iceberg
Isole di ghiaccio alla deriva
Non è facile immaginare le straordinarie dimensioni degli iceberg, enormi masse di ghiaccio galleggianti, che, come grandi isole bianche, vagano nei mari freddi dei due emisferi. Originati dai ghiacciai polari, costituiscono ancora un pericolo per le navi
I marinai che solcavano il Mare del Nord (danesi, norvegesi, olandesi) furono i primi a imbattersi nella maestosità degli iceberg, tanto da coniarne questo nome, che nelle loro lingue significa «montagna di ghiaccio». La denominazione è suggestiva, e corrisponde alla meraviglia che coglie chi si imbatte in questi colossi della natura. Nel 1956, l’equipaggio della nave statunitense USS Glacier incontrò durante la navigazione il più grande iceberg che abbia mai attraversato il Mare Antartico: era immenso, lungo 337 km e largo 97, con una superficie pari a una volta e mezza quella della Sardegna.
Gli iceberg si formano nelle regioni polari per distacco delle parti terminali dei ghiacciai che raggiungono il mare. Il fronte del ghiacciaio viene aggredito dalle maree e dal moto ondoso, particolarmente intenso in regioni dove si verificano spesso violente tempeste, e si lacera dando luogo alle montagne di ghiaccio. Gli iceberg possono formarsi anche in seguito allo scontro tra iceberg già alla deriva e parti di un ghiacciaio prolungate in mare. Questo caso si è verificato in Antartide nel Mare di Ross: un grande iceberg (il B15A, attualmente il più grande oggetto galleggiante sugli oceani con una superficie di 3.000 km2) è venuto in contatto il 15 aprile 2005 con una lingua glaciale protesa in mare da cui si è distaccato un ulteriore iceberg, relativamente più piccolo.
Una volta liberi di seguire le correnti oceaniche e la spinta dei venti, gli iceberg si muovono dal luogo di origine, condizionati nel loro viaggio anche dalla forma e dalla profondità del fondale marino. La gran parte della loro massa si trova infatti sotto il livello del mare, fino alla profondità di alcune centinaia di metri. Il galleggiamento dell’iceberg sul mare è dovuto alla piccola differenza di peso specifico tra il ghiaccio – formato da acqua dolce e quindi più leggero – e l’acqua marina salata. Tuttavia, la spinta di Archimede, in questa situazione, è sufficiente solo per far emergere circa l’11% circa della massa totale: per questo il modo di dire «la punta di un iceberg» ha assunto il significato di qualcosa di evidente che però rappresenta la minima parte di un problema più ampio e in gran parte nascosto.
Gli iceberg alla deriva non arrivano mai oltre latitudini inferiori a 50°: a basse latitudini, temperature più elevate accelerano la fusione del ghiaccio. Tuttavia l’enorme mole e la frequente permanenza nei mari freddi garantisce loro una vita prolungata: per esempio, il già citato B15A è soltanto un frammento di un gigantesco iceberg (B15), lungo 295 km, largo 37 km e con spessore massimo di 350 m, distaccatosi nel 2000 dalla copertura glaciale antartica.
Queste immense masse alla deriva costituiscono un pericolo per la navigazione. Sono così operativi alcuni centri di sorveglianza che, con l’ausilio del monitoraggio aereo e da satellite, si occupano di classificare gli iceberg fin dalla nascita e di seguirne l’evoluzione: in Antartide, ciò avviene attribuendo loro una specifica sigla secondo un codice che prevede una lettera, da A a D per la longitudine di origine, e un numero progressivo.
Il 12 aprile 1912 avvenne il celebre disastro del Titanic. Quella notte il transatlantico, alla sua prima crociera, affondò a seguito di uno spaventoso urto contro la parte sommersa di un grande iceberg. Nave tra le più moderne del tempo, il Titanic era considerato inaffondabile, tanto che l’armatore commise il tragico errore di non dotare la nave di scialuppe di salvataggio sufficienti per tutti: 3.547 persone, tra passeggeri ed equipaggio. Vittime delle acque gelide dell’Antlantico del Nord furono circa 1.500 persone. Con il Titanic si inabissò anche il mito del dominio incontrastato della tecnologia sulle forze della natura.