Idealismo e non idealismo
Sulla filosofia italiana dall’inizio del 20° sec. al 1945 pesano tre pregiudizi di cui occorre liberarsi: la contrapposizione frontale tra Ottocento e Novecento, tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ secolo; l’accusa di ‘provincialismo’ rivolta, specie negli anni del secondo dopoguerra, alle filosofie di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile e, attraverso loro, all’intera filosofia italiana; il dominio incontrastato, in quel periodo, del neoidealismo italiano.
La prima posizione è stata inaugurata, e sostenuta con grande forza, proprio dai due massimi rappresentanti del neoidealismo italiano, un movimento ‒ va detto subito ‒ non riducibile a un minimo comune denominatore, ma anzi solcato fin dall’inizio da evidenti differenze di impostazione e di prospettive. Servendosi della «Critica», fondata all’inizio del secolo (1903), Croce e Gentile danno vita a una battaglia senza quartiere contro il ‘positivismo’ e lo ‘scientismo’ – posizioni che giudicano addirittura indegne di appropriarsi del nome di filosofia. In questa lotta, che assume toni a volte cruenti, Croce si serve anche dei rappresentanti più originali della nuova generazione e delle loro riviste – da Giovanni Papini a Giuseppe Prezzolini, da «Leonardo» a «La Voce».
Nella scelta di questi alleati Croce muove da una persuasione precisa: bisogna puntare sui ‘giovani’, se si vuole rinnovare in profondità la filosofia; i ‘vecchi’, cresciuti nella ‘vecchia’ cultura, non hanno niente da dire; anzi, possono svolgere solo una funzione negativa, giovandosi delle istituzioni che controllano, a cominciare dall’università, contro la quale occorre condurre una battaglia senza quartiere (come appare assai bene dal pamphlet che Croce pubblica su Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana, 1909). Simultaneamente occorre costruire nuovi ‘istituti’ che possano essere il punto di riferimento della ‘nuova generazione’, e, in effetti, questo rappresenta per Croce «La critica», un istituto che deve diventare il motore essenziale di un’opera di ‘rinascita’ della filosofia e, in generale, della cultura in Italia.
Se si leggono i lavori che Croce e Gentile pubblicano sulla rivista, esaminando, punto per punto, la letteratura e la filosofia della ‘nuova Italia’, può colpire il tono violento con cui parlano della ‘vecchia’ cultura e dei suoi esponenti; ma proprio questa durezza illumina la coscienza che essi avevano della forza istituzionale e anche politica dei loro avversari, del consenso del quale essi disponevano ‒ in una parola, della difficoltà della battaglia nella quale si erano impegnati e alla quale ritenevano che fosse affidato l’avvenire dell’Italia.
Di questa consapevolezza è un esempio lampante la dura polemica che entrambi impegnano contro Federigo Enriques, uno dei massimi matematici dell’epoca, autore di un testo classico sui Problemi della scienza (1906), pericolosamente attratto, però, da problemi e questioni filosofiche. Per Croce e per Gentile quella che Enriques pone con la sua opera – e i suoi rapporti con alcuni dei più eminenti filosofi e scienziati dell’epoca – è una questione culturalmente e filosoficamente strategica: o si afferma l’impostazione di Enriques; oppure, distruggendo Enriques, si riesce a dare un colpo decisivo a tutta la ‘vecchia’ cultura.
Volutamente si è usato il lemma distruggere. Se si leggono i testi di quella polemica, si vede che l’obiettivo perseguito dai due sodali è precisamente la distruzione dell’avversario con modi e toni perfino feroci, che si ritrovano – e questo conferma la consapevolezza strategica dell’operazione – nella polemica di Croce contro Francesco De Sarlo, un altro rappresentante della ‘vecchia’ cultura che andava distrutto con pari energia e violenza.
Ma sia Enriques che De Sarlo erano tutt’altro che epigoni di un mondo al tramonto e da seppellire con un funerale di terza classe; erano figure di primo piano, all’avanguardia nella ricerca – nel caso di De Sarlo, nel campo della psicologia; in quello di Enriques, sia nel campo scientifico che in quello del pensiero filosofico e politico. Quel matematico, così vituperato, nel 1912 scrive un saggio sul concetto di partito ben più ricco e articolato di quello che Croce pubblica nel 1911 sul Partito come giudizio e pregiudizio. Ma proprio questo fatto contribuisce a mettere a fuoco un altro carattere della polemica della «Critica»: per Croce, a quella data, si tratta di distruggere la ‘vecchia’ cultura sia sul piano scientifico e filosofico che su quello politico. In altre parole, bisogna eliminare la mentalità democratica e massonica che ha inquinato, rovinandolo, anche il socialismo di Karl Marx, del tutto estraneo, a suo giudizio, a posizioni di tipo democratico ed egualitario.
Come risulta da questi pochi cenni, il panorama della filosofia italiana nei primi decenni del Novecento è assai più mosso e complesso di quanto abbia sostenuto una lunga tradizione. Ma la forza di Croce (e di Gentile) rispetto agli avversari è stata proprio nella capacità di sollevarsi subito dal livello della lotta e dello scontro a quello dell’analisi e del giudizio storico, di salire dal piano delle res gestae a quello della historia rerum gestarum. È stato proprio Croce (e con lui Gentile) a sostenere sul piano storiografico – riuscendo a imporla ‒ la tesi di un’opposizione frontale fra 19° e 20° sec. e di una rinascita della filosofia dopo la decadenza positivistica. È stata, anche in questo caso, la storiografia a creare un ‘oggetto’ che non ha corrispondenza sul piano storico, come dimostrano in maniera eloquente i molti studi che sono stati dedicati al positivismo nella seconda metà del secolo scorso, in una situazione culturale e anche filosofica ormai assai distante dal neoidealismo italiano nelle sue varie componenti.
