JAINA, Iconografia
Il jainismo è concepito come una via di salvazione, salvazione dalla rinascita. Il suo fondatore, Mahāvīra, fu contemporaneo del Buddha; entrambi morirono probabilmente nel IV sec. a.C. Sia Mahāvīra che i suoi 23 predecessori sono detti Jina («vincitori») e godono di una condizione semi-divina. Da tale titolo spirituale prendono nome sia la religione sia i suoi seguaci (jaina o jainisti). Vi sono molte divinità jaina, ma non svolgono alcun ruolo nel processo di salvazione. La dottrina jaina contiene molti elementi che esulano dal suo nucleo etico-soteriologico. Jainismo e buddhismo si diffusero dal Bihar, nell'India settentrionale, ad altre parti del subcontinente. Il jainismo è ancor vivo in India ma, diversamente dal buddhismo, non ha mai fatto proseliti fuori dei confini indiani. La comunità jaina si divide in due confessioni: Digaṃbara e Śvetāṃbara.
L'arte jaina esprime lo spirito del jainismo in un modo del tutto peculiare, ponendo l'accento sulla rappresentazione dei Jina, ma si configura come uno sviluppo sui generis piuttosto che come uno specchio fedele della dottrina o di alcuni suoi aspetti. È necessario distinguere tra un'iconografia dei Jina, che ha per soggetto le figure e le immagini dei Jina, e un'iconografia j. che ha per soggetto tutti gli aspetti dell'arte visiva del jainismo.
Quanto segue riguarda l'iconografia j. dal 100 a.C. al 750 d.C., ossia i primi tre dei periodi qui elencati:
Periodo I (100 a.C.-100 d.C.): l'iconografia j. è testimoniata da rappresentazioni scultoree su monumenti rupestri, pressoché prive di motivi specifici.
Periodo II (100 d.C.-550 d.C.): si assiste all'evoluzione e alla piena maturità dell'arte e dell'iconografia j. nell'India settentrionale. I Jina sono il soggetto principale delle raffigurazioni.
Periodo Intermedio (550-750 d.C.): si veda il relativo paragrafo.
Periodo III (750-1000 d.C.): le varie tradizioni regionali si diversificano e nell'iconografia vengono incluse anche rappresentazioni di altre divinità jaina, sia maschili sia femminili.
Periodo IV (1000-1500 d.C.): questa ultima suddivisione, designata per semplicità come periodo, definisce l'arte Svetämbara dell'India occidentale nella sua piena maturità (scultura e miniatura).
Per facilitare la comprensione dell'iconografia j. è opportuno fare alcune premesse. Innanzitutto è indispensabile sottolineare il fatto che il rapporto tra testi e immagini (cioè fra letteratura e arte) è molto meno stretto di quanto ci aspetteremmo: vi sono infatti tra essi non solo divergenze, ma anche tipi diversi di divergenze. Si aggiunga che l'identificazione delle immagini, e in particolare di quelle dei 24 Jina, è spesso dubbia. Di regola si dovrebbe sempre porre la dovuta attenzione all'«uso» e alle convenzioni iconografiche del periodo e della regione in esame.
Che l'iconografia non sia uniforme risulta già dal nostro schema, suddiviso in cinque sezioni. Di fatto, l'arte jaina di un dato periodo va vista non solo in quanto tale ma anche come «arte di quel dato periodo» (hindu-buddhista-jaina) così come avviene per qualsiasi forma di arte indiana quando più religioni convivono. È soprattutto nell'ubiquità delle immagini dei Jina che va ricercata la continuità e l'«identità» dell'arte jaina. Altrimenti si correrebbe il rischio di mettere in evidenza qualsiasi elemento iconografico, purché non strettamente connesso con una specifica tradizione non jaina (nel caso, p.es., dell'iconografia hindu, con immagini certe di Viṣṇnu o Śiva).
È altrettanto doveroso evitare ogni possibile fraintendimento del termine «sviluppo» che, se adoperato in tutte le sue connotazioni, implicite ed esplicite (nel senso di carattere organico, continuità, ecc.), porta a semplificazioni fuorvianti. Nonostante l'uso volutamente generalizzato che si è fatto del termine iconografia, in alcuni contesti si è preferito parlare piuttosto di «arte» (p.es. arte jaina antica).
La definizione di un Periodo Intermedio fra i Periodi II e III potrebbe sembrare artificiosa ma è inevitabile poiché esso, pur non essendo un vero e proprio periodo, è più di un'indistinta epoca di transizione. Quando si parla di «antica iconografia j.», ci si riferisce infatti ai primi due periodi più l'Intermedio, che si differenziano nettamente dai successivi Periodi III e IV. Tale periodizzazione non ha tuttavia evitato la necessità di riferirsi talvolta, nel corso della discussione, agli sviluppi più tardi.
