TORRITI, Iacopo
Pittore e mosaicista attivo negli ultimi decenni del XIII secolo a Roma, ad Assisi e forse nel Patrimonium Petri. Non si conoscono né i luoghi né le date della nascita e della morte, e le uniche notizie certe sulla sua attività giungono dalle firme che egli appose ai mosaici absidali romani di S. Giovanni in Laterano («Iacobus Toriti pict[or] [h]o[c] op[us] feccit [sic]») e di S. Maria Maggiore («Iacob[us] Torriti pictor h[oc] op[us] mosiac[um] fec[it]»), eseguiti rispettivamente nel 1291 e nel 1295 o 1296, e dall’iscrizione, perduta ma tràdita, del pannello musivo che ornava il monumento funebre di Bonifacio VIII in Vaticano («Iacob[us] Toriti pictor»; 1295-96 circa). Allo Iacopo pittore citato nell’iscrizione lateranense, situata nel margine inferiore sinistro della calotta absidale e riprodotta piuttosto fedelmente nei restauri del 1883-84, è stata da sempre collegata la piccola figura, con compasso e squadra, inginocchiata tra i ss. Giacomo e Simone, posti all’estrema sinistra dell’emiciclo absidale, riconoscendovi il ‘ritratto’ dell’artista. Se così fosse, il saio e la corda da questi indossati ne farebbero, senza dubbio, un membro dell’ordine francescano, al pari dell’altra figura rappresentata all’estrema destra dell’emiciclo, tra i ss. Bartolomeo e Matteo, nella medesima posizione ma con in mano un martello e una lastra, su cui si legge l’epigrafe che la individua come «Fra[ter] Iacob[us] de Camerino soci[us] mag[ist]ri op[er]is». Gli strumenti da lavoro tenuti dal presunto Torriti hanno spinto alcuni studiosi (Tomei, 1990, p. 80; Pace, 1996) ad attribuirgli anche il ruolo di architetto, mentre altri (Andaloro - Viscontini, 2003) hanno preferito vedervi gli attributi di un magister parietarius, progettista dunque dell’opera, rispetto al musivarius Iacopo da Camerino, esecutore del mosaico e suo collaboratore («socius magistri operis»). Riguardo alla sua eventuale appartenenza all’ordine francescano, l’unico neo, per un’ipotesi risalente già all’Itineriarum Urbis Romae di Mariano da Firenze (1517, 1931) – che trae ispirazione dalla trecentesca Sancti Antonii Legenda Prima – e largamente accettata poi dalla critica, è nell’assenza del termine «frater» prima del nome, risolta da alcuni studiosi con la proposta, non del tutto convincente però (Bolgia, 2012), che l’artista fosse un terziario e non un frate (Ciardi Duprè dal Poggetto, 1991, pp. 208-210). Su un altro versante, il legame con l’ordine dei minori ha contribuito, in passato, a dare sostegno alla tradizionale identificazione del Torriti romano con il «Jacobus sancti Francisci frater» attivo ai mosaici duecenteschi della scarsella del battistero di Firenze. Diffusasi grazie all’autorità di Giorgio Vasari (1568, 1969), la tesi, priva di ogni fondamento stilistico, ha però lungamente resistito, almeno fino all’edizione delle Vite vasariane curata da Vincenzo Marchese, Carlo Pini e Carlo e Gaetano Milanesi (1846, p. 284) – in cui l’identificazione viene respinta per ragioni cronologiche – e con la sola eccezione di Giulio Mancini (1617-1621, 1956), al quale si deve, tuttavia, la trasmissione di un’altra convinzione storiografica di successo, ovvero la provenienza dell’artista da Torrita di Siena, da cui è scaturito nei secoli successivi una sorta di iper-interessamento, fortemente campanilistico, da parte dell’erudizione senese (De Angelis, 1821).Il giudizio negativo di Vasari – che riserva a Torriti poche righe nella biografia di Andrea Tafi e definisce la sua opera «poco lodevole» – ha certamente pesato nelle costanti omissioni e nei luoghi comuni che ne hanno caratterizzato nella letteratura artistica la figura, sofferente anche del confronto con Pietro Cavallini. Da questa prospettiva, a Giulio Mancini – il cui interesse iniziale per Iacopo può forse attribuirsi alla supposta origine senese del mosaicista – va riconosciuto il merito non solo di una corretta storicizzazione della pittura centroitaliana della fine del Duecento ma, nello specifico, anche di un buon inquadramento della figura di Torriti, che si ritrova poi solo nella Storia pittorica dell’abate Luigi Lanzi, al quale sembrava che l’artista «si volgesse all’imitazione degli antichi, prendesse norma dai musaici […] che in più chiese di Roma durano ancora, e presentano disegno men rozzo […] che non abbiano i Greci» (1795, 1968), giustamente evidenziando sia il rapporto con la pittura bizantina, sia l’ispirazione ai modelli antichi.
