idealismo
Il ruolo cruciale delle idee
Per idealismo, nel linguaggio corrente, si intende un modo di pensare e di agire basato sulle convinzioni ideali e non sulle convenienze pratiche. In questo senso, idealista è colui il quale rimane fedele alle proprie idee, anche se ciò gli procura ‒ nella realtà ‒ svantaggi o insuccessi. Anche nel linguaggio filosofico il termine idealismo è legato al ruolo cruciale delle idee. Esso è stato usato in due diversi significati: per indicare quelle filosofie che ritengono dubbia o inesistente la realtà esterna (idealismo gnoseologico); oppure per indicare un'importante corrente della filosofia ottocentesca (idealismo tedesco), che interpreta la realtà come manifestazione di un principio infinito di carattere ideale
L'uso filosofico del termine idealismo si affermò, nel corso del Settecento, per indicare quelle filosofie che ‒ partendo da una certa concezione della conoscenza ‒ erano giunte a ritenere dubbia o inesistente la realtà esterna.
Da Cartesio in avanti si era infatti affermata la tesi secondo cui gli uomini conoscono soltanto le idee, ossia le rappresentazioni mentali delle cose. Quando osserviamo un albero, nella nostra mente si forma la rappresentazione dell'albero, ossia la sua idea: ed è con questa che abbiamo a che fare, non con l'albero in sé stesso, che è irrimediabilmente fuori di noi. Ma se ciò è vero, la realtà del mondo esterno diventa dubbia: se la nostra conoscenza è fatta solo di rappresentazioni mentali, chi ci garantisce che a esse corrisponda, fuori di noi, qualcosa di reale? Più in generale, chi ci garantisce che la realtà esterna esista? Cartesio dichiarò che l'esistenza delle cose esterne era dubbia, ma risolse tale problema dimostrando l'esistenza di Dio, che faceva da garante della verità delle nostre rappresentazioni (Dio non può aver creato esseri che si autoingannano).
Il filosofo irlandese George Berkeley (17°-18° secolo), partendo sempre dal principio che conosciamo soltanto le nostre idee, si spinse a negare la realtà del mondo esterno. Per lui esse est percipi, ossia "essere significa essere percepiti": una cosa esiste soltanto se c'è un soggetto che la percepisce, cioè che la pensa. In altre parole, la realtà esiste soltanto nel soggetto e quindi nelle idee: noi non conosciamo gli oggetti in sé stessi, come qualcosa di distinto dal soggetto; affermare quindi la loro esistenza è una pura assurdità.
Quanto a Kant, egli rifiutò le tesi di Cartesio e Berkeley (che definì idealismo materiale, in quanto riguarda l'esistenza del mondo esterno) ed elaborò una dottrina detta idealismo trascendentale, secondo cui i dati provenienti dalla realtà esterna ‒ la cui esistenza è indubbia ‒ sono conoscibili solo attraverso le categorie mentali del soggetto.
Il punto di partenza dell'idealismo tedesco è rappresentato dall'eredità kantiana e, in particolare, dal problema della cosa in sé. Kant aveva affermato che noi conosciamo le cose come ci appaiono (fenomeni) e non le cose come sono (cose in sé). Il nostro apparato percettivo e le nostre categorie intellettuali sono come occhiali di cui non possiamo liberarci: ed è soltanto per il loro tramite che possiamo conoscere la realtà esterna. È proprio il soggetto, con le sue categorie, a conferire universalità e necessità ai fenomeni. Quanto alle cose in sé stesse, esse rimangono irraggiungibili, dal momento che il soggetto non può uscire da sé stesso. Ma questo non significa che la realtà esterna sia dubbia o inesistente: per Kant la realtà esterna esiste ed è l'inizio di ogni processo conoscitivo.
Tale conclusione fu criticata da alcuni seguaci di Kant, i quali misero in luce come il maestro sarebbe rimasto a metà strada tra idealismo e realismo. Per un verso, Kant aveva compreso che tutto dipende dall'io, ossia dalla soggettività (idealismo); per un altro verso, però, era rimasto prigioniero della posizione opposta, quella secondo cui la realtà esiste indipendentemente dal soggetto (realismo). Liberarsi una volta per tutte da questa oggettività indipendente dal soggetto e proclamare l'assolutezza di quest'ultimo fu il passo ulteriore compiuto dai filosofi idealisti. Una volta abolita la cosa in sé, scompariva qualsiasi realtà estranea al soggetto: quest'ultimo non era più, come in Kant, un'entità finita che dà ordine alla realtà per il tramite delle sue categorie, ma un'entità infinita che crea tutta la realtà. Dal piano gnoseologico (cioè ponendoci la domanda "come conosciamo?") ci si era ormai spostati al piano ontologico (per rispondere alla domanda "cosa è la realtà?"). I filosofi idealisti, del resto, volevano elaborare una dottrina della realtà, non una teoria di come giungiamo a conoscerla.