L'iconografia del Periodo I. - Questo periodo è, grosso modo, comune sia all'iconografia j. sia a quella buddhista. L'iconografia attinge ai temi della religione popolare che ha sempre rappresentato un elemento vitale della storia delle religioni indiane, pur essendo un fenomeno non ben definito. Tale «religione popolare», pur avendo prodotto pochi monumenti degni di nota, possiede tuttavia una sua propria iconografia, ricca e coerente, almeno entro certi limiti: fra gli oggetti di culto ricordiamo gli alberi e i corrispettivi spiriti, i serpenti e i relativi demoni, dèi e dee teriomorfe. Mancano testi sacri espressione della religione popolare, ma non possiamo escludere che esistessero raccolte mitologiche, riti religiosi e composizioni letterarie minori (inni, ecc.). Questa religione è sopravvissuta solo in quanto è stata assorbita nelle tradizioni religiose superiori (jainismo, buddhismo, ecc.) e nella religione popolare, non ufficiale, odierna, che ne conserva memoria. Fra i monumenti jaina, quelli che maggiormente conservano le iconografie della religione popolare sono gli ambienti rupestri delle alture gemelle di Udayagiri e Khandagiri (v. śiśupālgarh) presso Bhubaneshwar (Orissa).
Nel pannello all'ingresso della grotta 3 di Khandagiri è raffigurata una scena di culto di un albero; la cornice a forma di ferro di cavallo è decorata con due file di oche, e l'intera composizione è coronata da due cobra addorsati, a più spire, col simbolo del nandyāvarta tra di loro.
Nell'arte buddhista è possibile distinguere tra Periodo I e Ιa. Il primo corrisponde al Periodo I dell'arte jaina, mentre il secondo ha per soggetto storie buddhiste, e amalgama due diversi vocabolarî iconografici, quello della religione popolare e quello buddhista vero e proprio. Il Periodo la segue quello I solo in termini evolutivi, senza rispecchiare una successione cronologica. La religione popolare ha d'altronde un legame molto più stretto con l'induismo che con il buddhismo o il jainismo.
Architettura jaina dei Periodi I e II. - È difficile comprendere gli schemi iconografici di questi periodi senza una conoscenza, sia pur sommaria, della tipologia architettonica. L'attività edilizia dei jaina fu più limitata di quella buddhista, ma anch'essi costruirono stūpa e monasteri rupestri. Tuttavia, gli stūpa jaina giunti sino a noi sono piuttosto pochi (Mathurā: sito di Kaṇkālī Tīlā), e i monasteri (Udayagiri/Khandagiri) sono diversi dai più spaziosi ambienti rupestri buddhisti: si presentano come semplici file di celle abbellite solo dagli antistanti portici decorati. Degna di nota è una struttura absidata a Udayagiri, raro corrispettivo jaina dei famosi caityagṛha buddhisti. All'epoca gupta risale il pilastro, datato al 460 d.C., di Kahaum nel distretto di Gorakhpur, che reca scolpite immagini di Jina, quindi un precursore dei numerosi mānastaṃbha (ovvero «pilastri della fierezza») che si ergono nei pressi di molti monumenti jaina del Periodo III.
Il vocabolario del Periodo II. - Con il termine «vocabolario» si intende designare quei dati iconografici che oltre a essere condivisi da tutte le rappresentazioni artistiche di un dato periodo sono anche tipici del periodo stesso. Tale caratterizzazione, col rilevare la relativa autonomia di ogni singolo periodo, non soddisfa la contraddittoria necessità di enucleare alcuni fatti di importanza generale. Il modo seguìto nel trattare il Periodo I ignora tutte quelle che si potrebbero chiamare le immagini ipotetiche più antiche del Jina e del Buddha: non vengono dunque prese in considerazione né le immagini menzionate nei testi (e forse anche in alcune iscrizioni) di cui non resta traccia, né quelle immagini antiche dei Jina attestate un po' ovunque che non possiamo affermare con sicurezza appartengano al Periodo I. Si tralasciano anche le rare raffigurazioni «precanoniche» dei Jina su elementi architettonici.
Nel Periodo I le figure del Jina e del Buddha sono puramente congetturali o suggerite da elementi incerti, mentre già nel Periodo la, il Buddha viene regolarmente reso in forma simbolica (come albero, ecc.). È solo nel Periodo II (estendendo ancora una volta la nostra periodizzazione all'arte buddhista) che sia il Buddha sia il Jina cominciano a essere rappresentati in forma iconica, vale a dire in sembianze umane. I tipi del Jina e del Buddha sono in relazione stretta. L'iconografia j. del Periodo II è essenzialmente quella del Jina, come la contemporanea iconografia buddhista dell'India settentrionale è essenzialmente quella del Buddha.