Di certo, il vero passo critico in avanti venne compiuto da Giovanni Battista Cavalcasalle, che, studiando il pittore con un moderno approccio storico-artistico, pose per la prima volta sul piatto un problema destinato a divenire quasi endemico della storiografia torritiana, ovvero quello della presenza del pittore nel cantiere della basilica superiore di Assisi (Crowe - Cavalcaselle, 1875), problema inevitabilmente connesso alla più ampia questione del ruolo svolto dagli artisti romani nello sviluppo della cultura figurativa dello scorcio del Duecento. Le questioni attributive assisiati divennero, di fatto, il nodo critico più affrontato nei successivi studi riguardanti l’artista (Strzygowski, 1888; Zimmermann, 1899; Nicholson, 1930; Toesca, 1948; Belting, 1977; Bellosi, 1983; Romano, 1995a, e 2001), insieme certamente alle riflessioni di ambito più strettamente romano sui rapporti con i mosaici tardoantichi, e fu solo nell’ultimo cinquantennio del secolo scorso che iniziarono a suscitare interesse anche questioni più ampie, quali la subordinazione nei riguardi di Pietro Cavallini, l’inquadramento troppo rigido dell’artista come esponente di un bizantinismo arcaico pur se rivitalizzato dal confronto con i modelli antichi, la presunta dipendenza dalle innovazioni della più progressista pittura toscana, fino ai ragionamenti sui suoi esordi (Hueck, 1969-1970; Gardner, 1973; Tomei, 1990; Boskovits, 1997; Romano, 1995b). Per una riflessione su quest’ultimo quesito, appare determinante la riscoperta materiale e storiografica, negli ultimi decenni, delle pitture della cappella del Sancta Sanctorum, nella quale dovette probabilmente essere attivo un giovane Torriti (ibid., p. 82; Bellosi, 1998, p. 83), messo in tal modo anche nelle condizioni di farsi apprezzare dalla committenza pontificia, che gli avrebbe affidato poi la realizzazione di importanti opere. Quello degli inizi di Torriti – riconosciuti anche nella ‘quarta navata’ della chiesa romana di S. Saba da Luciano Bellosi (p. 85) e da Miklós Boskovits (1997, p. 14; Id., 2001, p. 152), oppure da quest’ultimo anche nella Madonna Advocata di S. Maria Maggiore a Tivoli o in alcuni ritratti papali a S. Paolo fuori le Mura – rimane comunque un problema decisamente annoso.
Il mosaico realizzato per S. Giovanni in Laterano è, allo stato attuale, frutto del radicale rifacimento del 1880-83, durante il quale l’opera torritiana venne distrutta e rifatta, riproducendo però fedelmente il primitivo schema compositivo, sebbene una parte della critica dibatta ancora sulla possibile presenza di brani musivi originali riposizionati a fine restauro (Id., 1997, p. 5; Giesser, 2017a, p. 52). La data di esecuzione, a suo tempo iscritta nel mosaico e tramandata in modo non univoco, può, tuttavia, essere fissata con una certa sicurezza al 1291, mentre non sussiste dubbio alcuno sulla committenza da parte di papa Niccolò IV (1288-92), raffigurato ai piedi della Vergine e ricordato quale mecenate nella perduta iscrizione. Primo pontefice francescano della storia e già generale dei frati minori, Niccolò volle ribadire il ruolo di primo piano assunto nel giro di pochi decenni dall’ordine con l’innovativo inserimento nel consesso sacro del mosaico dei ss. Francesco e Antonio di Padova, in dimensioni però più ridotte. A essi si affiancano le tradizionali figure della Vergine, di Pietro e Paolo, del Battista, dell’evangelista Giovanni e di s. Andrea, posti ai lati del gruppo centrale croce-busto di Cristo, in una composizione d’insieme che sviluppa un nucleo-chiave teofanico a forte vocazione simbolica, ma capace di evocare la liturgia e la storia della basilica. A questa, in particolare, si ricollega la scelta di reimpiegare nel mosaico duecentesco il più antico busto di Cristo (V sec.?), vera icona-reliquia della chiesa lateranense, come hanno dimostrato sia i dati tecnici forniti dai restauratori, sia il testo dell’iscrizione dedicatoria di Niccolò IV, che cita esplicitamente il riutilizzo del sacrum vultum. La stessa iscrizione, ricordando come il pontefice si fosse occupato del restauro e della decorazione sia della parte posteriore che di quella anteriore della chiesa, ha fatto riflettere sulla possibilità che anche il medaglione musivo con il busto di Cristo, situato oggi nel timpano della facciata della basilica in una cornice settecentesca, possa essere parte della campagna decorativa attuata da Torriti per volere di Niccolò IV (Giesser - Romano, 2017).
