull’islam in paesi come l’Egitto e il Pakistan, fanno parte di questo processo interpretativo che coinvolge le identità di diversi ‘altri’ [...]. In tutti questi casi dovrebbe essere evidente che non si tratta di semplici esercizi mentali, ma di impellenti confronti sociali dai concreti riflessi politici: le leggi sull’immigrazione, la regolamentazione del comportamento individuale, la costituzione dell’ortodossia, la legittimazione della violenza e/o della rivolta, il carattere e il contenuto dell’educazione e la conduzione della politica estera, la quale molto spesso comporta l’individuazione di nemici ufficiali. In breve, la costruzione dell’identità è legata alla distribuzione del potere all’interno di ogni società, e quindi non è affatto una semplice esercitazione accademica» (T. Burckhardt, L’art de l’islam. Langage et signification, 1985; trad. it. 2002, p. 15).
Crescente appare l’interesse per la tradizione che negli ultimi anni sembra aver talvolta assunto i contorni di una vera e propria «invenzione della tradizione», un ossimoro presente nel titolo di un noto saggio di Eric Hobsbawm e Terence Ranger (The invention of tradition, 1983). Nell’introduzione, Hobsbawm scrive: «La locuzione ‘tradizione inventata’ va intesa in senso lato, ancorché non impreciso. Include sia le ‘tradizioni’ effettivamente inventate, costruite e formalmente istituite, sia quelle emerse in maniera meno facilmente rintracciabile, all’interno di un lasso di tempo breve e databile – talvolta questione di pochi anni – definitesi con grande rapidità» (p. 1).
In architettura, l’invenzione della tradizione è invenzione dell’heritage: una parte simbolicamente e fisicamente importante nel processo di ricerca dell’identità nazionale. Un tema che accomuna le società postcoloniali nel momento in cui emergono autonomamente sulla scena internazionale. Il concetto di heritage architettonico o built heritage, patrimonio architettonico e urbano storico, è peraltro diverso da quello europeo nei Paesi postcoloniali: anche all’interno di università e centri di ricerca qualificati, il termine viene applicato con indifferenza al vecchio e al nuovo, all’eredità architettonica del passato come a quanto viene oggi realizzato in uno stile storico, richiamandosi cioè a forme, tipologie, finiture, materiali e colori tradizionali. Si osservi inoltre, tra parentesi, che l’interesse per l’heritage lascerebbe pensare a un grande rispetto per le vestigia del passato. Così non è, l’attenzione per la tradizione non ha purtroppo evitato e non evita la preoccupante, disinvolta distruzione di architetture e città storiche. Nel Medio o nell’Estremo Oriente come in Africa, le case delle classi agiate sono spesso storicisticamente connotate, con riferimenti che vanno da Palladio a Versailles; nel mondo islamico sono anche spesso ispirate alla tradizione islamica: dal Marocco alla Persia. Permane insomma qualcosa di simile a ciò che, negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, veniva proposto da Léon Krier o Quinlan Terry, con l’appoggio di alcuni illustri personaggi quali, per es., il principe di Galles: tendenza apparentemente in dismissione nel mondo occidentale (o quasi: non dimentichiamo la proposta di riqualificazione urbana avanzata nel 2011 dallo stesso Krier per il quartiere romano di Tor Bella Monaca). Lo stesso vale per i villaggi turistici: ciò che viene per lo più proposto in gran parte del mondo non è diverso da ciò che fu fatto a Port Grimaud, in Francia, da François Spoerri e a Seaside, in Florida, da Andrés Duany edElizabeth Plater-Zyberk negli anni Ottanta. È interessante osservare come il tradizionalismo non permea poi coerentemente l’intero edificio. In molti casi c’è un certo grado di discontinuità fra interni ed esterni: esterni tradizionali cui corrispondono interni modernamente dotati di tecnologie e impianti (climatizzazione, ascensori, scale mobili ecc.), o esterni ‘moderni’ cui corrispondono interni ‘in stile’, caso frequente per ristoranti, alberghi e così via.
La storia costituisce una vasta riserva di immagini facili da replicare, gradite a investitori e fruitori, soprattutto negli ambiti tipologici più legati alla tradizione. Si è insomma delineata una sorta di orizzonte culturale parallelo che, ignorando quello occidentale contemporaneo, recupera con orgoglio stilemi, materiali, decorazioni e tecniche costruttive, talvolta con il sostegno di considerazioni di carattere teorico. L’antimodernismo cavalcato dall’erede al trono d’Inghilterra suscitò allora un ampio dibattito. Alle radici dei suoi ragionamenti, spesso condivisibili e quasi sempre ispirati a buon senso, è però un atteggiamento relativamente recente, risalente cioè al periodo vittoriano, che cercava di mascherare, dietro facciate dignitose e ordinate, un’epoca ansiosa (H.R.H. The Prince of Wales, A vision of Britain. A personal view of architecture, 1989). Di qui alcune ambigue scelte architettoniche, quali per es. le goticheggianti facciate della sede del Parlamento britannico, di almeno mezzo secolo successive a edifici già stilisticamente tardi, si pensi alla Casa Bianca. In Arabia Saudita (v. Arabia Saudita: Architettura), la famiglia reale conduce da anni un’apprezzabile battaglia in difesa di quel che resta del built heritage nazionale, offrendo il proprio supporto a istituzioni culturali quali, per es., Al Turath. Analoghe considerazioni è possibile sviluppare per tutti i Paesi della penisola arabica: a partire da Dubai, in cui il nuovo fa spesso dimenticare lo sforzo compiuto per il recupero del suo edificato storico, dove sono i suk delle spezie e dell’oro, a Bastakiya, lungo le rive del Creek, il canale all’origine delle fortune portuali della città. Ma ciò vale anche per il Baḥrain, con il recupero dell’imponente forte costruito dai portoghesi nel 16° sec., a sua volta fondato su precedenti stratificazioni, la più antica delle quali risale al 2800 a.C., o del complesso archeologico di Barbar, con templi risalenti al 2° e 3° millennio a.C.; per le straordinarie architetture dello Yemen, da Sana allo Hadramaut; o per le fortificazioni costiere dell’Omān.