La storiografia jaina tradizionale si occupa soprattutto della serie dei 24 Jina, ovvero dei fondatori della religione jaina. Mentre i primi 22 sono mitologici, gli ultimi due sono storici. Il ventitreesimo, Pārśva, deve essere vissuto un certo numero di generazioni (250 anni secondo la tradizione) prima dell'ultimo, Mahāvīra. Pārśva è quindi il predecessore di Mahāvīra sia dal punto di vista mitologico sia da quello storico. Nell'arte figurativa esistono varí modi per distinguere i diversi Jina: a tal scopo, possiamo far riferimento a una duplice classificazione in sistema A e sistema B. Il sistema A comprende i 24 nomi nella forma in cui compaiono nelle iscrizioni sulle immagini e i rispettivi 24 cihna, emblemi rappresentati sotto le figure dei varî Jina. Non è il caso di dare eccessiva importanza, per quanto riguarda l'iconografia j. antica, alle piccole varianti tra le due liste. L'elenco è tratto dal cap. 4 del Trilokaprajñapti, un testo più tardo (500-750 d.C.) appartenente alla tradizione Digaṃbara.
1 - Ṛṣabha (toro); 2 - Ajita (elefante); 3 - Saṃbhava (cavallo); 4 - Abhinandana (scimmia); 5 - Sumati (uccello, koka); 6 - Padmaprabha (loto, padma); 7 - Supārśva (svastika a labirinto); 8 - Candraprabha (mezzaluna); 9 - Puṣpadanta (makara, cioè mostro marino); 10 - Sitala (svastika); 11 - Śreyāmsa (rinoceronte); 12 - Vāsupūjya (bufalo); 13 - Vimala (cinghiale); 14 - Ananta (porcospino, seha); 15 - Dharma (vajra, folgore, arma); 16 - Sānti (antilope, harina); 17 - Kunthu (capra); 18 - Ara (fiore dell'albero tagara); 19 - Malli (olla); 20 - Munisuvrata (tartaruga); 21 - Nami (ninfea, utpala); 22 - Ariṣṭanemi (conchiglia a chiocciola); 23 - Pārśva (serpente); 24 - Mahāvīra (leone).
Nell'antica arte jaina, i cihna vengono per lo più raddoppiati, ma, al pari dei riferimenti scritti, compaiono solo su un numero molto limitato di immagini.
Il sistema Β (infra), diversamente da quello A, è meno rigido. Tale sistema è applicabile soltanto a un numero limitato di Jina e serve per lo più a sottolineare la doppia opposizione esistente fra il primo Jina, Rsabha, e tutti i Jina successivi da un lato e fra Pārśva (il n. 23) e gli altri (i nn. 1-22 e 24) dall'altro.
Tutti gli elementi presenti in questi due sistemi vengono qui denominati «attributi personali» in opposizione ai c.d. «attributi generici» che distinguono i Jina dalle altre divinità. Il trono leonino, p.es., peraltro raro, è un «attributo generico» condiviso sia dal Jina che dal Buddha. La distinzione fra attributi «personali» e «generici», non nuova, è utile in molte aree artistiche. È tuttavia opportuno ricordare che qui interviene il vocabolario degli «attributi» (se accettiamo questa definizione), sottoposto a mutamenti, di modo che gli adeguati standard metodologici possono essere mantenuti solo nel caso in cui esista una chiara definizione del soggetto. È solo nel Periodo II, p.es., che ci troviamo di fronte a un parallelismo fra i Jina e i Buddha. Di contro è solo nell'iconografia j. che un attributo negativo quale la nudità assume importanza. Ne consegue che alcuni concetti generali come la definizione dei «tipi paralleli» o degli «attributi positivi contro quelli negativi» sono alquanto vaghi, e una discussione basata su un così alto grado di generalizzazione non può essere di grande utilità. Ogni regione possiede una sua grammatica artistica.
I due elementi distintivi delle raffigurazioni dei Jina sono l’«anatomia soprannaturale» (il termine è mutuato dagli studi sull'arte buddhista) e il parikara (che letteralmente significa «cintura»). Con il primo termine si indicano peculiarità anatomiche di vario tipo presenti nelle immagini di santi e divinità, ma in particolare del Jina e del Buddha. Con il secondo termine si indica invece l'insieme dei motivi che possono circondare la figura principale. L'insieme di tali motivi è, ancora una volta, una peculiarità delle immagini del Buddha e del Jina. In entrambi i casi, ma soprattutto nel caso delle immagini del Jina, dove questi rappresenta la figura principale, si nota una forte dicotomia fra il protagonista della scena e i motivi secondari. Ne risulta una rigida divisione dello spazio figurato senza alcun contatto fra le due parti. Non è possibile soffermarsi sui varí gradi di connessione e relazione, ma basterà ricordare che i motivi del parikara sono per lo più, anche se non esclusivamente, attributi regali (è questo il caso del trono leonino), e che non mancano motivi mutuati dall'antica «religione» dei simboli (si veda il motivo del dharmacakra ovvero della «Ruota della Religione»), In contesti iconografici non jaina, il legame tra figura principale e motivi circostanti è in genere più stretto, sia dal punto di vista formale, sia dei contenuti.