Di certo la fiducia e la stima del papa nei riguardi del nostro artista dovettero essere notevoli, se una manciata di anni dopo l’impresa del Laterano lo chiamò a realizzare anche il mosaico absidale di S. Maria Maggiore, portato a termine nel 1296 – secondo Alessandro Tomei (1990), che si basa sul manoscritto 1792 della Biblioteca Angelica di Roma – o, stando a un altro gruppo di fonti (Ugonio, 1588; De Angelis, 1621), già concluso entro il 1295, comunque sempre dopo la morte di Niccolò IV, su interessamento del cardinale Giacomo Colonna. Il mosaico torritiano si compone di due zone distinte: una superiore, iconica, raffigurante l’Incoronazione della Vergine – in un clipeo sorretto da angeli e affiancato dai ss. Pietro, Paolo e Francesco a sinistra, Giovanni Evangelista, il Battista e Antonio di Padova a destra e inginocchiati i due donatori Niccolò IV e il cardinal Colonna – e una inferiore, narrativa, dove si sviluppano le storie mariane, con la Natività e l’Annunciazione a sinistra, l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio a destra, e, al centro, la Dormitio Virginis, che interrompe la sequenza storica degli eventi, occupando una superficie doppia, in asse con l’Incoronazione. Proprio la forte sottolineatura, anche visiva, del nesso tra queste due scene e la sua rarità in ambito figurativo sono state oggetto di approfondimenti, che ne hanno sottolineato ora il collegamento con la riflessione mariologica francescana (Gardner, 1973, p. 10) – convinta dell’assunzione integrale della Vergine e, dunque, del rapporto progressivo tra la sua morte e l’incoronazione –, ora il legame con la tradizione liturgica romana, che chiamava la festa del 15 agosto Dormitio sancta Dei Genitricis Mariae, e a cui rimandano anche le epigrafi con anti-inni intonati durante i riti dell’Assunzione (Menna, 1987, pp. 218 s.). Da un punto di vista esecutivo, il mosaico del catino è fortemente omogeneo e la presenza di eventuali aiuti risulta più evidente nelle scene dell’emiciclo, sempre, tuttavia, nel quadro di una generale regia di Torriti, di cui si riconoscono le straordinarie variazioni di colore volte a creare l’impressione di spazio e profondità nonché la tecnica pittorica, molto vicina a quella del raffinato modus operandi bizantino. Dove e in che modo l’artista avesse potuto meditare così attentamente su tale pittura è difficile da stabilire, sebbene il contesto francescano potesse costituire un tramite interessante con l’Oriente e la Terra Santa. Tuttavia, come già intuito da Pietro Toesca (1927), Torriti fu, stilisticamente parlando, una personalità decisamente innovativa, in grado di fondere in un discorso originale le eredità classiche e bizantine con le novità in elaborazione nel panorama gotico. Sempre riguardo a S. Maria Maggiore, su base stilistica è stato attribuito a Torriti anche il frammento musivo con la parte superiore del volto della Vergine fortunosamente rinvenuto all’esterno dell’abside della chiesa nel dicembre 1998 nel corso di restauri al mosaico del catino. Occultata durante i lavori seicenteschi di Carlo Rainaldi, l’immagine della Vergine faceva parte di un più ampio programma decorativo, che comprendeva un’Adorazione dei Magi e le figure di diverse sante (Nesselrath, 2017), e che – vale la pena evidenziarlo – già Giulio Mancini assegnava alla mano di Iacopo (1617-1621, 1956).