Identità architettonica e identità religiosa. – Le fabbriche religiose appaiono, prevedibilmente, più legate alla tradizione di ogni altra tipologia. Particolare importanza dal punto vista politico, legale e sociale, oltre che strettamente religioso, ha assunto nell’ultimo decennio la questione della costruzione di nuove moschee nei Paesi occidentali. La crescente presa di coscienza dei diritti dei musulmani cittadi ni di Stati costituzionali ha provocato frizioni e contenziosi legali. Un esempio emblematico è costituito dalle polemiche innescatesi con la costruzione della nuova moschea di Colonia, opera di Paul Böhm, soprattutto a causa delle considerevoli dimensioni e dell’altezza dei suoi due minareti; analoghi casi sono stati registrati in molte città europee: da Siviglia ad Amsterdam a Marsiglia. Dietro i simboli si nasconde quel deprecabile scontro fra civiltà, che ha visto rinascere la contrapposizione fra Occidente cristiano e Oriente islamico in forma nuova: semplificando un po’, Occidente modernamente laico e Oriente tradizionalmente religioso.
L’iconoclastia architettonica, in forme diverse, è stata esercitata spesso dall’islam e contro l’islam. Estremisti islamici hanno, com’è noto, distrutto i Buddha di Bāmiyān in Afghānistān e i santuari sufi a Timbuktù e attaccato chiese cristiane un po’ dovunque, dall’Indonesia alla Nigeria. Frequenti anche gli attacchi contro le antiche chiese copte d’Egitto. Innumerevoli moschee sono state, d’altra parte, distrutte dai serbi durante la guerra in Bosnia, nel tentativo, in parte riuscito, di cancellare secoli di coesistenza multiculturale, multietnica e multireligiosa, annientando il pluralismo come valore fisicamente testimoniato dalla città e dai suoi monumenti.
Il proselitismo islamico contemporaneo è strettamente legato alla costruzione o ricostruzione delle moschee. Un processo di colonizzazione storicamente noto: fra greci e romani nel Mediterraneo in età classica, come fra spagnoli e portoghesi alla conquista del nuovo mondo nel 16° sec.: «l’idea di colonizzazione si associa sempre a quella di terre considerate vergini cui imporre il proprio patrimonio» (Rykwert 2010, p. IX). Molto intensa, in generale, è l’attività edilizia promossa dalle organizzazioni religiose saudite. Non senza difficoltà: in Bosnia, per es., dove, subito dopo la fine della guerra che ha portato allo smembramento della ex Iugoslavia, è partita la costruzione di un gran numero di nuove moschee, la rigida impronta wahhābita non è risultata gradita ai musulmani del posto, abituati a un approccio meno rigoroso e più europeizzato. La multietnica Sarajevo è oggi fatta di quartieri che si sono riaggregati secondo un principio di segregazione invece che di libera convivenza, come pure era stato possibile in un passato non lontano in cui moschee, sinagoghe e chiese, sia cattoliche sia ortodosse, si ergevano fianco a fianco. Ancor più intensa è l’attività di edificazione di moschee in gran parte dei Paesi africani, anche in quelli di antica tradizione cristiana come l’Etiopia. E, un po’ dovunque, la maggioranza degli architetti si attiene alla riproposizione di tipi, forme e materiali tradizionali. Anche in Europa o negli Stati Uniti le moschee sono raramente di gusto contemporaneo, propendendo piuttosto per una più o meno letterale rivisitazione della storia. La tradizione architettonica, vera o inventata che sia, sembra necessaria a garantire certezze in tempi d’incertezza e paura della perdita della propria identità.
Bibliografia: D. Sudjic, The edifice complex. How the rich and powerful shape the world, London 2005 (trad. it. Architettura e potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo, Roma-Bari 2011); J. Rykwert, Il patrimonio è ciò entro cui siamo, in Il patrimonio e l’abitare, a cura di C. Andriani, Roma 2010, pp. X-XII; R. Bevan, Attacks on townscape. The role of heritage in protecting common grounds, in Common ground. A critical reader, ed. D. Chipperfield, K. Long, S. Bose, Venezia 2012, pp. 219-34; B. Junod, The Aga Khan Museum in Toronto, in Islamic art and the museum, Approaches to art and archaeology of the muslim world in the twenty-first century, ed. B. Junod, G. Khalil, S. Weber et al., London 2012, pp. 285-92.