La canonicità è un altro importante tema non interamente considerato dal «vocabolario degli attributi». Esistono infatti regole rigide valide sia per la figura principale sia per i motivi secondarî. Tali regole impongono limitazioni nella scelta dei motivi e in quella delle formule (il modo in cui un motivo può essere rappresentato). Ne deriva che tutta l'arte jaina prevede solo due posizioni del Jina: egli può infatti venir rappresentato o stante in meditazione, o seduto in meditazione, ed entrambe le posizioni non sono soggette alla benché minima variazione, salvo in alcuni rari casi dell'arte più tarda. Ancora, il dharmacakra è sempre posto al centro del piedistallo. È proprio l'alto grado di canonicità dell'arte jaina che ha causato l'erronea accusa di monotonia. È dunque necessario che uno studio di carattere generale sull'arte jaina selezioni innanzitutto le immagini in modo da porne adeguatamente in rilievo la notevole varietà, nonostante la rigida canonicità.
Nel Periodo II (ed entro certi limiti anche nell'arte jaina più tarda) il ruolo principale delle composizioni spetta, per lo più, ai Jina. Solo in alcuni casi, come, p.es., nell'icona della dea jaina Sarasvatī, il Jina non rappresenta la figura principale: si tratta di «immagini jaina» piuttosto che di «immagini del Jina». In questo periodo l'inventario dei tipi e dei sottotipi iconografici (Mahāvīra, ecc., Ṛṣabha, ecc.) è ancora limitato.
Nell'arte indiana le iscrizioni sulle immagini in genere si riferiscono alle circostanze della donazione (nomi dei donatori, dei parenti del donatore e così via). Esse assumono importanza iconografica solo nel caso in cui forniscono i nomi delle divinità rappresentate su esemplari di un certo rilievo. Inoltre tali iscrizioni, in particolare per il Periodo II, possono essere di aiuto nella determinazione della cronologia relativa e assoluta del pezzo. La cronologia è uno strumento fondamentale dello studio iconografico, a cui fornisce una matrice di base. Dobbiamo saper distinguere tra opposizioni sincroniche e cambiamenti diacronici.
Le evidenze del Periodo II. - I resti scultorei dell'arte jaina del Periodo II sono quasi del tutto concentrati nel triangolo formato dalle città di Mathurā, Chausa (distretto di Bhojpur), e Udayagiri (distretto di Vidiśā).
I Kuṣāṇa e i Gupta ne rappresentano il retroscena dinastico (la produzione pre-kuṣāṇa di Mathurā esula dal nostro tema).
I Kuṣāṇa, di origine centroasiatica, governarono in India su un territorio che comprendeva i numerosi centri artistici del Gandhāra e Mathurā (la città e l'area circostante). La cronologia di questa dinastia è controversa. G. von Mitterwallner, nell'accettare l'esistenza di due sovrani dal nome Kaniṣka (v.), sostiene che entrambi fondarono una propria era: Kaniṣka I intorno alla metà del II sec. d.C., Kaniṣka II quasi esattamente 100 anni dopo l'ascesa al trono di Kaniṣka I. Le sculture kuṣāṇa datate apparterrebbero sia alla prima, sia alla seconda era.
La dinastia Gupta, che controllava gran parte dell'India centrale e settentrionale, conquistò il potere nel 319 d.C. e fiorì fino alla metà del VI sec., ma lo stile gupta sopravvisse alla fine della dinastia e durò per tutto il VI secolo. Mathurā fu occupata dai sovrani Gupta alla fine del IV sec. quando i Kuṣāṇa avevano ormai perso la loro influenza e la situazione politica era diventata difficile e instabile.
Le prime rappresentazioni iconiche del Buddha comparvero quasi contemporaneamente sia nelle regioni nordoccidentali (Gandhāra) che in quelle orientali del regno Kuṣāṇa (Mathurā). Le immagini del Jina (sempre rappresentato completamente nudo) furono invece confinate alla sola Mathurā dove apparvero comunque più o meno contemporaneamente a quelle del Buddha, e cioè prima di Kaniṣka I.