Nel quadro di queste poche certezze cronologiche si inserisce il ‘problema Assisi’, che agita le acque della critica torritiana oramai dai tempi di Cavalcaselle e che ha risentito certamente sia del più ampio dibattito, non ancora risolto, riguardante i tempi della decorazione della basilica francescana, sia dell’atavica questione degli esordi di Giotto e del ‘rinnovamento’ della pittura italiana. Sulla definizione dell’attività di Torriti nella chiesa assisiate, ricercata quasi esclusivamente attraverso l’analisi stilistica, ha pesato non poco anche una sorta di esigenza attributiva, di spettanze di mano, propria degli studi di buona parte del Novecento, a fronte, invece, di un cantiere assai ricco di personalità, di collaborazioni e scambi, e dunque molto più fluido.
Se per alcuni studiosi gli esordi di Torriti ad Assisi si troverebbero già nella zona del transetto (Hueck, 1969-1970; Boskovits, 1971 e 1997; Andaloro - Viscontini, 2003), dove potrebbe essere stato tra i collaboratori con il cosiddetto Maestro oltremontano – tramite forse interessante per le conoscenze del ‘gotico’ da parte del nostro artista –, la gran parte della critica li individua invece nell’affrescatura della navata, dove per volontà del solito Niccolò IV avrebbe lavorato, con un’ampia bottega, alle storie vetero e neotestamentarie nei registri superiori delle pareti, secondo il modello normativo delle grandi chiese dell’Urbe, volto a rimarcare il carattere romano e papale della basilica assisiate. L’autografia torritiana è ancora oggi oggetto di forti oscillazioni – tra ampie dilatazioni e notevoli restringimenti –, e trova quasi concorde la critica solo riguardo all’esecuzione della volta della seconda campata (con Cristo, la Vergine, il Battista e S. Francesco) e dell’episodio della Creazione del mondo, cui fa riferimento lo straordinario disegno preparatorio con il volto dell’Eterno (Assisi, Museo del Tesoro), immediatamente ricollegabile al Cristo del mosaico di S. Maria Maggiore. Laddove ben riconoscibile, come in questi casi, il linguaggio di Torriti appare assai maturo e pregno di quel classicismo, della naturalistica resa plastica e del sapiente cromatismo già individuati nella decorazione musiva della basilica liberiana. Di certo ancora da chiarire – ad Assisi ma anche a Roma – resta il rapporto con Filippo Rusuti, presente con molta probabilità tra gli artisti della compagine romana cui si deve il ciclo testamentario assisiate, come mostra bene anche il repertorio di mensole e cassettoni in prospettiva, girali, mascheroni e animali fantastici tipico della pittura dell’Urbe. A testimonianza di tale complesso ma fruttuoso rapporto si pone la recente attribuzione a Rusuti, sulla base del nome scritto sul bordo della tavola, della Madonna di S. Maria del Popolo, in passato inserita assai di frequente nel catalogo torritiano (Filippo Rusuti, 2018). Quest’ultimo è stato variamente arricchito o depauperato su base esclusivamente stilistica, e andrebbe piuttosto considerato nel quadro di un panorama di artisti molto più articolato, di una bottega o di collaboratori vicini al Torriti, attivi nei vari cantieri romani (affreschi con il ciclo della vita umana all’abbazia delle Tre Fontane, decorazione pittorica della ‘quarta navata’ di S. Saba, lunetta del portale laterale dell’Aracoeli, dipinto con la Vergine e il Bambino, santi e donatore nella Rotonda dei Ss. Cosma e Damiano, le tre figure di Vergini a sinistra nel mosaico di facciata di S. Maria in Trastevere, la tavola con S. Lucia e una donatrice del Museo di Grenoble, l’Advocata di S. Maria Maggiore a Tivoli). Una diretta partecipazione dell’artista è, invece, attestata, di nuovo per via epigrafica (Roma, Biblioteca Angelica, ms. 1792, c. 3r), per il mosaico del perduto monumento funebre di papa Bonifacio VIII, in origine addossato alla controfacciata dell’antica basilica di S. Pietro e di cui restano oggi solo i frammenti del busto del Bambino (Mosca, Museo Puškin) e del volto della Vergine (New York, Brooklyn Museum). Realizzato tra il 1295 e il 1296 in collaborazione con Arnolfo di Cambio, il monumento presentava nella parte superiore un mosaico, firmato «Jacob[us] Tor(r)iti pictor», in cui Pietro e Paolo introducevano Bonifacio VIII, inginocchiato ai piedi del primo, al cospetto della Vergine con il Bambino, inseriti in un clipeo, sormontante a sua volta un’etimasia.
Per molti studiosi questa sarebbe l’ultima opera eseguita da Torriti prima della morte, da collocarsi dunque ipoteticamente intorno alla metà degli anni Novanta del Duecento.
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