La seconda posizione da discutere, alla quale si è fatto riferimento anche nell’Introduzione a questo volume, è quella che insiste sul ‘provincialismo’ della filosofia italiana. Essa è basata sulla tesi che il neoidealismo italiano sia stato estraneo, anzi ostile, alla scienza; e che questo atteggiamento distinguerebbe quella italiana dalle principali tendenze della filosofia europea del 20° sec., condannandola a un destino di arretratezza e, quindi, di insuperabile provincialismo. C’è del vero in questa tesi: se si legge la Logica come scienza del concetto puro (1909) di Croce, è facile constatare l’arretratezza dello sguardo con cui egli considera la scienza e in generale l’universo scientifico (corrispondente, sul piano pratico, alla sua battaglia contro Enriques e la ‘vecchia’ cultura). Per Croce i concetti scientifici sono pseudoconcetti, e non hanno niente da dire sul piano specifico della filosofia in quanto tale. Possono avere una funzione empirica, ma in questo cerchio pratico si risolve la loro funzione e il loro destino. Né le cose mutano se si leggono i testi di Gentile: in tale ambito i due ‘amici’ si muovevano in modo affine, coerente, a loro giudizio, con la ‘tradizione’ filosofica cui ritenevano di appartenere e che, su questo punto, certamente contribuivano a indebolire e a impoverire in maniera vistosa.
Su questo, dunque, si può concordare: nel rapporto con la scienza risiede uno dei punti di massima debolezza del neoidealismo italiano. Ma tale rapporto, per quanto importante, non esaurisce il campo di una filosofia, né elimina il problema della consistenza, e della forza, della sua ‘costituzione interiore’. Sia Croce che Gentile sono stati, senza alcun dubbio, ‘filosofi europei’ (come si intitola un libro dedicato al secondo); ma, in coerenza – occorre aggiungere ‒ con la ‘tradizione’ italiana, di cui essi riprendono il motivo centrale, sul piano della ‘politicità’. Tale è stato il carattere specifico della loro posizione, e su questo punto essi hanno potuto muoversi su un orizzonte europeo, facendo sentire la loro voce.
Ma la dimensione della ‘politicità’ consente di mettere a fuoco un altro tratto proprio del neoidealismo: il rapporto con Marx da cui esso è internamente definito, e da cui è caratterizzato e distinto rispetto ad altre tendenze della filosofia europea.
Gentile nasce alla filosofia con Marx, dedicandogli poco più che ventenne un libro che perfino Vladimir I. Lenin ritenne necessario citare ‒ come il suo autore si compiacque di far notare. Croce, oltre ad avere un ruolo di primo piano nella pubblicazione dei saggi di Antonio Labriola, partecipò intensamente alla discussione sulla ‘crisi del marxismo’ che attraversa l’Europa nell’ultimo decennio dell’Ottocento, pubblicando una serie di saggi confluiti poi in Materialismo storico ed economia marxistica (1900).
Nella diversa interpretazione di Marx Croce e Gentile prefigurano, in effetti, differenze generali fra le loro filosofie che sarebbero affiorate, con il tempo, in modo via via più netto. Per Croce Marx ha avuto il merito di sottolineare il ruolo dell’economia, dell’utile nel processo storico, e di conseguenza ha consentito di approfondire e di affinare il canone empirico del metodo storico; Gentile, invece, fin dall’inizio guarda, sottolineandone l’importanza, al Marx filosofo e al rilievo della funzione, per quanto distorta, che egli attribuisce alla dialettica. Né c’è dubbio che, in questa posizione, abbia giocato un ruolo centrale Georg Wilhelm Friedrich Hegel, come effettivo punto di relazione fra Gentile e Marx (a differenza di quanto potesse avvenire in Croce, il quale a Hegel arriverà attraverso Gentile, come risulta con chiarezza dal loro Carteggio).
Si capisce perché Labriola, il quale poco prima di morire scrive a Croce lettere di fuoco, definendolo come l’«antidivenire», l’«antievoluzione», l’«antisecolodecimonono» (cfr. A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, a cura di L. Croce, 1975, pp. 366-67, 375), abbia guardato con maggiore interesse alla posizione ‘filosofica’ di Gentile piuttosto che alla riduzione ‘storiografica’ di Marx compiuta da Croce, che ai suoi occhi appariva una vera e propria dissoluzione del valore e del significato specifico della dottrina marxista (di cui egli, peraltro, conosceva limiti e imperfezioni, come si vede dai rilievi che compie soprattutto nel terzo dei Saggi su Marx). In discussione, Labriola lo sapeva assai bene, era precisamente il rapporto di Marx con la filosofia, il significato che nella sua opera aveva avuto – e doveva continuare ad avere ‒ la filosofia.
In questo contesto, il punto sul quale occorre però richiamare in modo specifico l’attenzione – perché sarà fondamentale nella filosofia italiana del Novecento, oltre che nel marxismo ‒ è la centralità che Gentile attribuisce al motivo marxiano della praxis e, su questa scia, alle Tesi di Marx su Ludwig Andreas Feuerbach, di cui egli appronta anche una traduzione (per molti aspetti il testo cardine, si potrebbe dire, del marxismo italiano).