Da un punto di vista cronologico, l'arte jaina di epoca kuṣāṇa sembra appartenere a quella stessa fase di sviluppo del jainismo che ci ha lasciato un gruppo di opere letterarie tra loro simili, isolabili all'interno del canone Śvetāmbara: il Paryuṣaṇākalpa, l‘Aupapātika, il Rājapraśnīya, e diverse altre. Sotto i Kuṣāṇa, l'arte jaina fiorì quasi esclusivamente a Mathurā. Fu solo più tardi, sotto i Gupta e successivamente (in epoca coeva al nostro Periodo Intermedio), che essa si diffuse altrove. Tale espansione comportò un pluralismo di stili e iconografie, o meglio, un accresciuto pluralismo. Lo sviluppo dell'arte jaina nel Periodo II non può essere spiegato in riferimento a un solo modello; vi erano infatti irregolarità di vario genere. Qui si intende considerare soprattutto l'iconografia intesa nel senso più ristretto del termine (tipi, sottotipi e relativi attributi) e non tutti i motivi esistenti. Diversamente che in epoca kuṣāṇa, in epoca gupta i pezzi datati sono rari. Un esempio è il pilastro di Kahaum (460 d.C.). Risalgono a quest'epoca alcuni bronzi (per lo più immagini del Jina) che sono stati rinvenuti a Chausa (distretto di Bhojpur, Madhya Pradesh); appartengono a momenti diversi e si differenziano anche per il particolare idioma locale.
L'iconografia del Periodo II. - Il più antico tentativo sistematico ed estensivo fatto dalla comunità jaina per produrre oggetti di culto dai caratteri originali sono gli āyāgapaṭa. Questi sono lastre quadrate che presentano un caratteristico modello di composizione che le differenzia da altre lastre simili appartenenti ad altri contesti. Il culto di lastre simili ad altari è attestato sia nei rilievi in pietra sia nella letteratura contemporanea. Gli āyāgapaṭa di Mathurā sono per lo più anteriori a Kaniṣka o addirittura pre-kuṣāṇa. Mostrano spesso un Jina seduto al centro ma, allo stesso tempo, rimandano a un tipo di culto o di «religione» che lascia ampio spazio ai simboli e che è ben rappresentato sia durante sia subito dopo il Periodo I. Da un punto di vista strettamente formale, questi simboli costituiscono motivi indipendenti di natura relativamente semplice. Tali simboli, pur se diversi tra loro, sono di tipo astratto piuttosto che naturalistico; in quest'ultimo caso, ritraggono oggetti inanimati piuttosto che animati. Nell'antico pantheon simbolico indiano, il gruppo più importante è quello degli aṣṭamaṅgala, ovvero gli otto motivi di buon auspicio più volte menzionati nel canone Śvetāmbara. Alcuni motivi compaiono prevalentemente o esclusivamente come unità di tale insieme; altri, isolati. Taluni sono soggetti a variazioni, altri sono sempre resi più o meno allo stesso modo. Di regola, raggruppamenti diversi non hanno in comune tutti e otto i motivi. Un noto āyāgapaṭa da Mathurā di due o tre decenni anteriore all'ascesa al trono di Kaniṣka I, raffigura, fra l'altro, un Jina seduto al centro di un gruppo di aṣṭamaṅgala. Gli otto maṅgala sono disposti su due file di quattro elementi ciascuna, poste al di sopra e al di sotto del pannello principale: 1 - due pesci, 2 - un motivo non identificato, 3 - un motivo astratto (śrīvatsa), 4 - uno scrigno rotondo (vardhamānaka), 5 - un altro motivo astratto (nandyāvarta?), 6 - una ciotola di foglie, 7 - uno sgabello, 8 - un vaso con fiori.
Per descrivere a grandi linee il Periodo II, è necessario cominciare dalla presentazione del nostro sistema B. Pārśva, il ventitreesimo Jina, si distingue dagli altri poiché viene rappresentato con un cobra sul retro. Il cobra può avere sette o, più raramente, cinque «cappucci». La versione completa del motivo del serpente prevede, oltre al «cappuccio», la resa delle pieghe del corpo a forma di «forcine da capelli»; la versione ridotta prevede il solo «cappuccio». Conviene considerare tale combinazione come una singola figura. Elemento distintivo di Ṛṣabha, il primo Jina, sono le trecce. Questo attributo non è attestato in epoca anteriore a Kaniṣka II e consiste di trecce parallele. Gli altri Jina mostrano: 1 - «capelli lisci» (superficie della testa liscia); 2 - «capelli ondulati» (resi come file sovrapposte di linee semicircolari); 3 - «riccioli» (riccioli a chiocciola). Sia i capelli lisci sia quelli ondulati scompaiono dopo il Periodo II. L'opposizione fra Pārśva e i non-Pārśva è antica quanto l'iconografia j., mentre quella tra Ṛṣabha e i non-Ṛṣabha sembra collegata all'introduzione delle icone della sarvatobhadrikā (ν. infra) all'epoca di Kaniṣka II. Il motivo del serpente, il cobra, variamente reso, è comune a tutta l'iconografia indiana, e le trecce sono ampiamente attestate nelle immagini di Śiva e nell'iconografia scivaita. Manca, tuttavia, una spiegazione soddisfacente per l'attribuzione del motivo delle trecce a Rsabha e di quello del serpente a Pārśva. Similmente mancano criteri validi per distinguere, nell'ambito del sistema B, alcuni Jina dagli altri. L'espediente di una «caratterizzazione speciale» era impiegato anche nel caso di alcuni altri Jina nell'arte jaina antica e in quella più tarda, ma quasi mai per Mahāvīra. Per tutti i Jina rappresentati in un dato contesto iconografico (qui nel Periodo II) t sprovvisti di qualsiasi «caratterizzazione speciale» usiamo l'espressione «altro Jina». Essa non è necessaria quando gli artisti distinguono soltanto tra Pārśva e gli altri Jina.