Anche se l'idealismo tedesco si sviluppa dalla discussione di un problema lasciato aperto da Kant, esso in realtà riflette una disposizione intellettuale e morale completamente diversa. Il pensiero di Kant rappresentava il culmine della filosofia moderna, che aveva fatto del problema della conoscenza il problema filosofico per eccellenza, giungendo a fissare precisi limiti alle capacità della ragione umana. I filosofi idealisti sono invece dominati dall'insofferenza verso tali limiti e dall'aspirazione a ricostruire un sistema filosofico onnicomprensivo, che superi il dualismo tipicamente moderno tra finito e infinito, tra mondo e Dio, raggiungendo l'Assoluto. Nonostante la complessità delle tematiche e l'uso di un linguaggio molto difficile, la filosofia idealistica ebbe ampia risonanza, perché essa nasceva in realtà dalla coscienza acuta e drammatica dei problemi storici, politici e morali del suo tempo.
Non a caso, l'iniziatore di questa scuola ‒ Johann Gottlieb Fichte (vissuto tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento) ‒ presenta il suo pensiero come il corrispettivo filosofico della Rivoluzione francese: come quest'ultima ha liberato "l'uomo dalle catene esterne", così la sua filosofia "lo libera dei ceppi delle cose in sé, dell'influenza esterna" e lo consacra come essere libero e indipendente. Il realismo, nella prospettiva di Fichte, non è solo una dottrina della conoscenza, ma un modo di essere: sostenere che il mondo esterno esiste in modo indipendente dal soggetto significa rinunciare alla nostra missione di esseri liberi, chiamati a trasformare il mondo e non a rassegnarsi fatalisticamente a esso. "Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato o dalla servitù spirituale ‒ scrive Fichte ‒ non potrà mai elevarsi all'idealismo".
Per i filosofi idealisti tutta la realtà è espressione di un principio infinito, avente carattere ideale, che viene denominato in vario modo: Io, Idea, Spirito, Ragione e così via. L'uso della lettera maiuscola indica come non si tratti dell'io, delle idee o della ragione individuali, ma di entità sovra-individuali, che coincidono con la totalità o Assoluto. Questo Assoluto, però, non è un'entità trascendente ‒ come il Dio cristiano, che sta al di là del mondo e presenta caratteri opposti a esso (infinito contro finito) ‒ bensì un'entità immanente, che coincide col mondo stesso. Inoltre, l'Assoluto non è qualcosa di immobile, sottratto all'azione del tempo, ma un processo dinamico la cui molla sta nell'urto tra gli opposti.
Siamo giunti così al tema cruciale della dialettica, di cui gli idealisti danno interpretazioni diverse, dalle quali discendono differenti concezioni dell'Assoluto. Per Fichte l'Io genera continuamente un non-Io (il mondo), perché soltanto la presenza di un ostacolo permette all'uomo di realizzarsi in quanto uomo, ossia in quanto essere che ‒ lottando contro le inclinazioni naturali ‒ afferma la sua libertà. Per Fichte, però, l'Infinito rimane soltanto un dover-essere, un orizzonte verso il quale l'io finito tende in uno sforzo continuo di approssimazione.
Per il secondo grande protagonista dell'idealismo ‒ Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (18°-19° secolo) ‒ il mondo o natura non può essere considerato un semplice ostacolo, una sorta di scena approntata soltanto perché l'Io si realizzi: in questo esasperato soggettivismo, l'idealismo fichtiano rivela di essere l'ultimo erede della "misera età cartesiana", caratterizzata dalla scissione tra spirito e natura. La filosofia, secondo Schelling, deve invece mostrare come spirito e natura siano originariamente uniti: l'Assoluto è precisamente questa unità indifferenziata degli opposti (dalla quale tutto deriva e alla quale tutto tende), unità che può essere colta soltanto da un'intuizione intellettuale, come quella cha ha luogo nell'opera d'arte.
Celeberrima la battuta di Hegel ‒ l'ultimo e forse il più grande degli idealisti ‒ sull'Assoluto di Schelling, paragonato a quella "notte in cui tutte le vacche sono nere". L'Assoluto non è un'unità indifferenziata, per Hegel, bensì l'incessante trama dialettica della realtà, il continuo processo di differenziazione tramite le contraddizioni, che ha nella storia il suo grandioso teatro.