Con la praxis – la ‘chiave d’oro’ dell’attualismo, come la definì Ugo Spirito ‒ siamo a un punto centrale della discussione filosofica in Italia, e non solo, come è comprensibile, nell’ambito delle correnti di matrice marxista. Su questo tema – considerandolo centrale ‒ si concentra Rodolfo Mondolfo; e, soprattutto, «filosofia della praxis» Antonio Gramsci – anche in polemica con il manuale di Nikolaj I. Bucharin ‒ definisce il suo marxismo, sostituendo questa espressione a quella tradizionale attraverso un rigoroso lavoro di riscrittura dei Quaderni del carcere (1948-1951; ed. critica 1975), a conferma del rilievo che attribuiva alla questione dal punto di vista sia teorico che politico (due momenti per lui strettamente congiunti fino a fondersi, e proprio alla luce di quella interpretazione del marxismo). Ma questo tema, e vale la pena ricordarlo, congiungendosi con altre tendenze – a cominciare dal pragmatismo e dalle filosofie dell’azione francesi del primo Novecento ‒ attraversa larga parte della filosofia italiana del Novecento e incide in pensatori anche distanti oppure molto distanti da Marx: da Eugenio Garin, che, formatosi nella seconda metà degli anni Trenta, sul piano teorico privilegia Gentile, rispetto allo stesso Croce, proprio per il tema della praxis; ai teorici del rapporto tra praxis ed empirismo come, nel secondo dopoguerra, Giulio Preti.
Marx è dunque un interlocutore decisivo per la filosofia italiana del 20° sec., sia sul piano filosofico che su quello politico, e contribuisce con molta forza a determinare nella ‘politicità’ il carattere specifico ‒ morfologico, verrebbe da dire ‒ del neoidealismo italiano. Del resto, si è già avuto modo di vederlo, accennando alla critica di Croce alla democrazia e al coinvolgimento che in tale critica egli opera di Marx e del suo concetto di lotta di classe, interpretato, peraltro, da Croce in termini di tipo darwiniano. Né è casuale questo incontro; esso trovava un terreno fertilissimo nella specifica ‘tradizione’ civile italiana, ampiamente e positivamente disposta a cogliere la posizione di Marx.
Ma sulla funzione di Gentile e di Croce nella filosofia italiana del 20° sec. occorre fare una precisazione, che ci conduce alla discussione del terzo pregiudizio al quale si è fatto riferimento all’inizio di questa Introduzione.
Si è già accennato a una questione importante: neoidealismo italiano è una definizione insufficiente, imprecisa, non rende conto della situazione effettiva. Croce e Gentile hanno senz’altro avuto motivi e temi filosofici comuni, così come hanno combattuto insieme battaglie importanti. Ma sono pensatori assai diversi, come essi stessi sapevano per primi. In effetti, la polemica aperta da Croce sulla «Voce» nel 1913 ‒ nella quale segnalava come, a suo giudizio, fosse intrinseca all’attualismo una deriva di tipo mistico da cui egli voleva tenersi lontano in ogni modo ‒ aveva cominciato a chiarire anche ai riottosi la profondità di un contrasto che concerneva la concezione stessa della vita spirituale, il significato della storia, il valore dell’atto e della distinzione: cioè gli architravi dei sistemi che Croce e Gentile avevano, ormai, rispettivamente messo a punto.
Palesato il dissenso, anche per un’esigenza di chiarezza con se stesso, Croce non intese tornare più in modo sistematico su di esso, per salvare sia il valore di un’amicizia alla quale teneva, sia il significato di un lavoro comune, che egli non riteneva a quella data concluso. Naturalmente continuò ad approfondire il merito specifico del suo pensiero, e, di fatto, congedò pure la dimensione del ‘sistema’, alla quale aveva lavorato lungo il primo decennio del secolo: lo fece per ribadire, sul piano teorico, il suo distacco da Gentile; ma anche per mettere in campo un concetto più aperto e flessibile del filosofare, maggiormente in sintonia con il mondo che ‒ lo sentiva e lo comprendeva ‒ stava cambiando e si stava allontanando da lui, orientandosi in altre direzioni.
Era stato Renato Serra, con il suo fiuto rabdomantico, a comprendere sia l’inizio della solitudine di Croce, sia il diverso ruolo che Gentile stava assumendo per la nuova generazione. Forse era stata proprio la siderale distanza che lo separava da Croce a fargli vedere con distacco, e a consentirgli di capire. In ogni caso, aveva ragione: con gli anni Dieci inizia per Croce una situazione di solitudine alla quale non si sottrarrà mai più completamente. Durante il fascismo sarà un punto di riferimento per chi si opponeva al regime, in Italia e fuori d’Italia; ma in una cerchia di discepoli e di amici assai ristretta, anche per il controllo occhiuto al quale erano sottoposti sia lui che la sua rivista (compreso l’editore Laterza, che gli rimase a fianco anche nei momenti difficili). Alla fine del fascismo, nonostante gli sforzi che farà per rinnovare la sua filosofia, riaffrontando problemi che ne toccavano il fondamento originario ‒ e anche il ruolo politico che assumerà, specie quando l’Italia si troverà a essere «divisa in due» ‒, Croce non riuscirà più a coinvolgere la giovane generazione, come aveva fatto nei primi anni del secolo.