La nudità dei Jina stanti è naturalmente non solo implicita come nel caso dei Jina assisi, ma manifesta. I Jina assisi sono dunque più vicini al tipo del Buddha che ai Jina stanti. Tuttavia i Buddha coevi si distinguono dai Jina seduti grazie alla pesante pieghettatura delle vesti. In epoca kuṣāṇa, l'«anatomia soprannaturale», così come noi la intendiamo, sembra limitarsi al segno dello śrīvatsa sul torace e ai lobi allungati.
Una lastra frammentaria da Mathurā datata all'anno 99 dell'era di Kaniṣka I nel registro superiore mostra la sequenza non-Pārśva - stūpa - Pārśva - non-Pārśva. È questo forse il primo caso in cui Jina diversi (diversi secondo il sistema B) vengono rappresentati uno accanto all'altro. Una scena narrativa occupa il pannello principale. Le scene narrative o semi-narrative sono estremamente rare nell'antica arte jaina. Ma qui un monaco (indicato come il «monaco Kaṇa» nell'iscrizione a destra della testa) è fatto oggetto di venerazione da parte di una donna che gli sta di fronte e da altre tre figure più piccole che gli stanno dietro (un demone-serpente che emerge da un lago e altre due o tre figure umane che compaiono ancora più in basso). Simili scene di adorazione rappresentano uno dei temi favoriti sui piedistalli delle immagini kuṣāṇa (sia del Jina che del Buddha). In tal caso però le figure sono disposte in modo simmetrico in modo da formare una composizione che non è propriamente narrativa e il cui oggetto di culto è un dharmacakra posto al centro del fregio. Fra gli adoranti raffigurati sui fregi dei piedistalli, si possono individuare monaci seminudi, gli ardhapālaka. Essi sono raffigurati con un pezzo di stoffa, a volte abbastanza ampio e pieghettato, che può essere usato come veste. Esempio di ardhapālaka è appunto il monaco Kana della lastra sopra menzionata. Egli reca la suddetta stoffa sull'avambraccio sinistro mentre ha nella mano destra una scopa dal manico corto. La scopa serve ad allontanare gli insetti dal terreno per timore che possano essere uccisi o feriti. Gli oggetti che i monaci portano non hanno solo una funzione pratica, ma hanno talvolta carattere di attributo.
Una scultura di età kuṣāṇa da Mathurā, datata all'anno 15 (con riferimento, secondo Bruhn, a Kaniska II), rappresenta un tipo di icona frequente nell'arte indiana: un elemento centrale (in questo caso un pilastrino) reca sui lati quattro figure umane o motivi dello stesso tipo (teste, ecc.). Possiamo osservare, in senso orario, i seguenti personaggi: Pārśva, un altro Jina (con i capelli ondulati), un altro Jina (con i riccioli) e infine Ṛṣabha. Le sculture jaina di Mathurā a quattro immagini (a cui le iscrizioni si riferiscono con il termine sarvatobhadrikā pratimā ovvero «immagini che possono essere apprezzate da tutti e quattro i lati») mostrano, invariabilmente, quattro Jina stanti. Tali sculture non differiscono sostanzialmente dalle coeve quadruplici icone scivaite. Non ve n'è alcuna tra quelle antiche che non mostri il Jina Ṛṣabha e, di converso, non vi è alcuna immagine di Ṛṣabha di epoca kuṣāṇa se si escludono quelle che compaiono sulle icone sarvatobhadrikā. La tipologia standard di epoca kuṣāṇa, o comunque antica, prevede un Ṛṣabha, un Pārśva e due altri Jina. Il sistema Β è dunque ben delineato.
Sempre da Mathurā proviene l'immagine di una dea jaina assisa, che presenta le stesse caratteristiche iconografiche della dea hindu Sarasvatī. Tale identificazione si evince sia dall'iscrizione, che ne riporta il nome, sia dal libro di forma oblunga che ella reca nella mano sinistra. La sua presenza nell'ambiente puritano dell'antica arte jaina, dove dèi e dee compaiono di rado, è forse spiegabile se si considera che ella non è semplicemente la «dea dell'apprendimento» (come nell'induismo) ma anche l'incarnazione della saggezza dottrinale e che viene talvolta invocata nei testi canonici coevi.