Diversamente da lui – come lo stesso Serra aveva notato ‒, era stato Gentile, il vecchio collaboratore della «Critica», ad assumere un ruolo centrale nella cultura e nella politica italiana, testimoniato anche dalla sua collaborazione a giornali quotidiani. Con la guerra, i giovani, che prima si erano raccolti intorno a Croce, cominciarono a vedere nell’attualismo e in Gentile la filosofia in grado di dire una parola nuova, la parola che essi aspettavano, mentre Croce appariva ormai come un pensatore rivolto al passato, incapace di comprendere le nuove generazioni e le loro esigenze, come era dimostrato proprio dal suo atteggiamento di fronte alla guerra ‒ sterile, distaccato, frigido, non in grado di cogliere i tempi nuovi sia dell’Italia che dell’Europa. È allora che inizia quella sua lunga solitudine, dalla quale sul piano filosofico e politico non uscirà, in sostanza, mai più in modo pieno; neppure nel secondo dopoguerra, quando i giovani prenderanno nuove strade, distintissime dalle sue, orientandosi verso nuovi maestri e nuove scelte politiche.
Ma questo discorso in modo diverso riguarda anche Gentile: maestro, con la guerra, delle nuove generazioni e punto di riferimento anche per i giovani che scelgono di schierarsi a sinistra; ministro della Pubblica istruzione dal 1922 al 1924 («L’uomo giusto al posto giusto», dirà Croce); autore della riforma che prende il suo nome; promotore di imprese eccezionali come l’Enciclopedia Italiana ‒ insomma, uomo di primo piano della vita culturale e politica nazionale ‒, Gentile venne a trovarsi progressivamente in una situazione di difficoltà e di isolamento anche nell’ambito del fascismo. Un isolamento puntualmente testimoniato dai ‘ritocchi’ ai quali viene sottoposta fin dal primo momento la sua riforma della scuola; ma destinato ad accentuarsi profondamente – e in modo irreversibile ‒ con il Concordato, dopo il 1929, quando la sua funzione, e la sua presenza, nella società italiana mutano in modo radicale. Come è stato dimostrato di recente in maniera convincente, Gentile nell’ambito del fascismo ebbe nemici duri e implacabili, capaci, specie negli anni Trenta, di contestarne l’egemonia e di orientare il regime in nuove direzioni culturali, nelle quali i cattolici giocarono un ruolo di primo piano.
La dittatura del neoidealismo è dunque un mito storiografico senza fondamento, del quale occorre finalmente liberarsi: la filosofia italiana nella prima metà del Novecento e durante il fascismo è assai più mossa e articolata di quanto lascino intendere immagini di maniera, ideologicamente connotate, ma prive di fondamento nella realtà.
Nell’indebolire il fronte del neoidealismo giocarono un ruolo centrale la guerra e le differenti posizioni che Croce e Gentile presero di fronte a essa: il primo favorevole a una posizione neutralista, in sintonia con Giovanni Giolitti; il secondo su posizioni interventiste (testimoniate dai suoi scritti raccolti in Guerra e fede del 1919 e in Dopo la vittoria, del 1920). Ma la guerra non divise solo i due vecchi ‘amici’, che nel primo decennio del secolo avevano lavorato insieme per una riforma della cultura e della società italiana, a partire da un punto di vista filosofico e politico assai chiaro e lungimirante.
La guerra chiude il 19° e apre il 20° sec., mettendo in crisi radicale le strutture tradizionali dello Stato liberale e aprendo la strada all’affermazione in Russia della Rivoluzione bolscevica ‒ un evento che, qualunque sia il giudizio che si voglia dare oggi su di esso, cambia in modo profondo la storia del mondo quale si era svolta fino a quel momento.
Inizia l’epoca della «democratizzazione» e dell’«internazionalismo», della «ragione» e del «progresso» ‒ insomma, l’epoca della «politicizzazione di massa», che sconvolge tutti i «fondamenti spirituali» (come scrive in pagine eccezionali Thomas Mann). Inizia, in altre parole, una nuova storia, che incide anche nella filosofia, spostandola dal campo delle ricerche logiche, estetiche, teoretiche a quello delle ricerche politiche, come accade anche in Italia.
È un cambiamento che riguarda l’epoca nella sua interezza: lo stesso Croce scese su questo terreno, prima scrivendo le Pagine sulla guerra (1919), nelle quali distinse tra compiti del ‘cittadino’, impegnato e coinvolto nella vita e nelle sorti della propria città; e compiti del ‘filosofo’, impegnato nella ricerca della verità che, in quanto tale, è al di sopra del conflitto tra partiti e tra Stati. Così dicendo, Croce si muoveva volutamente nell’orizzonte dell’‘alta politica’, ponendosi con urgenza il problema di cosa sarebbe accaduto con la fine della guerra e degli imperi centrali. A differenza di Gentile, che scelse un’altra posizione, sia con le battaglie condotte durante la guerra, sia iscrivendosi al Partito nazionale fascista, sorprendendo Croce, che pure aveva avuto un atteggiamento di benevolenza nei confronti del fascismo, anche dopo il delitto Matteotti (1924), in nome della «salute» dell’Italia, che aveva bisogno, a suo giudizio, di «farmaci» forti.
È dunque la politica che separa i due vecchi ‘amici’, sono le scelte che essi fanno nei confronti del fascismo al potere, come del resto Croce riconosce con lucidità nell’ultima lettera che scrive a Gentile, spiegandogli (con l’usuale lessico medico) che in quella situazione non c’era niente da fare, ma occorreva solo aspettare che la «malattia» facesse il suo corso e si concludesse. Questo non significa che Croce rinunciasse alla battaglia sia politica che culturale; è lungo gli anni Venti che lavora agli Elementi di politica, raccolti poi in Etica e politica (1931), e scrive le quattro grandi ‘storie’ (Storia del Regno di Napoli, 1925, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928, Storia dell’età barocca in Italia, 1928 e, nei primi anni Trenta, Storia d’Europa dal 1815 al 1915, 1932): tutte opere incardinate nel primato della storiografia etico-politica ‒ cioè nella ‘tradizione’ civile italiana ‒, nelle quali, da un lato, polemizza aspramente con Gentile; dall’altro, inizia a delineare l’ideale di una nuova Europa, in grado di fare i conti con i problemi ‒ e i drammi ‒ del presente.
Senza la nuova funzione e il nuovo ruolo assunti dalla politica, anzi senza la «politicizzazione di massa» – e tutto ciò che essa comporta sui diversi piani della realtà ‒, sarebbe difficile comprendere caratteri e sviluppi della filosofia italiana nella prima metà del 20° sec.: la ‘politicità’, si è detto, è il suo carattere intrinseco, strutturale. E questo riguarda non solo le forze fasciste e liberali, ma anche quelle socialiste, comuniste e cattoliche.
Il marxismo italiano non nasce, ovviamente, con la Rivoluzione russa o con Gramsci. Nel nostro Paese aveva già operato una delle maggiori personalità del socialismo europeo, Labriola, eminente rappresentante del marxismo. Ma con la guerra inizia una fase nuova: come è stato giustamente osservato, nella storia del marxismo italiano c’è, infatti, una soluzione di continuità; né ha alcun senso, come pure fu fatto negli anni Cinquanta, cercare di presentare una storia del marxismo in Italia che vada da Labriola fino a Gramsci, in un ritmo lineare, continuo.
È in carcere che Gramsci elabora il concetto di filosofia della praxis, riprendendo, certo, la lezione di Labriola per rivendicare l’autonomia del marxismo in opposizione a Bucharin; ma ponendosi da un altro punto di vista, rispetto al quale ha valore dirimente la lezione dell’Ottobre e di Lenin. Nel quadro di una riflessione – occorre aggiungere ‒ che nella ristesura della maggior parte dei Quaderni si complica e si approfondisce, da un lato, distanziandosi in modo netto dalle elaborazioni giovanili sui Consigli di fabbrica; dall’altro, intrecciando in modo compiuto filosofia e politica, anche sulla scia della lezione delle Tesi di Marx su Feuerbach, e prendendo nettamente posizione sui processi involutivi in atto nell’Unione Sovietica con la direzione staliniana.
Le pagine sul centralismo democratico, opposto a quello burocratico; sul rapporto tra ‘sentire’ e ‘comprendere’; sul partito che deve essere un ‘organismo vivente’ – e anche quelle sulla ‘rivoluzione passiva’ ‒ sono indice di una riflessione che si muove in modo libero, a tutto campo, e che guarda con occhi lucidi e disincantati all’Unione Sovietica e alla politica del Partito comunista d’Italia, cui cerca di proporre la politica della Costituente (anche a costo del duro isolamento che queste posizioni gli costarono in carcere).
Quella di Gramsci in carcere è certamente un’esperienza tragica: isolato da tutti, con pochi strumenti a disposizione (di cui possediamo il catalogo), riuscì a porre una serie di problemi che diventarono centrali per la filosofia italiana dopo la fine della guerra. Si tratta di un fenomeno singolare, capitato anche ad altri autori (a Friedrich Nietzsche, per es.): scritti, e riscritti, tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, i Quaderni del carcere sono forse l’opera che ha maggiormente influito sulla filosofia italiana dal 1947 ‒ quando vennero pubblicate le Lettere dal carcere ‒ fino, almeno, al 1968, quando in Italia si imposero altri ‘maestri’, relegando la riflessione di Gramsci nella dimensione della ‘ideologia’.
Grazie all’efficace regia di Palmiro Togliatti, i Quaderni furono presentati in modo da colpire e incidere sui punti più sensibili della cultura italiana, sacrificandone consapevolmente la ricchezza di analisi e l’ampiezza di orizzonte ‒ europeo, anzi mondiale ‒, come risulta dai titoli scelti per l’organizzazione dei diversi volumi: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948), Letteratura e vita nazionale (1950), Note su Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno (1948), solo per citarne alcuni. Senza alcun dubbio, fu, come è stato detto tante volte (anche con intenti critici), una ‘operazione’ assai intelligente, anche se sarà poi lo stesso Togliatti, nel suo ultimo articolo su Gramsci, a distanziarlo da questo quadro e a inserirlo in una prospettiva che ne valorizzasse la dimensione di ‘classico’, non riducibile, in quanto tale, né solo a un tempo, né tanto meno a un orizzonte ‒ per quanto nobile ‒ di partito.
Il centro della riflessione di Gramsci si situa tra gli ultimi anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, in un periodo di profonde trasformazioni a tutti i livelli: economico, sociale, politico, e anche culturale e filosofico, sia nel mondo che in Italia (come testimoniano proprio le note dei Quaderni su Americanismo e fordismo). È in questo contesto assai mosso e dinamico che, pur nelle maglie strette del regime fascista, inizia a formarsi una nuova generazione ‒ una minoranza, certamente, che, come è stato scritto con espressione efficace, intraprende proprio allora il suo «lungo viaggio» attraverso il fascismo.