L'arte gupta è importante sia in virtù della sua alta qualità estetica sia per l'influenza che esercitò sulla successiva arte indiana del Nord. L'immagine di un Jina seduto, da Mathurā (400-450 d.C.), illustra bene questo punto. Esso rappresenta un certo tipo standard (Jina e Buddha) che mostra elaborazioni decorative piuttosto che innovazioni iconografiche. Allo stesso tempo, tra il 350 e il 550 d.C. (ovvero in epoca gupta, ma adattandone gli estremi cronologici al nostro schema) si nota una tendenza a produrre innovazioni iconografiche, alcune delle quali avranno vita breve mentre altre lasceranno profondi segni. Tra queste ultime, non tutte rientrano in pieno in quello che siamo soliti definire lo «stile gupta» ma risalgono comunque all'omonima epoca. È possibile seguire lo sviluppo di tale tendenza innovativa più tardi nel Periodo Intermedio in condizioni alquanto diverse.
Uno dei bronzi da Chausa già ricordati, raffigura uno dei primi casi in cui compaiono le «trecce lunghe» di Ṛṣabha, che ricadono sulle sue spalle. Tale nuova formula sta altresì alla base del modo in cui nell'arte post-gupta si indicherà l'opposizione fra Ṛṣabha e i non-Ṛṣabha.
Un pannello jaina su una faccia del pilastro di Kahaum (460 d.C.) rappresenta invece un caso che può forse essere considerato un'innovazione. Esso raffigura comunque in modo molto chiaro il motivo gupta degli elementi vegetali disposti intorno all'aureola. L’uṣṇīṣa, ovvero la protuberanza cranica, è mutuato dall'iconografia buddhista dove tale elemento dell'anatomia soprannaturale compare già in epoca kuṣāṇa, e il pilastro di Kahaum è uno dei più antichi esempi di un Jina con un uṣṇīṣa pienamente sviluppato.
Le immagini rupestri di Jina di Rājgir anticipano in modo inconfondibile tendenze più tarde nell'elaborazione del parikara. Alcuni Jina di Sonbhandar hanno il trono leonino. I due leoni non devono però essere erroneamente interpretati come una ripetizione del veicolo del ventiquattresimo Jina, Mahāvīra. Diversamente è possibile interpretare i due elefanti raffigurati su uno dei rilievi come dei cihna (errati?), sebbene si tratti del Jina n. 23, ovvero di Pārśva, accompagnato dal serpente, e non del n. 2, Ajita, che ha l'elefante come veicolo. È proprio da Räjgir che vengono le prime rappresentazioni gupta dei cihna (sistema A). Va infine considerata un'immagine di Pārśva stante dall'India settentrionale (525-575 d.C.).
Lo stile è ancora «gupta» ma il corpo allungato del Jina si allontana molto dall'anatomia tipica di epoca gupta. Le due figure di attendenti rappresentano l'elemento iconografico di maggior rilievo. Sulla sinistra dell'immagine è una portatrice di parasole con serpente a un solo «cappuccio», a destra è un portatore di flabello con triplice «cappuccio» di serpente. Queste figure di attendenti rappresentano il precedente iconografico delle figure irregolari di attendenti che compaiono in molte raffigurazioni più tarde di Pärsva. Il parasole che funge da copertura appare sopra il cerchio costituito dai «cappucci» del serpente. Esso è dimezzato e reso frontalmente: si tratta di uno sforzo dell'artista di risolvere il problema intrinseco nel canone per le immagini del Jina. Parasole e «cerchio di cappucci» occupano infatti lo stesso posto nella composizione, ed è sempre stato difficile rappresentare il parasole-tetto di Pärsva unitamente al cerchio formato dai «cappucci» del cobra. In una certa misura Pärsva ha, oltre al grande cobra e comunque in rapporto con esso, una sua propria iconografia che probabilmente si sviluppò a partire dal primo quarto del V secolo.
Il Periodo Intermedio. - Si assiste al progressivo emergere degli idiomi locali e alla diffusione dell'arte jaina oltre il triangolo Mathurā-Chausa-Udayagiri. Nell'attività artistica non si nota nessuna cesura rispetto al Periodo II. Ma la committenza è ora decentralizzata, non più rispondente al modello centralizzato precedente. Le immagini a noi giunte sono in bronzo e in pietra. Ci soffermeremo sulle immagini in bronzo poiché quelle in pietra non sembrano di eguale importanza dal punto di vista iconografico. In un'immagine di Ṛṣabha da Vasantgaḍh si vede il toro, cihna di Ṛṣabha (iterato), mentre in un altro bronzo da Chausa è rappresentata la mezzaluna, cihna di Candraprabha (non iterato). La mezzaluna compare qui in cima alla composizione e, assieme a una copia simile dalla stessa località, è l'unico caso nell'arte jaina in cui il cihna occupi una simile posizione. Sia Ṛṣabha che Candraprabha portano le trecce o, più esattamente, trecce «trasformate» con «estensioni». Nel Periodo III trecce trasformate senza estensioni, equivalenti ai riccioli, si trovano spesso nei Jina non-Ṛṣabha, mentre quelle trasformate e con estensioni sono una prerogativa del Jina Rsabha e devono quindi essere considerate come solecismi nel caso in cui il Jina in questione di una composizione sia chiaramente caratterizzato non-Ṛṣabha. Sempre nel Periodo III, il vecchio tipo di trecce rese come bande distinte e parallele non scompare del tutto, e quando è presente sostituisce le trecce trasformate.