Croce lo avvertì in modo tempestivo; né del resto questo sorprende: considerare i giovani come uno specchio capace di rifrangere, nel bene e nel male, i problemi del tempo era stato un suo atteggiamento costante, anzi una vera e propria strategia culturale fin dai primi anni della sua attività, quando aveva cercato di coinvolgere nella sua azione riformatrice i giovani del «Leonardo», creando con la sua azione nuovi ‘istituti’ nei quali potessero riconoscersi e formarsi. Con altrettanta lucidità, e lungimiranza, all’inizio degli anni Trenta Croce si rese conto che sotto la superficie stavano cominciando a muoversi nuove forze, nell’ambito dello stesso fascismo, a cominciare dai Littoriali. Ma capì anche che si stavano orientando in direzioni assai diverse da quelle che egli avrebbe auspicato e che Marx stava abbandonando la ‘soffitta’ in cui credeva di averlo collocato.
Che avesse compreso l’una e l’altra cosa è testimoniato dalla decisione che prese nel 1938 ‒ «un gesto di sfida», è stato scritto ‒ di ristampare i saggi di Labriola con l’aggiunta ‒ decisiva, da questo punto di vista ‒ del suo saggio su Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, 1895-1900 (1938), nel quale veniva ripercorsa tutta la vicenda della ‘crisi del marxismo’ e veniva anche indicato ‒ attraverso la pubblicazione di una serie di lettere di Labriola ‒ come Croce avesse risolto una volta per tutte il problema del marxismo, liquidandolo sul piano teorico in via definitiva.
Ma Croce capì anche che, per realizzare i suoi obiettivi, limitarsi a combattere Marx non era sufficiente. Nel dibattito filosofico europeo erano, ormai, diventati figure di primo piano personaggi che egli aveva individuato da tempo, e su cui aveva espresso giudizi sprezzanti, come Carl Schmitt e Martin Heidegger («un altro Gentile», scrisse in una lettera a Karl Vossler). Era perciò giunta l’ora di contrastarle a viso aperto, riaffrontando il fondamento stesso della filosofia qua talis (quello che egli considerava il momento della «malattia»), ripensando in modo rigoroso le basi del suo pensiero e mettendolo alla prova dei nuovi, drammatici, problemi aperti nella società contemporanea.
È da questa persuasione che scaturisce La storia come pensiero e come azione (1938), nella quale egli ripropose i problemi centrali della sua meditazione: dal concetto di categoria a quello di contemporaneità della storia, dal rapporto tra pensiero e azione («preparante», non «determinante») alla concezione dello storicismo, in aperta polemica con Friedrich Meinecke. Ma soprattutto, a quella data, Croce ripensò in termini nuovi il processo spirituale, approfondendo il motivo dell’etico-politico, e affidando alla moralità il compito di governare, e dirigere, l’intero circolo della vita spirituale, il quale – ed è questo l’elemento di novità ‒, affidato a se stesso, si sarebbe potuto risolvere nella disgregazione, nell’anarchia sotto la spinta della Vita, della vitalità (temi ripresi poi, in forma compiuta, nei suoi ultimi scritti).
Da questo punto di vista la Storia come pensiero e come azione è un testo assai notevole, destinato anzitutto alle giovani generazioni, alle quali egli intendeva rivolgersi per sottrarle sia all’influsso delle nuove filosofie tedesche (così distanti dalla Germania che aveva amato) che a quello del marxismo. È una lotta su due fronti, insomma, quella che Croce intendeva condurre. Ma la nuova generazione era ormai orientata in direzioni diverse e avvertiva quello crociano come un pensiero classico, importante, ma ‘rivolto’, estraneo, in sostanza, ai problemi attuali. Sono questi gli anni in cui si formarono molti esponenti delle élites intellettuali e politiche – sia laiche che cattoliche ‒ della Repubblica che sorgerà alla fine della guerra e del fascismo; ma essi procederanno, ormai, su vie diverse da quelle indicate da Croce e anche da Gentile.
Nel 1937 Ugo Spirito (che nel 1932 aveva teorizzato la ‘corporazione proprietaria’) pubblicò un libro dal titolo significativo, La vita come ricerca, nel quale le esigenze e gli interessi della ‘nuova generazione’ si rifrangono con efficacia, sia pure in modo tumultuoso e contraddittorio; ma è significativo che Gentile lo facesse criticare in modo assai severo sul «Giornale critico della filosofia italiana» da Delio Cantimori che, per parte sua, aveva ormai trovato una propria strada, altrettanto lontana da quella del vecchio maestro. Sotto l’urgere di eventi eccezionali, il mondo – anche quello della cultura e della filosofia ‒ aveva cominciato a muoversi; ma in direzioni nuove ed estranee al neoidealismo nelle sue varie forme, avvertito ormai, nella sua interezza, come un pensiero legato al passato. E questo conferma un dato sul quale si è già richiamata l’attenzione: nella prima parte del 20° sec. il quadro della filosofia italiana è assai più mosso e variegato di quanto in genere si sia pensato; ed è anche segnato da crisi, incrinature, cesure assai lontane dall’immagine unitaria, monolitica, tradizionale a lungo dominante.
Il che non toglie né che Croce e Gentile abbiano continuato a lavorare, pubblicando libri importanti (poco prima di morire Gentile conclude Genesi e struttura della società, 1944); né che abbiano continuato a polemizzare tra di loro, su tutti i piani, compresa la questione delicatissima dello storicismo, sul quale Gentile interviene nuovamente nel 1941 con un saggio pubblicato sugli «Annali della Scuola Normale superiore di Pisa», dal titolo assai chiaro: Storicismo e storicismo.
Ma nonostante i loro sforzi, le filosofie dell’epoca erano ormai altre. Dato, questo, che risalta con altrettanta chiarezza se si considerano gli itinerari dei più interessanti esponenti della nuova generazione di filosofi italiani, che cominciavano allora a imporsi nella vita scientifica e accademica, e che avranno poi un peso assai notevole nell’età della Repubblica, sia nella discussione filosofica che in quella culturale e politica.