Due bronzi appartenenti al famoso tesoro di Akota, rinvenuto a Baroda, rappresentano probabilmente la più antica documentazione dell'iconografia Śvetāṃbara. Essi risalgono sicuramente al Periodo Intermedio e, più precisamente, si collocano nella sua parte centrale (600-700 d.C.). Del resto è solo nell'India occidentale che si sviluppò una tradizione artistica specificamente Śvetāṃbara. Senza dilungarsi sulla scissione fra Śvetāṃbara e Digaṃbara all'interno della Comunità jaina, va ricordato che le divergenze d'opinione riguardanti l'abito dei monaci, ovvero se essi dovessero essere nudi o vestiti della sola dhotī, portarono nei primi secoli della nostra èra a una divisione formale che toccò le sfere della disciplina monastica, della dottrina religiosa e, in generale, di tutta la cultura religiosa. Nacquero così due confessioni distinte: quella Digaṃbara (con i monaci nudi) e quella Śvetāṃbara (con i monaci vestiti di una dhotī bianca). Il jainismo Śvetāṃbara rimase in gran parte confinato al Gujarat e al Rajasthan, dove la produzione di immagini in bronzo ebbe inizio nel Periodo Intermedio e quella delle immagini in pietra nel Periodo III. I Jina nudi scompaiono: le immagini stanti indossano la dhotī (ovvero un panno avvolto intorno ai fianchi), che nelle figure sedute non è visibile ma deve essere considerata presente. Fuori della tradizione dell'arte jaina occidentale tutti i Jina vennero rappresentati nudi o perché commissionati prima della scissione, o perché i committenti appartenevano alla confessione Digaṃbara. L'iconografia j. risentì grandemente di questa mutata situazione sia sul piano artistico (si veda lo speciale vocabolario dei bronzi Śvetāṃbara) sia su quello semi-dottrinale e dottrinale (Jina Śvetāṃbara stanti raffigurati con la dhotī; immagini di Jīvantasvāmin nell'arte Śvetāṃbara; raffigurazioni di Bāhubali nell'arte Digaṃbara). Nello schema cronologico proposto un'arte Śvetāṃbara in quanto tale si è distinta solo per i secoli più tardi (1000-1500 d.C.) poiché inizialmente essa è testimoniata solo da un numero limitato di bronzi.
Per spiegare tutti gli elementi dell'immagine di Ṛṣabha va considerata anche l'acconciatura. È proprio in base all'acconciatura infatti che è possibile stabilire un altro tipo di opposizione fra i Ṛṣabha e i non-Ṛṣabha. Definendo convenzionalmente «trecce laterali» quella parte di capelli che ricadono sulle spalle, notiamo che tale opposizione si esprime o nelle «trecce trasformate con o senza il prolungamento laterale» o nei «riccioli con o senza le trecce laterali» come nell'immagine di Ṛṣabha da Akota. Nell'altro bronzo da Akota è rappresentato Jīvantasvāmin, un Jina con corona e altri ornamenti. Concettualmente è vicino al «Buddha incoronato» anche se nell'ambito del jainismo esiste una distinzione netta fra il Jina, molto comune, e Jīvantasvāmin, molto raro, anche se relativamente più frequente nel Periodo III. Una leggenda vuole che il tipo del Jīvantasvāmin rappresenti Mahāvīra in abbigliamento regale, prima della sua rinuncia.
Non sappiamo con certezza se altri esemplari del tesoro di Akota siano ascrivibili al Periodo Intermedio, ma l'alta qualità dei pezzi descritti testimonia l'esistenza di un'attività artistica di buon livello.
All'epoca compresa fra il 550 e il 750 d.C. risale anche un certo numero di sculture rupestri come, p.es., quelle delle grotte jaina di Bādāml e Aihole (entrambe nel distretto di Bijapur, Karnataka). In entrambi i casi compaiono le rappresentazioni dell'attacco del demone Kamaṭha contro Pārśva, e della pratica ascetica di Bāhubali (figlio del primo Jina Ṛṣabha). Kamaṭha è raffigurato nell'atto di gettare un masso contro Pārśva, mentre Bāhubali medita in posizione così immobile che alle sue gambe si attorcigliano piante rampicanti. Vanno infine ricordati alcuni rilievi rupestri presso Dhank (distretto di Junagaḍh, Gujarat). Per la complessità dei motivi e per altre ragioni non è tuttavia possibile trattare qui in modo esauriente Bādāmī e Aihole, così come Dhank.
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