È rischioso ricorrere al concetto di generazione, da usare sempre con prudenza e misura. Ma, certo, quella nata al tornante degli anni Dieci è una ‘generazione’. A essa appartengono personalità come Norberto Bobbio, Garin, Cesare Luporini – tutti nati nel 1909; ma anche Nicola Abbagnano o Luigi Pareyson ‒ nati l’uno poco prima, l’altro poco dopo ‒ rientrano, sia pure con diverse sensibilità, in un clima per molti versi affine dal punto di vista filosofico. In positivo o in negativo, aderendo o criticando, essi si misurano con tematiche di carattere ‘esistenziale’. Abbagnano pubblica Esistenzialismo positivo (1948); Luporini Situazione e libertà nell’esistenza umana (1942, il libro più importante dell’esistenzialismo italiano); Pareyson La filosofia dell’esistenza (1940). Ma questo tipo di tematiche, e di sensibilità, echeggia in modo assai netto ‒ e ciò ne dimostra l’intensità e la diffusione ‒ anche in testi che, almeno sul piano ‘tecnico’, non sono dedicati in modo esplicito alla discussione filosofica contemporanea.
È il caso dei saggi sul Rinascimento che Garin scrive in questo periodo, nei quali i temi ‒ e il lessico ‒ dell’esistenzialismo (sia pure curvato in direzione spiritualistica), sono nettissimi, anche se non sono sempre stati decifrati, per una sorta di pregiudizio, con la necessaria attenzione. Eppure, per vedere in azione questi temi basta leggere la lunghissima Introduzione al volume sui Filosofi italiani del Quattrocento pubblicato nel 1943 dall’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento. Oppure la Storia della filosofia pubblicata dall’editore Vallecchi, uno dei suoi testi più efficaci e appassionati: qui i temi esistenziali non sono più filtrati attraverso i grandi autori del Rinascimento, ma vengono proposti in presa diretta, senza mediazioni, come risulta dai riferimenti espliciti, e fortemente coinvolgenti, a pensatori come Nikolaj A. Berdjaev, Karl Barth o a René Le Senne e Louis Lavelle, quest’ultimo citato da Garin, in forma implicita, a conclusione del suo lavoro.
Né sono meno sintomatici ‒ anche alla luce della curvatura religiosa alla quale or ora si faceva riferimento ‒ il rilievo che, sul piano storico, egli dà, negli scritti di quegli anni, alla figura di Girolamo Savonarola, sottolineandone – e valorizzandone ‒ il contrasto con gli umanisti; e l’adesione aperta e dichiarata al pensiero di Lev N. Tolstoj (del quale in questi anni pubblica una raccolta di pagine assai significative proprio sul tema, centrale per lui, a quella data, della riforma interiore come condizione della riforma sociale).
La Storia della filosofia di Garin e gli articoli da lui pubblicati fra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta consentono anche di vedere in modo diretto il generale, e simmetrico, distacco da Croce di questa ‘generazione’: nel 1941 Garin ne critica lo storicismo, risolvendolo in una forma di relativismo; nel 1945 ne ribadisce il fatalismo; nel 1946 lo presenta come un pensatore classico, ma incapace di parlare ai giovani, a differenza di Papini e, in sostanza, di Gentile, dal quale a quella data Garin è invece assai distante a proposito dell’interpretazione del Rinascimento. A differenza di Croce, per il giovane Garin – e anche questo va notato ‒ Gentile appartiene al clima di quella ‘filosofia della libertà’ nella quale egli, in quel periodo, si riconosceva.
Naturalmente, su questo sfondo comune è necessario fare almeno due precisazioni. In primo luogo, pur in una comune sensibilità di tipo esistenziale, questi autori muovono da punti di vista diversi e procedono in direzioni differenti: Luporini studia con Heidegger in Germania, a Friburgo, mentre lo scrittoio di Garin è pieno di testi di area francese ‒ da Le Senne a Lavelle, da Jean Wahl a Gabriel-Honoré Marcel; Bobbio, poi, in La filosofia del decadentismo (1944) assume nei confronti dell’esistenzialismo un atteggiamento nettamente critico, e per certi aspetti è forse quello più legato all’eredità del pensiero di Croce, mentre è certamente il più lontano da Gentile (su cui esprimerà sempre giudizi assai severi, anche di ordine morale). In secondo luogo, in questa generazione ci sono pensatori che scelgono prospettive completamente differenti, come Ludovico Geymonat, il quale stabilisce solidi contatti con il Circolo di Vienna, avviando una ricerca che sarebbe stata fondamentale per il costituirsi in Italia di una moderna filosofia della scienza, estranea, come si è detto, al neoidealismo italiano e in pieno sviluppo, invece, nei centri nevralgici della filosofia sia europea che americana.
Ma in entrambi i casi ‒ e su questo si vuole richiamare l’attenzione ‒ si è comunque lontani, ormai, dai testi e dal clima del neoidealismo italiano; né c’è dubbio sul fatto che in questo distacco le tematiche ‘esistenziali’ abbiano svolto un ruolo decisivo. Quando Giuseppe Bottai, anche per trasparenti ragioni politiche, pubblicò sul «Primato» (1943) l’inchiesta sull’esistenzialismo, invitando a collaborarvi i giovani più interessanti del panorama filosofico italiano, prese atto con lucidità di quella che era, a quella data, la situazione.
Il riferimento appena fatto a Garin e al suo lavoro storico consente di chiarire un altro punto importante: parlando della filosofia idealistica, si sbaglierebbe se si limitassero l’analisi e il giudizio solo ai testi tecnicamente filosofici.
Le cose non stanno così per un motivo teorico fondamentale, interno a questa posizione. Occorre guardare anche al mondo degli storici in senso proprio; s’intende, a quelli che si riconoscono nella «riforma intellettuale e morale» idealistica (per riprendere la formula di Ernest Renan, amata da Gramsci).
Né questo ovviamente stupisce: Croce interpreta la filosofia (momento della «malattia») come metodologia della storiografia (momento della «sanità»); Gentile insiste sul circolo di filosofia e storia della filosofia. Sia l’uno che l’altro tengono fermo il concetto della storia come ‘storia contemporanea’. Ed esso a sua volta coinvolge il problema, cruciale, del rapporto tra res gestae e historia rerum gestarum. Sul quale – e questo a conferma della sua centralità ‒ si apre una dura polemica fra Croce e Gentile prima della guerra, alla quale partecipa in prima persona uno dei migliori allievi ‘palermitani’ di Gentile, Adolfo Omodeo.
Volutamente si è fatto il suo nome: si tratta forse dello storico più insigne della scuola neoidealistica: i suoi lavori sulle origini cristiane, in «difesa del risorgimento», su Camillo Benso di Cavour, sulla cultura della Restaurazione rappresentano, senza alcun dubbio, il punto più alto cui essa è arrivata, in Italia. E, in coerenza con il suo impianto originario, questi lavori sono stati accompagnati da una persistente, e programmatica, polemica di carattere teorico, rivolta in modo prioritario contro quello che Omodeo chiamava lo «storicismo formalistico», intendendo con questo termine le posizioni e gli atteggiamenti dei seguaci del suo vecchio maestro Gentile (che infatti protestò vivamente quando vide pubblicato l’articolo così intitolato sul «Leonardo» diretto da Luigi Russo).
Questo riferimento getta però luce su un altro aspetto importante della filosofia italiana in questo periodo; tanto più importante, se si tiene conto della situazione storica in cui essa si svolge. Getta luce sulla complessità, e l’articolazione, dei rapporti all’interno dello stesso fronte neoidealistico e sul modo ‒ né meccanico, né immediato ‒ con cui si pongono, nel suo ambito, i rapporti tra filosofia e politica.
La rottura di Omodeo con Gentile fu provocata da problemi insorti nel corso della sua collaborazione all’Enciclopedia Italiana e, in modo specifico, dal contrasto tra l’impostazione delle sue ‘voci’ e quella di padre Pietro Tacchi Venturi, al quale Gentile si era rivolto per le ‘voci’ concernenti la storia del cristianesimo. Né è difficile immaginare quali motivi l’avessero spinto, nella seconda metà degli anni Venti, a fare una scelta di questo genere. Omodeo, però, si sentì colpito direttamente, sia sul piano personale che su quello scientifico, dall’atteggiamento e dalle valutazioni espresse dal direttore dell’opera sul suo lavoro, e mise fine, in un colpo solo, sia alla sua collaborazione con l’Enciclopedia che ai rapporti con Gentile, da cui era ormai lontanissimo per le scelte politiche che aveva fatto. Ma la rottura politica non implicò un distacco altrettanto drastico di Omodeo da temi e motivi dell’attualismo, e dal modo con cui egli continuò a concepire il processo storico e la funzione di quelle che definiva le «primavere» che esplodono nella vita dei popoli, come, per es., nell’Atene del 5° sec., al cui studio aveva deciso di dedicarsi proprio pochi mesi prima di morire.
Nell’ambito del neoidealismo le scelte di carattere politico non corrispondono in modo lineare a opzioni di ordine teorico, come dimostra l’esperienza di altri scolari di Gentile – da Guido Calogero e Luporini allo stesso Cantimori. Ma in questo rapporto ‒ certo complesso e spesso asimmetrico ‒ è tuttavia la politica a dettare i tempi e a definire il campo delle scelte fondamentali. Dopo la guerra, i rapporti di Omodeo con Croce entreranno in crisi, e anche stavolta per una divergenza di carattere ideologico e politico: Croce scelse di schierarsi per il Partito liberale, mentre Omodeo, in nome della «libertà liberatrice», scelse il Partito d’azione. Ma anche in questo caso le distanze di ordine politico non implicarono cesure di ordine teorico; tanto meno di ordine personale.
Nelle commosse pagine che Croce dedicò a quello che considerava il «secondo autore» della «Critica» egli ricordò quanto il lavoro di Omodeo fosse stato importante e quanto avrebbe pesato su tutti la sua morte, specie su di lui, sul suo lavoro, sui suoi progetti. A Omodeo infatti Croce aveva deciso di affidare la direzione dell’Istituto italiano di studi storici che aveva in animo di fondare ‒ come in effetti fece di lì a poco, nominandone direttore Federico Chabod. Ma Chabod era una personalità assai diversa da Omodeo, né era interessato a mantenere, nel lavoro storiografico, l’unità del circolo di ‘filosofia’ e ‘storiografia’, secondo i principi propri della riforma di Croce (e di Gentile): come risulta con chiarezza dal saggio che dedica a Croce storico (1952), Chabod si muoveva su un’onda molto diversa.
Su questo sfondo, la morte di Omodeo, avvenuta nel 1946, illumina ‒ come in uno specchio frantumato ‒ la fine di un’epoca della filosofia italiana.